THE EUROPEAN COURT OF HUMAN RIGHTS
Judgment
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
1959 – 50 – 2009
QUARTA SEZIONE
CASO GIULIANI e GAGGIO c/ITALIA
(Ricorso n. 23458/02)
SENTENZA
STRASBURGO
25 agosto 2009
La presente sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire variazioni di forma.
Traduzione in lingua italiana
a cura del Ministero della Giustizia
Nel caso Giuliani e Gaggio c/Italia,
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (quarta sezione), costituita in una Camera composta da:
Nicolas Bratza, presidente,
Josep Casadevall,
Lech Garlicki,
Giovanni Bonello,
Vladimiro Zagrebelsky,
Ljiljana Mijović,
Ján Šikuta, giudici,
e da Lawrence Early, cancelliere di sezione,
Dopo avere deliberato in camera di consiglio il 26 giugno 2008 e il 18 giugno 2009,
Pronuncia la seguente sentenza, adottata in tale ultima data:
PROCEDIMENTO
1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 23458/02) nei confronti della Repubblica italiana con cui tre cittadini di quello Stato, il sig. Giuliano Giuliani, la sig.ra Adelaide Gaggio (coniugata Giuliani) e la sig.ra Elena Giuliani (« i ricorrenti »), hanno adito la Corte il 18 giugno 2002 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (« la Convenzione »).
2. I ricorrenti sono stati rappresentati dagli Avv. N. Paoletti e G. Pisapia, del foro di Roma. I ricorrenti sono rispettivamente il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani. Il governo italiano (« il Governo ») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dal suo co-agente, F. Crisafulli.
3. I ricorrenti adducevano in particolare che Carlo Giuliani era deceduto a causa di un ricorso eccessivo alla forza pubblica.
4. Una pubblica udienza dedicata all’esame contestuale delle questioni di ammissibilità e di merito (articolo 54 § 3 del regolamento) si è tenuta al Palazzo dei diritti dell’uomo, a Strasburgo, il 5 dicembre 2006 (articolo 59 § 3 del regolamento).
Sono comparsi :
– per il Governo
F. CRISAFULLI, co-agente;
– per i ricorrenti
N. PAOLETTI,
A. MARI,
G. PAOLETTI, avvocati del foro di Roma consulenti legali.
5. Con decisione del 6 febbraio 2007, la camera ha dichiarato ammissibile il ricorso.
6. Sia i ricorrenti sia il Governo hanno depositato osservazioni scritte complementari (articolo 59 § 1 del regolamento). Entrambe le parti hanno presentato commenti scritti sulle osservazioni della controparte.
IN FATTO
I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO
7. I ricorrenti sono nati rispettivamente nel 1938, 1944 e 1972 e risiedono a Genova e a Milano.
A. Il contesto nel quale si è svolto il G8 di Genova e le circostanze che hanno preceduto il decesso di Carlo Giuliani
8. I giorni 19, 20 e 21 luglio 2001 si svolse a Genova il cosiddetto vertice del «G8». In città furono organizzate numerose manifestazioni «no-global» e le autorità italiane attivarono un imponente dispositivo di sicurezza. La legge n. 349 dell’8 giugno 2000 autorizzava il prefetto di Genova a ricorrere al personale delle forze armate. Con una rete metallica fu delimitata una «zona rossa» nella parte della città sede degli incontri del G8 (vale a dire il centro storico della città), così da consentirvi l’accesso ai soli residenti e addetti ai lavori. L’accesso al porto era stato vietato e l’aeroporto chiuso al traffico. La zona rossa era inserita in una zona gialla, a sua volta circondata da una zona bianca (zona normale).
9. Quanto agli ordini scritti del comandante delle forze dell’ordine, responsabile del mantenimento e del ristabilimento dell’ordine pubblico, il Governo ha presentato alla Corte ordini di servizio datati 14, 17 e 19 luglio 2001. Ciascuno di quegli ordini di servizio inizia con la frase: «il presente ordine di servizio modifica ed integra come segue l’ordine di servizio n. 2143/R del 12 luglio relativo ai servizi d’ordine e di sicurezza previsti per il vertice dei G8 che si terrà a Genova dal 20 al 22 luglio». L’ordine di servizio del 12 luglio non è stato trasmesso alla Corte.
10. L’ordine di servizio del 19 luglio 2001 è quello della vigilia dei fatti. Esso riassume così le priorità delle forze dell’ordine: predisporre all’interno della «zona rossa» una linea di difesa in grado di respingere rapidamente ogni tentativo d’intrusione; predisporre all’interno della «zona gialla» una linea di difesa in grado di far fronte ad ogni azione, tenuto conto del posizionamento dei manifestanti in diversi punti nonché delle azioni poste in essere da elementi più estremisti; infine, adottare misure di ordine pubblico lungo gli assi interessati dalle manifestazioni, tenuto conto del pericolo di aggressioni favorito dagli effetti di massa.
11. Le parti convengono sul fatto che l’ordine di servizio del 19 luglio 2001 ha modificato i piani stabiliti fino a quel momento quanto al modo di dispiegare le risorse ed i mezzi disponibili, al fine di poter bloccare efficacemente ogni tentativo di penetrazione nella zona rossa da parte di partecipanti alla manifestazione delle «Tute bianche», annunciata ed autorizzata per l’indomani.
Basandosi su testimonianze rese nell’ambito di un procedimento penale avviato nei confronti di venticinque manifestanti (si veda, infra, il «processo dei 25»), i ricorrenti hanno sostenuto che l’ordine di servizio del 19 luglio aveva attribuito al plotone di carabinieri in questione una funzione dinamica, mentre prima esso avrebbe avuto un ruolo statico.
Quanto al modo in cui sono state diffuse le istruzioni, il Governo ha comunicato che gli ordini impartiti e ricevuti dagli ufficiali sul campo sono stati trasmessi oralmente. I ricorrenti, da parte loro, fanno riferimento alle testimonianze rese al pubblico ministero, ed anche nell’ambito del «processo dei 25», in particolare dal sig. Lauro (successivo paragrafo 56).
12. Le parti convengono nell’affermare che è stato predisposto un sistema di comunicazioni radio con una centrale operativa situata presso la questura e che detta centrale era in contatto radio con le forze presenti sul campo. I carabinieri e gli agenti di polizia non potevano comunicare direttamente tra loro via radio; potevano contattare unicamente la centrale operativa.
13. Risulta dalla sentenza pronunciata nel «processo dei 25» (si veda infra), acquisita agli atti, che prima dell’inizio del G8 vi erano stati momenti di tensione: il 16 luglio, una bomba era stata recapitata ai carabinieri. Il 17 luglio, un furgone contenente un congegno esplosivo era stato scoperto vicino alla stadio Carlini, luogo destinato ad ospitare i partecipanti alla grande manifestazione del 20 luglio (il corteo delle «Tute bianche»). Il 18 luglio, le forze dell’ordine si portarono allo stadio Carlini per effettuare dei controlli. Sul posto si trovavano circa 500 manifestanti. L’ispezione durò all’incirca un’ora e si svolse alla presenza di giornalisti. I manifestanti presentavano «strumenti di difesa individuali», vale a dire scudi in plexiglas e indumenti in grado di assorbire eventuali urti con le forze dell’ordine.
14. La suddetta sentenza riporta che, la mattina del 20 luglio, gruppi di manifestanti particolarmente aggressivi, incappucciati e mascherati (i «black block») provocarono numerosi incidenti e scontri con le forze dell’ordine. Verso le ore 13.30, il corteo delle «Tute bianche» era pronto a sfilare. La partenza era prevista dallo stadio Carlini. La manifestazione raggruppava diverse organizzazioni: rappresentanti del movimento «no global», dei centri sociali, dei giovani comunisti del Partito «Rifondazione Comunista». Essi credevano nella contestazione non violenta (disobbedienza civile), ma avevano annunciato un obiettivo politico: tentare di valicare il confine della zona rossa. Per questo motivo, il 19 luglio 2001, il questore di Genova aveva vietato al corteo delle «Tute bianche» di penetrare nella zona rossa e in quella adiacente ed aveva dispiegato le forze dell’ordine in modo da fermare il corteo all’altezza di piazza Verdi. Il corteo poteva sfilare quindi tra lo stadio Carlini e piazza Verdi, percorrendo via Tolemaide in tutta la sua lunghezza, ossia ben oltre l’incrocio tra detta via e corso Torino, incrocio dove si svolsero i fatti di cui si parlerà più avanti. Verso le ore 13.30, il corteo si mosse e avanzò lentamente verso ovest. Durante la discesa, i manifestanti apparvero tranquilli ed allegri, almeno fino a quando scorsero delle colonne di fumo in direzione di via Canevari ed una vettura interamente incendiata in via Montevideo. Ciò determinò una certa tensione. Nel settore di via Tolemaide, vi erano tracce di precedenti disordini. Un gruppo di contatto composto da politici e giornalisti muniti di cineprese e macchine fotografiche camminava in testa del corteo. Quest’ultimo rallentò e si fermò ripetutamente. Più giù, nella zona di via Tolemaide, alcuni scontri opposero persone mascherate e incappucciate alle forze dell’ordine. Il corteo raggiunse il tunnel della ferrovia, all’incrocio di corso Torino. Improvvisamente, alcuni carabinieri, ai comandi del sig. Mondelli, lanciarono lacrimogeni sul corteo.
15. Il sig. Mondelli, comandante della compagnia dei carabinieri Alpha, aveva comunicato alla centrale che la sua radio poteva solo ricevere le comunicazioni e che lui non disponeva di una guida di Genova che conoscesse bene le strade. Si trovava in piazza Tommaseo con duecento carabinieri. Questi avevano in dotazione il nuovo sfollagente Tonfa, uno scudo, nuovi lacrimogeni CS e lancialacrimogeni, una tuta ignifuga ed equipaggiamenti antincendio. Alle ore 14.29, la centrale radio ordinò al comandante Mondelli di portarsi velocemente in piazza Giusti, perché il corteo delle «Tute bianche» stava percorrendo corso Gastaldi. Il comandante Mondelli eseguì. Tre erano gli itinerari possibili per raggiungere il punto di destinazione. Egli scelse quello che lo esponeva al rischio d’incrociare il corteo delle «Tute bianche», vale a dire l’itinerario che passava per via d’Invrea ed incrociava corso Torino. Qualche minuto prima delle ore 15, ritrovatisi sulla strada dei manifestanti, i carabinieri attaccarono il corteo delle «Tute bianche» utilizzando prima i gas lacrimogeni, poi avanzando ed usando gli sfollagente. Il corteo fu respinto verso est (all’incrocio con via Casaregis). L’assalto durò circa due minuti. Non era stato ordinato né dalla centrale operativa dei carabinieri né dalla persona che aveva la necessaria competenza. I carabinieri respinsero i manifestanti fino all’incrocio con via d’Invrea. Lì, questi ultimi si divisero: alcuni si diressero verso il mare, altri ripararono in via d’Invrea, poi nel settore di piazza Alimonda. Alcuni manifestanti reagirono. Trovarono oggetti adatti ad essere utilizzati come corpi contundenti, quali bottiglie di vetro e contenitori della spazzatura, ed iniziarono a lanciarli contro le forze dell’ordine. Alcuni blindati dei carabinieri percorsero a gran velocità via Casaregis e via d’Invrea, sfondando le barricate innalzate dai manifestanti con alcuni cassonetti e provocando l’allontanamento dei manifestanti presenti sul posto. Alle ore 15 e 22 minuti e 52 secondi, la centrale operativa ordinò al comandante Mondelli di farsi da parte e di lasciare passare il corteo delle «Tute bianche». Concluso l’assalto, i carabinieri si ritirarono in via Casaregis poi in via d’Invrea, in direzione nord, poi seguirono via Tolemaide, verso ovest.
16. Alcuni manifestanti organizzarono una risposta violenta e scontri con le forze dell’ordine. Verso le ore 15.40, un gruppo di manifestanti attaccò un furgone blindato dei carabinieri e in seguito lo incendiò.
17. Verso le ore 17, il battaglione Sicilia, composto da una cinquantina di carabinieri postati vicino a piazza Alimonda, notò la presenza di un gruppo di manifestanti, all’apparenza molto aggressivi.
18. Il funzionario di polizia Lauro ordinò ai suddetti carabinieri di caricare i manifestanti. A piedi e seguiti da due jeep Defender, i carabinieri caricarono.
19. Poco dopo, i manifestanti riuscirono tuttavia a respingere l’attacco delle forze dell’ordine. I carabinieri ripiegarono in ordine sparso nei pressi di piazza Alimonda, lasciando senza protezione le due jeep Defender al seguito del dispositivo (il pubblico ministero, nella richiesta di archiviazione del caso, descrive ciò come «ripiegamento disordinato che lascia scoperti i due defender che si trovano alle spalle del reparto»). Le immagini riprese dall’elicottero mostrano i manifestanti che avanzano in via Caffa, alle ore 17.23, inseguendo le forze dell’ordine.
B. Il decesso di Carlo Giuliani
20. Le due jeep in questione si bloccarono reciprocamente in piazza Alimonda. Mentre una di esse alla fine riusciva ad allontanarsi, l’altra, per una manovra sbagliata del conducente, rimase ferma in piazza Alimonda, bloccata da un cassonetto rovesciato.
21. La jeep fu raggiunta da un gruppo di manifestanti armati di pietre, bastoni e spranghe di ferro. I finestrini laterali posteriori e il lunotto della jeep furono infranti. I manifestanti urlarono ingiurie e minacce all’indirizzo degli occupanti della jeep e lanciarono pietre contro il veicolo.
22. A bordo della jeep, si trovavano tre carabinieri: Mario Placanica, Filippo Cavataio e Dario Raffone.
23. Uno di loro, Mario Placanica (di seguito «M.P.»), era un granatiere di vent’anni. Intossicato dalle granate lacrimogene che aveva lanciato nel corso di precedenti scontri, era stato autorizzato dal capitano Cappello (comandante del contingente ECHO, in seno al CCIR - «contingente di contenzione e intervento risolutivo») a salire sulla jeep per allontanarsi dal luogo del precedente scontro. Accoccolato nella parte posteriore della jeep, ferito, in preda al panico, proteggendosi da un lato con uno scudo (stando alla dichiarazione del manifestante Predonzani), urlando ai manifestanti di andarsene, «altrimenti li avrebbe uccisi», M.P. estrasse la sua Beretta 9mm, la puntò in direzione del lunotto infranto del veicolo e, dopo qualche decina di secondi, sparò due colpi.
24. Il primo colpo raggiunse Carlo Giuliani al volto, sotto l’occhio sinistro, e lo ferì gravemente, quando questi si trovava al massimo a qualche metro dalla parte posteriore della jeep ed aveva appena raccolto un estintore vuoto. Carlo Giuliani stramazzò vicino alla ruota posteriore sinistra del veicolo.
25. Poco dopo, Filippo Cavataio (di seguito «F.C.»), il conducente, riuscì a ripartire e, per liberarsi, fece marcia indietro, passando così sul corpo di Carlo Giuliani. Inserì la prima marcia e passò una seconda volta sul corpo di Carlo Giuliani lasciando il luogo. La jeep si diresse quindi verso piazza Tommaseo.
26. Dopo «pochi metri», il maresciallo dei carabinieri Amatori salì a bordo della jeep e si mise al volante, «dato che il conducente era in stato di shock». Anche il carabiniere Rando salì sul veicolo.
27. Partita la jeep, J.M., un manifestante, si avvicinò a Carlo Giuliani e notò che costui perdeva molto sangue, il quale fuoriusciva da un foro situato vicino all’occhio sinistro, e che «il polso di Carlo Giuliani era molto veloce e debole». Alcuni istanti più tardi, in seguito all’arrivo di diversi carabinieri e agenti di polizia, J.M. si allontanò da Carlo Giuliani.
28. Alcuni agenti di polizia posizionati sull’altro lato di piazza Alimonda intervennero e dispersero i manifestanti (stando alla dichiarazione del capitano Cappello). Furono raggiunti da alcuni carabinieri.
29. Alle ore 17 e 27 minuti e 25 secondi, un agente di polizia presente sul posto chiamò la centrale operativa per chiedere un’ambulanza. In seguito, un medico arrivato sul posto constatò il decesso di Carlo Giuliani.
1. Le indicazioni fornite dalle parti in merito agli istanti precedenti la morte di Carlo Giuliani
30. Gli istanti precedenti la morte di Carlo Giuliani sono stati ricostruiti come segue nella nota del ministero dell’Interno, che il Governo ha fatto acquisire agli atti:
«Alle ore 6.00, il settore ricevette l’ordine di servizio e tre plotoni si sistemarono nei pressi della Questura. Dopo qualche ora, il contingente fu sciolto; due plotoni rimasero.
Verso la fine della mattinata, il contingente fu mandato in piazza Tommaseo, dove giunse quando gli scontri con i manifestanti erano terminati. Il funzionario di polizia Lauro assunse il comando del contingente.
Gli uomini furono postati in via Rimassa, nei pressi dei giardini King, e si trovarono esposti al lancio di oggetti vari. A partire dalle ore 15.00, seguendo i manifestanti, il contingente percorse via Ivrea e arrivò in piazza Alimonda, dove la situazione era relativamente calma; il contingente fu quindi riorganizzato. I carabinieri presenti erano circa una cinquantina.
Le due jeep Defender, utilizzate per assicurare il collegamento tra i contingenti, erano sul posto. Il funzionario di polizia Lauro e il capitano Cappello decisero di disporre il contingente in via Caffa, in direzione di via Tolemaide, per far fronte ad un gruppo di manifestanti che avevano innalzato una barricata utilizzando dei cassonetti. I carabinieri furono oggetto di una fitta serie di lanci di pietre e bottiglie. Temendo di essere raggiunti da altri manifestanti provenienti da via Odessa, i carabinieri ripiegarono a piedi, lasciando scoperte le due jeep che si trovavano dietro il contingente.
Nell’agitazione del momento, i conducenti delle due jeep cercarono di ripiegare al più presto, a marcia indietro, verso piazza Tommaseo. Nel tentativo di fare retromarcia, le jeep si ostacolarono reciprocamente; quella guidata da Filippo Cavataio (F.C.) non riuscì a terminare la manovra e si ritrovò bloccata davanti da un cassonetto. Qualche istante dopo, la jeep fu raggiunta da manifestanti provenienti da via Tolemaide e da via Odessa.».
31. Basandosi tra l’altro su testimonianze rese da membri delle forze dell’ordine durante il «processo dei 25», i ricorrenti descrivono così le circostanze della morte di Carlo Giuliani:
«Il corteo delle «Tute bianche» giunse in via Tolemaide verso le ore 14.50. Alle ore 14.53, le forze dell’ordine (la compagnia dei carabinieri provenienti dal battaglione Lombardia) lo attaccarono. Gli assalti si ripeterono otto volte e furono dati con diciannove blindati, autopompe, lacrimogeni, sfollagente. L’ultimo attacco avvenne alle ore 17.15.
Nel frattempo, la compagnia Echo – che aveva aiutato il battaglione Lombardia in alcuni degli assalti – si era posizionata in piazza Alimonda-via Caffa, agli ordini del funzionario di polizia Lauro. Due jeep Defender la raggiunsero. I carabinieri poterono togliere le maschere antigas, mangiare e riposarsi.
Contemporaneamente, la polizia, agli ordini del funzionario di polizia Fiorillo, era posizionata in via Caffa.
In questo contesto tranquillo, il capitano Cappello ordinò a M.P. e a D.R. di salire a bordo di una delle due jeep. Egli riteneva opportuno far salire a bordo i due carabinieri, in quanto essi erano psicologicamente «a terra» e non rispondevano più ai requisiti fisici per essere in servizio. Inoltre, ritenendo opportuno che M.P. smettesse di lanciare lacrimogeni, Cappello gli tolse il lancialacrimogeni e la borsa contenente i gas lacrimogeni.
Alle ore 17.20, la compagnia ECHO, composta in quel momento da un centinaio di uomini, eseguì l’ordine del funzionario di polizia Lauro, indossò nuovamente le maschere antigas e gli scudi e si mise in marcia in via Caffa verso via Tolemaide. Fu deciso di attaccare il corteo, alla presenza del tenente colonnello Truglio. Le due jeep seguivano il plotone. Diversi cassonetti fungevano da barriera ai manifestati. La compagnia ECHO iniziò la ritirata percorrendo via Caffa, in direzione di piazza Alimonda. La ritirata fu accompagnata dalle due jeep che viaggiavano a marcia indietro. Circa settanta manifestanti seguirono i carabinieri. Giunta in piazza Alimonda, la jeep a bordo della quale si trovava M.P. incontrò sulla sua strada un cassonetto, che arrestò la sua corsa. Alcuni manifestanti lanciarono pietre contro la jeep, poi un estintore, che ricadde a terra.
Carlo Giuliani si diresse verso un estintore che si trovava a terra. In quel momento, un carabiniere nella jeep aveva già impugnato una pistola, pronto a sparare. Carlo Giuliani prese l’estintore e lo sollevò. Erano le ore 17.27. Fu colpito in quello stesso istante dalla pallottola letale.»
32. Per quanto riguarda la pistola, i ricorrenti rinviano alle fotografie acquisite agli atti d’inchiesta e sottolineano che l’arma era tenuta orizzontalmente e verso il basso.
33. Il ministero dell’Interno ha affermato che era impossibile indicare il numero esatto di carabinieri e agenti di polizia che si trovavano sul posto al momento del decesso di Carlo Giuliani; vi erano approssimativamente cinquanta carabinieri, ad una distanza di 150 metri dalla jeep. Inoltre, a 200 metri, all’altezza di piazza Tommaseo, vi era un gruppo di agenti di polizia (reparto mobile della polizia di stato).
34. Da parte loro, i ricorrenti rinviano alle dichiarazioni del tenente colonnello Truglio (si veda infra), il quale ha affermato di essersi trovato ad una decina di metri da piazza Alimonda e a trenta-quaranta metri dalla jeep. Ad alcune decine di metri dalla jeep si trovavano i carabinieri (un centinaio). Gli agenti di polizia erano alla fine di via Caffa, in direzione di piazza Tommaseo. I ricorrenti ricordano inoltre che le fotografie acquisite agli atti d’inchiesta mostrano chiaramente la presenza di carabinieri a pochi metri dalla jeep in questione.
2. Le indicazioni dei ricorrenti in merito agli istanti immediatamente successivi alla partenza della jeep
35. Un filmato depositato dai ricorrenti e basato su immagini acquisite agli atti d’inchiesta mostra diverse persone e alcuni membri delle forze dell’ordine nell’atto di avvicinarsi al corpo della vittima. Vicino alla testa della vittima, una pietra sporca di sangue che non appare all’inizio della sequenza di immagini, ma è visibile alla fine. Inoltre, un agente di polizia presente vicino al corpo di Carlo Giuliani (il funzionario Lauro) indica col dito un manifestante e grida «sei stato tu, sei stato tu!», dopo di che alcuni membri delle forze dell’ordine si lanciano all’inseguimento dell’uomo in questione per acciuffarlo, invano.
36. Il carabiniere Cappello, testimone al «processo dei 25» (udienza del 20 settembre 2005), ha affermato che una ragazza si era avvicinata al corpo di Carlo Giuliani ed aveva sollevato il cappuccio che questi portava. Sulla fronte della vittima era visibile una ferita a forma di stella. La ragazza aveva dichiarato che Carlo Giuliani era morto e, secondo lei, non per una sassata. Circa due minuti dopo che era stata pronunciata questa frase, il funzionario Lauro si era abbandonato a quello che Cappello definiva «uno sfogo», e che poi era stato mostrato in televisione.
C. L’inchiesta condotta dalle autorità nazionali
1. I primi atti d’inchiesta
37. La squadra mobile della polizia della provincia di Genova – 3a sezione – reati contro le persone – si recò sul posto verso le ore 18.00. Dal rapporto redatto dalla dott.ssa Bucci, funzionario di polizia della squadra mobile della polizia di Genova, emerge che, verso le ore 18.00, essa si recò in piazza Alimonda con altri due funzionari di polizia, in seguito alla segnalazione del decesso di un ragazzo da parte della centrale operativa. Essa trovò il corpo della vittima coperto da un lenzuolo. Per quanto possibile, circoscrisse il luogo (vale a dire chiuse al pubblico piazza Alimonda) per consentire alla polizia scientifica di effettuare i rilievi. Il volto della vittima era scoperto: il passamontagna si trovava dietro la testa. Furono sentiti gli agenti di polizia Fiorillo e Martino (successivi paragrafi 41-42).
38. A qualche metro dal corpo di Carlo Giuliani fu rinvenuto un bossolo. Non fu trovata alcuna pallottola. Accanto al corpo furono recuperati un estintore, nonché una pietra sporca di sangue, del denaro, un taglierino, un telefono cellulare, un accendino e delle chiavi. Gli oggetti furono sequestrati dalla polizia. Peraltro, dal fascicolo emerge che il pubblico ministero affidò alla polizia trentasei atti d’inchiesta.
39. La jeep, dopo che ebbe lasciato piazza Alimonda, ma anche l’arma e l’equipaggiamento di M.P. rimasero nelle mani dei carabinieri e, in seguito, formarono oggetto di sequestro giudiziario. Un bossolo fu rinvenuto all’interno della jeep.
40. Il cadavere fu trasportato, su ordine della procura, all’ospedale Galliera. Poté essere identificato grazie alle impronte digitali, inserite nello schedario dell’autorità giudiziaria.
41. Alle ore 21.30, Fiorillo, responsabile del gruppo di agenti di polizia presenti in via Caffa, fu sentito nell’ufficio della squadra mobile della polizia di Genova. Egli dichiarò di avere notato in piazza Alimonda un contingente di carabinieri «travolto» da un numero impressionante di manifestanti, i quali tentavano di attaccare gli agenti di polizia. Le due jeep Defender erano isolate in mezzo ai manifestanti, accerchiate e seriamente danneggiate. Subito dopo, le due jeep erano riuscite a ripartire. A terra giaceva un uomo con il volto nascosto da un passamontagna. Vicino a lui, un estintore.
42. Alle ore 20.50, nell’ufficio della squadra mobile della polizia di Genova, l’agente di polizia Martino dichiarò di avere raggiunto piazza Alimonda con il suo gruppo di agenti di polizia agli ordini di Fiorillo e di avere visto Carlo Giuliani a terra. Sanguinava abbondantemente dalla testa. Vicino a lui, vi era un estintore. Arrivata l’ambulanza, un medico aveva tentato di rianimare Carlo Giuliani, poi aveva constatato il decesso e atteso l’arrivo del magistrato.
43. Il 21 luglio 2001, il capitano Cappello, responsabile della compagnia ECHO, riferì gli avvenimenti della vigilia ed indicò i nomi dei carabinieri a bordo della jeep in questione, accerchiata da numerosi manifestanti armati di spranghe di ferro, pietre e assi di legno. Affermò che, dopo che la jeep era riuscita a ripartire, la polizia presente sull’altro lato della piazza era intervenuta ed aveva disperso i manifestanti, consentendo così di scorgere un corpo col volto incappucciato steso a terra. Cappello dichiarò di non avere sentito alcuno sparo, probabilmente a causa dell’auricolare della radio, del casco e della maschera antigas che limitavano il suo udito.
44. Il 28 luglio 2001, l’ufficiale Mirante redasse una nota di servizio, la quale riprendeva le considerazioni dell’ufficiale Cappello, in merito ai fatti accaduti in piazza Alimonda.
2. La sottoposizione ad indagini di M.P. e F.C., due dei tre carabinieri presenti a bordo della jeep
45. La sera del 20 luglio 2001, due dei tre carabinieri presenti a bordo della jeep al momento dei fatti furono identificati e sentiti dal pubblico ministero di Genova, nei locali del comando dei carabinieri di Genova, come sospettati di omicidio volontario.
a) Prima dichiarazione dello sparatore (M.P.), sentito dal pubblico ministero il 20 luglio 2001, alle ore 23.00, nei locali del comando dei carabinieri di Genova
46. M.P. era un carabiniere ausiliario, assegnato al battaglione n. 12 «Sicilia» ed inserito nella compagnia ECHO, costituita per le necessità del G8. Insieme ad altre quattro compagnie provenienti da altre regioni d’Italia, la compagnia ECHO faceva parte del CCIR, posto agli ordini del tenente colonnello Truglio. La compagnia ECHO era agli ordini del capitano Cappello e dei suoi vice Mirante e Zappia, e sotto la direzione e il coordinamento di Lauro, vicequestore di Roma. Inoltre, vi erano un battaglione di paracadutisti e delle strutture denominate G2 e G3. Ciascuna delle cinque compagnie era divisa in quattro plotoni di cinquanta uomini ciascuno. Il comandante di tutte le compagnie era il colonnello Leso; il vicecomandante incaricato del coordinamento era il tenente colonnello Truglio.
47. M.P., nato il 13 agosto 1980 ed entrato in servizio il 16 settembre 2000, era un granatiere assegnato al lancio di lacrimogeni. Dichiarò che avrebbe dovuto spostarsi a piedi con il suo plotone durante le operazioni di mantenimento e ristabilimento dell’ordine pubblico (MROP). Dopo avere lanciato diversi ordigni lacrimogeni, con gli occhi e il volto in fiamme, aveva chiesto al capitano Cappello l’autorizzazione a salire a bordo della jeep guidata da F.C. Poco dopo, un altro carabiniere (Dario Raffone), ferito, li aveva raggiunti.
48. M.P. affermò di avere avuto molta paura, per via di tutto quello che aveva visto lanciare durante la giornata, e di avere temuto soprattutto che i manifestanti lanciassero delle bottiglie Molotov. Poi spiegò che la sua paura era cresciuta quando era stato ferito ad una gamba da un oggetto metallico e alla testa da una pietra. Dichiarò di avere percepito la presenza di aggressori a causa delle sassaiole e di avere pensato che «centinaia di manifestanti accerchiassero la jeep», anche se aggiunse che «al momento degli spari, non c’era nessuno in vista». Precisò di essere stato «in preda al panico». M.P. descrisse il momento dello sparo dicendo di essersi reso conto, ad un certo punto, che la sua mano aveva impugnato la pistola, di avere sporto quella mano, armata, dal lunotto della jeep e, dopo circa un minuto, di avere sparato due colpi. M.P. non fornì alcuna precisazione in merito all’istante in cui aveva tolto la sicura della pistola. Sostenne di non essersi accorto della presenza di Carlo Giuliani dietro la jeep, né prima, né dopo avere sparato.
b) Dichiarazione del conducente (F.C.), sentito dal pubblico ministero il 20 luglio 2001, nei locali del comando dei carabinieri
49. F.C., il conducente, nato il 3 settembre 1977, era in servizio da ventidue mesi. Dichiarò di essersi trovato in una stradina nei pressi di Piazza Alimonda e di avere cercato di tornare a marcia indietro verso la piazza, in quanto il plotone indietreggiava incalzato dai manifestanti. Aveva tuttavia trovato la strada bloccata da un cassonetto che non era riuscito a spostare, essendosi spento il motore. Affermò di avere concentrato i suoi sforzi sul modo di liberare la jeep, mentre i colleghi a bordo del veicolo gridavano. Per questo motivo, non aveva sentito le detonazioni della pistola di M.P. Infine, dichiarò: «Non ho notato persone a terra perché indossavo una maschera che limitava il mio campo visivo (…), inoltre la visuale laterale, nella vettura, non è ottimale. Ho fatto retromarcia e non ho sentito alcuna resistenza; a dire il vero, ho sentito un sobbalzo della ruota sulla sinistra, ho pensato ad un mucchio di rifiuti dato che il cassonetto era stato rovesciato; avevo un solo pensiero in testa: allontanarmi da quel disastro».
c) Dichiarazione del terzo carabiniere (D.R.) presente a bordo della jeep al momento dei fatti, sentito dal pubblico ministero il 21 luglio 2001
50. D.R., nato il 25 gennaio 1982 e carabiniere di leva dal 16 marzo 2001, dichiarò di essere stato colpito al volto e alla schiena da pietre lanciate da alcuni manifestanti e di avere cominciato a sanguinare. Aveva cercato di proteggersi coprendosi il volto, mentre M.P. aveva tentato a sua volta di fargli scudo col suo corpo. In quel momento, non aveva visto più niente, ma aveva sentito le grida e il rumore dei colpi e degli oggetti che entravano nell’abitacolo della jeep. Aveva sentito M.P. urlare agli aggressori di smetterla e di andarsene e, subito dopo, due spari.
d) La seconda dichiarazione di M.P. al pubblico ministero
51. L’11 settembre 2001, M.P., interrogato dal pubblico ministero, confermò le sue dichiarazioni del 20 luglio 2001 ed aggiunse di avere gridato ai manifestanti «andatevene o vi uccido!».
3. Dichiarazioni raccolte durante l’inchiesta
a) Dichiarazioni rese da altri carabinieri
52. Il maresciallo Amatori, che si trovava sull’altra jeep rimasta bloccata per qualche istante in piazza Alimonda, dichiarò di avere notato che la jeep con a bordo M.P. era stata bloccata da un cassonetto ed era circondata da un folto numero di manifestanti, «certamente più di venti». Questi ultimi lanciavano oggetti contro la jeep. In particolare, il maresciallo aveva notato che un manifestante aveva lanciato un estintore contro il lunotto. Il maresciallo dichiarò di avere sentito le detonazioni e di avere visto Carlo Giuliani crollare a terra. Aveva visto anche la manovra della jeep, passata due volte sul corpo di Carlo Giuliani. Dopo che la jeep era riuscita a lasciare piazza Alimonda, egli si era avvicinato ad essa ed aveva visto F.C., il conducente, scendere dalla vettura e chiedere aiuto, visibilmente agitato. Il maresciallo aveva preso il posto del conducente e aveva notato che M.P. aveva una pistola in mano; gli aveva ordinato di rimettere la sicura. Egli dichiarò di avere pensato immediatamente che si trattasse dell’arma che poco prima aveva sparato i due colpi, ma di non averne parlato con M.P.; quest’ultimo era ferito e sanguinava dalla testa. Il maresciallo affermò che F.C. gli aveva raccontato di avere sentito le detonazioni mentre faceva manovra. Il maresciallo non ricevette alcuna spiegazione in merito alle circostanze all’origine della decisione di sparare e non pose alcuna domanda al riguardo.
53. Il carabiniere Rando aveva raggiunto a piedi la jeep in questione. Dichiarò di avere visto l’arma di M.P. fuori del fodero e quindi di avere chiesto a M.P. se avesse sparato. Questi aveva risposto di sì, senza precisare se avesse sparato in aria o in direzione di un determinato manifestante. Rando riferì che M.P. ripeteva incessantemente la frase «volevano uccidermi, non voglio morire».
54. L’11 settembre 2001, il pubblico ministero sentì il capitano Cappello, cui era affidato il comando della compagnia di carabinieri alla quale era assegnato M.P. durante il G8 e che rispondeva agli ordini del tenente colonnello Truglio. Cappello dichiarò di avere autorizzato M.P. a salire sulla jeep e di avere recuperato il lancialacrimogeni di quest’ultimo. M.P. era in difficoltà. In seguito (al «processo dei 25», udienza del 20 settembre 2005), egli precisò che M.P. era fisicamente inidoneo a continuare il servizio per problemi psicologici e di tensione nervosa. Cappello si era poi diretto con i suoi uomini – una cinquantina – verso l’angolo tra piazza Alimonda e via Caffa. Cappello dichiarò di essere stato pregato dal funzionario di polizia Lauro di risalire via Caffa in direzione di via Tolemaide per aiutare le forze impegnate laggiù a respingere i manifestanti. Dichiarò di essere rimasto perplesso di fronte a tale richiesta, visto il numero e la stanchezza degli uomini a sua disposizione. Cionondimeno, Cappello e i suoi uomini si piazzarono in via Caffa. Sotto la spinta dei manifestanti provenienti da via Tolemaide, i carabinieri erano stati costretti ad indietreggiare; avevano ripiegato prima in modo ordinato, poi in ordine sparso. Cappello dichiarò di non essersi reso conto che, al momento della ritirata, i carabinieri erano seguiti da due jeep Defender, la cui presenza non aveva alcuna «giustificazione funzionale». Il capitano Cappello dichiarò inoltre che i manifestanti erano stati dispersi solo grazie all’intervento di squadre mobili della polizia, presenti sull’altro lato di piazza Alimonda, e che, solo allora, egli aveva constatato che un uomo incappucciato giaceva a terra, a quanto sembrava, gravemente ferito. Cappello dichiarò infine che alcuni dei suoi uomini portavano un casco equipaggiato con videocamere, il che avrebbe permesso di chiarire lo svolgimento dei fatti, e che le videoregistrazioni erano state consegnate al responsabile del CCIR, il colonnello Leso.
55. Il tenente colonnello Truglio dichiarò di essersi fermato ad una decina di metri da piazza Alimonda e a trenta-quaranta metri dalla jeep in questione e di avere notato che la jeep passava su un corpo steso a terra.
b) Dichiarazioni del funzionario di polizia Lauro
56. Il 21 dicembre 2001, Lauro fu sentito dal pubblico ministero. Dichiarò di essersi presentato, il 20 luglio 2001, alle ore 6.00, nel luogo in cui avrebbe dovuto prendere in carico duecento uomini, per iniziare il servizio. Due ore dopo, non avendo visto arrivare nessuno, si era informato presso la Questura ed aveva appreso che gli ordini di servizio erano stati modificati. Stando alle precisazioni fornite in seguito da Lauro (udienza del 26 aprile 2005, processo dei 25), questi era stato informato il 19 luglio che per l’indomani non era stato autorizzato nessun corteo. Il 20 luglio, egli non era al corrente che doveva sfilare un corteo autorizzato. Gli era stato chiesto di recarsi nei pressi della fiera e di raggiungere un contingente di cento carabinieri per controllare la zona. Lauro poté entrare in contatto con il contingente e il suo capitano – Cappello – solo alle ore 12.30. Si era recato in piazza Tommaseo, dove avevano luogo scontri con i manifestanti. Alle ore 15.30, in un momento di calma, il tenente colonnello Truglio e le due jeep avevano raggiunto il contingente. Avevano mangiato qualcosa. Il contingente era stato coinvolto in alcuni scontri in corso Torino tra le ore 16.00 e le ore 16.45. Poi, era giunto in piazza Tommaseo-piazza Alimonda. Il tenente colonnello Truglio e le due jeep erano tornate. Il contingente era stato riorganizzato. Lauro dichiarò di avere notato un gruppo di manifestanti in fondo a via Caffa. Essi avevano formato una barriera con alcuni cassonetti su ruote ed avanzavano verso le forze dell’ordine. Lauro affermò di avere chiesto a Cappello se i suoi uomini fossero in grado di far fronte alla situazione e di avere ottenuto una risposta affermativa. Lauro e il contingente si erano quindi sistemati vicino a via Caffa. Aveva sentito l’ordine di ripiegare ed assistito alla ritirata disordinata del contingente.
c) Dichiarazioni rese al pubblico ministero da alcuni manifestanti
57. Furono sentiti anche alcuni manifestanti presenti al momento dei fatti. Alcuni di loro dichiararono di essersi trovati molto vicino alla jeep, di avere lanciato anche loro delle pietre e di avere colpito la jeep con bastoni ed altri oggetti. Uno dei manifestanti dichiarò che M.P. aveva gridato «bastardi, vi ucciderò tutti!». Un altro si era accorto che M.P., a bordo della jeep, aveva estratto la pistola. Allora aveva gridato ai compagni di fare attenzione, poi si era allontanato. Un altro dichiarò che M.P. si era protetto da un lato con uno scudo (precedente paragrafo 23).
d) Altre dichiarazioni rese al pubblico ministero
58. Alcune persone che avevano assistito ai fatti dalle finestre delle loro abitazioni dichiararono di avere visto un manifestante raccogliere un estintore e sollevarlo. Avevano udito due detonazioni ed avevano visto il manifestante crollare a terra.
4. Materiale audiovisivo
59. Nel corso dell’inchiesta, il pubblico ministero ordinò alle forze dell’ordine di consegnargli il materiale audiovisivo che poteva contribuire alla ricostruzione dei fatti verificatisi in piazza Alimonda. Durante le operazioni di mantenimento e ristabilimento dell’ordine pubblico erano state fatte fotografie e videoregistrazioni da squadre di addetti alle riprese, da telecamere montate su elicotteri e da minitelecamere montate sui caschi di alcuni agenti. Erano peraltro disponibili anche immagini di provenienza privata.
5. Le perizie
a) L’autopsia
60. Nelle ventiquattro ore, il pubblico ministero ordinò un’autopsia ai fini dell’accertamento della causa del decesso di Carlo Giuliani. Il 21 luglio 2001, alle ore 12.10, un avviso di autopsia – contenente la precisazione che la parte lesa poteva nominare un perito e un difensore – fu notificato al primo ricorrente.
Alle ore 15.15, i dott. Canale e Salvi, periti della procura, furono formalmente investiti del mandato, ed ebbero inizio le operazioni di autopsia. I ricorrenti non inviarono nessun rappresentante né perito da loro designato.
Il mandato conferito ai periti recitava: «I periti devono indicare la causa del decesso di Carlo Giuliani e dire se, tra i fattori determinanti della stessa, ve ne siano di esogeni quali sostanze chimico-tossicologiche. Qualora la morte sia stata causata da colpi di arma da fuoco, i periti devono precisare il numero di spari, il punto d’impatto, la traiettoria seguita nel corpo, la posizione della vittima rispetto allo sparatore e, se possibile, la distanza di tiro, nonché indicare se prima della ferita mortale vi sia stata una lotta mortale».
61. Al termine dell’autopsia, il corpo fu posto a disposizione dei familiari di Carlo Giuliani, i quali desideravano cremarlo. Vista la complessità delle domande, i periti chiesero alla procura una proroga di sessanta giorni per depositare la loro relazione. La procura accolse la richiesta.
62. Il 23 luglio 2001, il pubblico ministero autorizzò la cremazione del corpo di Carlo Giuliani voluta dai familiari.
63. La relazione di perizia fu depositata il 6 novembre 2001. I periti rilevavano che Carlo Giuliani era stato colpito sotto l’occhio sinistro da un proiettile e che questo aveva attraversato il cranio ed era uscito dalla parete posteriore sinistra. La traiettoria del proiettile era stata la seguente: sparato ad oltre cinquanta centimetri di distanza, dal davanti verso il dietro, dalla destra verso la sinistra, dall’alto verso il basso. Carlo Giuliani era alto 1,65 m. Lo sparatore si trovava di fronte alla vittima, leggermente spostato verso destra. Secondo i periti, il colpo d’arma da fuoco alla testa era di gravità tale da avere causato la morte in pochi minuti; il passaggio della jeep sul corpo aveva provocato solo ferite minori e non valutabili agli organi toracici e addominali.
b) Le perizie medico-legali su M.P. e D.R.
64. Dopo avere lasciato piazza Alimonda, i tre carabinieri a bordo della jeep si erano recati al pronto soccorso dell’ospedale Galliera di Genova. M.P. aveva lamentato contusioni diffuse alla gamba destra ed un trauma cranico con ferite aperte; nonostante il parere dei medici, propensi a ricoverarlo, M.P. aveva firmato per uscire e, verso le ore 21.30, aveva lasciato l’ospedale. Aveva riportato un trauma cranico, provocato, secondo lui, da un colpo alla testa infertogli con un corpo contundente mentre si trovava a bordo della jeep. Secondo i medici, lo stato di salute di M.P. non era tale da far temere per la sua vita.
65. D.R. presentava contusioni e graffi sul naso e sullo zigomo destro, contusioni alla spalla sinistra e al piede sinistro. F.C. aveva manifestato sintomi di una sindrome psicologica post-traumatica guaribile in quindici giorni.
66. Le perizie medico-legali effettuate per stabilire l’esatta natura di tali lesioni e i loro legami con l’aggressione subita dagli occupanti della jeep conclusero che le ferite riportate da D.R. e da M.P. non avevano posto in pericolo la loro vita. Quanto a M.P., le ferite riportate alla testa potevano essere state causate da una sassata, ma era impossibile stabilire l’origine delle altre ferite. Quanto a D.R., la lesione al volto poteva essere stata causata da una sassata e quella alla spalla da un colpo inflitto con un’asse.
c) Le perizie balistiche disposte dal pubblico ministero
i. La prima perizia
67. Il 4 settembre 2001, il pubblico ministero incaricò il dott. Cantarella di stabilire se i due bossoli rinvenuti sul posto (uno nella jeep, l’altro a pochi metri dal corpo di Carlo Giuliani) provenissero dalla stessa arma, in particolare da quella di M.P. Nella sua relazione datata 5 dicembre 2001, il perito ritenne che vi fosse il 90% di probabilità che il bossolo rinvenuto nella jeep provenisse dalla pistola Beretta di M.P., mentre vi era solo il 10% di probabilità che quello rinvenuto vicino al corpo di Carlo Giuliani provenisse dalla stessa pistola. La perizia fu effettuata unilateralmente in virtù dell’articolo 392 del codice di procedura penale, vale a dire senza che la parte lesa avesse la possibilità di parteciparvi.
ii. La seconda perizia
68. Il pubblico ministero nominò un secondo perito, l’ispettore di polizia Biagio Manetto. In una relazione presentata il 15 gennaio 2002, questi riteneva che esistesse il 60 % di probabilità che il bossolo rinvenuto vicino al corpo della vittima provenisse dall’arma di M.P. Egli concludeva che i due bossoli provenivano dalla pistola di M.P. Quanto alla distanza tra M.P. e Carlo Giuliani al momento dell’impatto, la stimava tra i 110 e i 140 centimetri. La perizia fu effettuata unilateralmente.
iii. La terza perizia (collegiale)
69. Il 12 febbraio 2002, la procura ordinò ad un collegio di periti composto da Nello Balossino, Pietro Benedetti, Paolo Romanini e Carlo Torre, «dopo avere visionato il materiale video-fotografico e le planimetrie acquisite agli atti, gli oggetti sequestrati, le perizie già effettuate, di ricostruire, anche in forma virtuale, la condotta di M.P. e di Carlo Giuliani negli istanti immediatamente precedenti e successivi a quello in cui la pallottola ha attinto il corpo. Si tratta, in particolare, di stabilire la distanza che separava M.P. da Carlo Giuliani, i rispettivi angoli di osservazione e il campo visivo di M.P. all’interno della jeep al momento degli spari.» Dagli atti risulta che, nel settembre 2001, il dott. Romanini aveva pubblicato un articolo su una rivista specializzata (TAC Armi), in cui riteneva che M.P. avesse agito per legittima difesa.
I periti furono autorizzati a consultare tutta la documentazione, il materiale audiovisivo e le perizie a disposizione della procura. I rappresentanti ed i periti dei ricorrenti parteciparono agli atti di perizia. Dal verbale emerge che i ricorrenti furono rappresentati dall’Avv. Vinci, il quale dichiarò di non volere presentare alcuna domanda di incidente probatorio.
70. Il 20 aprile 2002, fu effettuato un sopralluogo. In quell’occasione, sul muro di un edificio di piazza Alimonda, a circa cinque metri di altezza, si scoprì l’esistenza di un impatto provocato dal secondo sparo.
71. Il 10 giugno 2002, fu depositata in procura la relazione di perizia (intitolata «Studio della dinamica degli avvenimenti che hanno portato al decesso di Carlo Giuliani attraverso l’analisi delle immagini»). Tale relazione era volta a stabilire la posizione delle due persone interessate e la distanza esistente tra loro al momento dello sparo, ciò al fine di stabilire l’angolo visivo. I periti premettevano che l’indisponibilità del cadavere di Carlo Giuliani (dovuta alla sua cremazione) aveva costituito un grande ostacolo alla completezza del loro lavoro per l’impossibilità, da un lato, di riesaminare alcune parti del corpo, dall’altra, di cercare delle microtracce.
72. Innanzitutto, basandosi sul «poco materiale a disposizione», i periti tentavano di rispondere alla domanda riguardante l’impatto della pallottola su Carlo Giuliani. Secondo loro, le ferite al cranio erano gravissime ed avevano causato la morte «dopo poco tempo». Constatavano poi che la pallottola non era uscita intera dalla testa di Carlo Giuliani. La TAC effettuata prima dell’autopsia aveva consentito infatti di individuare un pezzo di metallo opaco che, per il suo aspetto, sembrava essere un frammento di camiciatura. Quanto al foro d’ingresso nella parte anteriore della testa, il suo aspetto non si prestava ad un’interpretazione univoca. La sua forma irregolare si spiegava infatti in primo luogo con la tipologia dei tessuti della zona del corpo raggiunta dalla pallottola. Era tuttavia possibile avanzare una spiegazione in base alla quale la pallottola non aveva colpito direttamente Carlo Giuliani, ma aveva incontrato un oggetto intermedio, capace di deformarla e rallentarla, prima di raggiungere il corpo della vittima. L’ipotesi era avvalorata dalle dimensioni ridotte del foro di uscita e dal fatto che la pallottola si era frammentata all’interno della testa di Carlo Giuliani.
73. Partendo da tale ipotesi, i periti avevano cercato quindi delle tracce ed affermavano di avere rinvenuto un piccolo frammento metallico di piombo, proveniente verosimilmente dalla pallottola. Era impossibile sapere se quel frammento, staccatosi dal passamontagna di Carlo Giuliani quando questo era stato maneggiato, provenisse dalla parte anteriore, laterale o posteriore del passamontagna. Ciò premesso, i periti riferivano di tracce di una materia che non apparteneva al proiettile in quanto tale, ma proveniva da un materiale utilizzato nell’edilizia. Inoltre, erano stati rinvenuti microframmenti di piombo nella parte anteriore e in quella posteriore del passamontagna. Ciò sembrava confermare l’ipotesi secondo la quale la pallottola aveva perduto parte della sua camiciatura al momento dell’impatto.
Quanto alla natura dell’«oggetto intermedio», i periti affermavano che non era possibile stabilire di quale oggetto si trattasse, ma si poteva escludere l’estintore che Carlo Giuliani teneva con le mani.
74. Infine, quanto alla distanza di tiro, i periti ritenevano che fosse stata superiore a 50-100 centimetri.
75. Per ricostruire i fatti nell’ambito dell’«ipotesi della collisione con un oggetto», i periti avevano proceduto poi a prove di tiro e a simulazioni video e al computer. Le loro conclusioni erano le seguenti: partendo dal postulato che la pallottola si era scontrata con un altro oggetto, non era loro possibile stabilirne la traiettoria, poiché la collisione l’aveva certamente modificata. Basandosi su una sequenza video in cui una pietra si disintegrava in aria e sulla detonazione percepita nel nastro sonoro, i periti ritenevano che la pietra fosse esplosa subito dopo lo sparo.
In base ad una simulazione al computer, i periti concludevano che la pallottola sparata verso l’alto da M.P. aveva colpito Carlo Giuliani a seguito della collisione con quella pietra, lanciata da un altro manifestante contro la jeep. I periti ritenevano che la distanza tra Carlo Giuliani e la jeep fosse stata di circa 1,75 metri al momento dello sparo e che, in quel preciso momento, M.P. potesse vedere Carlo Giuliani.
6. Le indagini condotte dai ricorrenti
76. I ricorrenti depositarono una dichiarazione resa dinanzi al loro avvocato dal manifestante J.M. il 19 febbraio 2002. J.M. aveva dichiarato in particolare che Carlo Giuliani era ancora vivo dopo il passaggio della jeep sul suo corpo, di avere attirato l’attenzione degli agenti sul ferito e gridato parole come «medico, ospedale …». All’arrivo dei membri delle forze dell’ordine, J.M. si era allontanato.
I ricorrenti depositarono poi la dichiarazione di un carabiniere (V.M.) che aveva riferito di una prassi, secondo lui diffusa all’interno delle forze dell’ordine, consistente nel modificare i proiettili del tipo utilizzato da M.P. al fine di aumentarne la capacità di espansione e quindi di frammentazione.
77. I ricorrenti depositarono infine due relazioni di perizia redatte da periti di loro fiducia. Secondo uno di loro, il dott. Gentile, la pallottola era già frammentata quando aveva raggiunto la vittima. La frammentazione della pallottola poteva spiegarsi con un difetto o una manipolazione del proiettile finalizzata ad aumentarne la capacità di frammentazione. Il perito riteneva che ciò accadesse in un numero limitato di casi; pertanto, si trattava di un’ipotesi meno probabile di quella avanzata dai periti del pubblico ministero (vale a dire che la pallottola si era scontrata con un oggetto durante la sua traiettoria).
Inoltre, gli altri periti incaricati dai ricorrenti di ricostruire lo svolgimento dei fatti esclusero che «la pietra» si fosse frammentata in seguito ad una collisione con la pallottola sparata da M.P.; a loro avviso, la pietra si era frammentata contro la jeep. Secondo i periti, per poter ricostruire i fatti a partire dal materiale audiovisivo, ed in particolare dalle foto, bisognava per forza stabilire la posizione esatta del fotografo, soprattutto il suo angolo di campo, tenendo conto anche del tipo di materiale utilizzato (focale, macchina fotografica di scatola, cinepresa). Inoltre, occorreva mettere in relazione, da un lato, le immagini e il tempo e, dall’altro, le immagini e il suono. D’altra parte, i periti contestarono il metodo dei periti incaricati dal pubblico ministero, i quali si erano basati su una «simulazione video e al computer» e non avevano esaminato le immagini disponibili con rigore e precisione. Analoghe critiche furono formulate nei confronti di quegli stessi periti per non avere seguito un metodo affidabile nelle prove di sparo.
78. I periti dei ricorrenti conclusero che Carlo Giuliani si trovava a circa tre metri dalla jeep al momento dello sparo e che, se da un lato non si poteva negare che la pallottola letale fosse frammentata quando aveva raggiunto Carlo Giuliani, dall’altro si doveva escludere che si fosse scontrata con la pietra visibile nell’immagine, soprattutto perché una pietra avrebbe deformato in modo diverso la pallottola ed avrebbe lasciato un altro tipo di tracce sul corpo di Carlo Giuliani. Inoltre, M.P. non aveva sparato verso l’alto.
7. La richiesta di archiviazione
79. Preliminarmente, il pubblico ministero osservò che l’organizzazione delle operazioni di mantenimento e ristabilimento dell’ordine pubblico era stata modificata profondamente la notte tra il 19 e il 20 luglio 2001 e ritenne che ciò spiegasse una parte delle disfunzioni verificatesi il 20 luglio. Tuttavia, non enumerò le modifiche e le disfunzioni che ne erano derivate.
Basandosi sugli elementi del fascicolo, il pubblico ministero ricostruì i fatti che precedettero la morte di Carlo Giuliani. In merito all’iniziativa di piazzarsi in via Caffa per bloccare i manifestanti presenti in via Tolemaide, il pubblico ministero prese atto che la versione dei fatti fornita da Lauro divergeva in parte da quella del capitano Cappello: mentre Lauro parlava di una decisione presa di comune accordo, il capitano Cappello sosteneva che gli uomini erano stati postati là su decisione unilaterale di Lauro, e ciò nonostante i rischi che poteva comportare una tale decisione (numero ridotto e stanchezza degli uomini del distaccamento).
80. Il pubblico ministero esaminò poi le relazioni di perizia e rilevò che i diversi periti concordavano in particolare sul fatto che la pistola di M.P. aveva sparato due pallottole, la prima delle quali aveva colpito mortalmente Carlo Giuliani; che la pallottola in questione non si era frammentata unicamente nell’impatto con Carlo Giuliani; che la fotografia raffigurante Carlo Giuliani con in mano l’estintore era stata scattata mentre questi si trovava a circa tre metri dalla jeep.
Le opinioni dei periti divergevano invece soprattutto sui seguenti punti:
a) secondo i periti del pubblico ministero, nel momento in cui fu colpito, Carlo Giuliani era a 1,75 metri dalla jeep; per i periti della famiglia Giuliani, a circa 3 metri;
b) per quanto riguarda lo scarto tra l’immagine della pietra e il rumore della detonazione: per i periti della famiglia Giuliani, lo sparo era partito prima che si potesse vedere la pietra, mentre i periti del pubblico ministero la pensavano al contrario.
81. Le parti concordavano nell’affermare che la pallottola era già frammentata quando aveva colpito la vittima. Il pubblico ministero ne dedusse quindi che le parti concordavano anche sulle cause di tale frammentazione e che i ricorrenti aderivano alla «teoria della pallottola deviata da un oggetto solido». Il brano pertinente della richiesta di archiviazione recita:
«I punti che non sono oggetto di alcuna contestazione sostanziale sono riportati schematicamente di seguito:
(…)
Prima di toccare Giuliani, la pallottola ha incontrato sulla sua traiettoria un oggetto che ne ha causato la parziale frammentazione.
La nota a piè di pagina recita: A pagina 13 della relazione di perizia del 10/6/02, il perito, prof. Torre, afferma: «In breve, tutti gli elementi a disposizione indicano che la pallottola, prima di colpire il volto di Carlo Giuliani, è entrata in contatto con un oggetto duro (bersaglio intermedio) capace di rallentarne la traiettoria in modo significativo, di danneggiarne la camiciatura, contribuendo alla sua disgregazione, e di lasciare tracce sul nucleo di piombo». Il perito della famiglia Giuliani, dott. Gentile, afferma, da parte sua, a pagina 2 della sua relazione di perizia depositata il 9/8/02: «Non possiamo che condividere il parere del professor Torre secondo il quale un proiettile di tale calibro, conforme all’equipaggiamento NATO, non avrebbe potuto (la negazione è stata aggiunta il 5/10/02 a mano dal dott. Gentile, durante il confronto tra i periti) essere frammentato a seguito di un solo impatto finale con la vittima».
Le altre ipotesi avanzate dai ricorrenti per spiegare la frammentazione della pallottola – quali una manipolazione della pallottola finalizzata ad aumentarne la capacità di frammentazione o un difetto di fabbricazione – erano considerate dai ricorrenti stessi «molto più improbabili». Per la loro più scarsa probabilità, secondo il pubblico ministero tali ipotesi non potevano fornire una valida spiegazione.
82. Prima di passare alle considerazioni giuridiche, il pubblico ministero osservò che l’inchiesta era stata lunga, in particolare a causa del ritardo di alcuni periti e della «superficialità» del rapporto dell’autopsia, nonché degli errori commessi dal dott. Cantarella, uno dei periti. Poi, egli ritenne che l’inchiesta fosse giunta al termine e che ogni questione pertinente fosse stata approfondita. In conclusione, il pubblico ministero valutò che l’ipotesi della pallottola sparata verso l’alto e deviata da una pietra lanciata in aria fosse «la più convincente». Tuttavia, ritenne che gli elementi del fascicolo non permettessero di stabilire se M.P. avesse sparato con la sola intenzione di disperdere i manifestanti o assumendosi il rischio di ferirne o di ucciderne uno o più. Tre erano le ipotesi prese in considerazione e « non si sarebbe mai giunti ad una risposta certa »:
- nel primo caso, si trattava di spari intimidatori e quindi di omicidio colposo;
- nel secondo caso, M.P. aveva sparato per fermare l’aggressione e si era assunto il rischio di uccidere, nel qual caso si era trattato di omicidio volontario;
- nel terzo caso, M.P. aveva mirato a Carlo Giuliani, e anche in questo caso si trattava di omicidio volontario.
Secondo il pubblico ministero, gli elementi del fascicolo consentivano di escludere la terza ipotesi.
83. Il pubblico ministero giudicò poi che la collisione tra la pietra e la pallottola non fosse tale da interrompere il nesso di causalità tra il comportamento di M.P. e la morte di Carlo Giuliani. Il nesso di causalità sussisteva, si trattava di sapere se M.P. avesse agito per legittima difesa.
84. Agli occhi del pubblico ministero, non c’erano dubbi che l’integrità fisica degli occupanti della jeep era in pericolo e che M.P. aveva «risposto» in situazione di pericolo. Ciò premesso, occorreva valutare la risposta di M.P., tanto dal punto di vista della necessità quanto da quello della proporzionalità, «quest’ultimo aspetto era infatti il più delicato».
Quanto alla questione se M.P. avesse un’alternativa e se ci si potesse aspettare da lui un comportamento diverso, il pubblico ministero rispose negativamente, avanzando i seguenti motivi: «la jeep era accerchiata dai manifestanti, l’aggressione fisica nei confronti degli occupanti era evidente e virulenta». La percezione di M.P. di essere in pericolo di vita era giustificata. La pistola era uno strumento capace di fermare l’aggressione, e alcuna critica poteva essere mossa a M.P. per la scelta dell’equipaggiamento che egli aveva in dotazione. Dal punto di vista giuridico, non si poteva pretendere che M.P. evitasse di utilizzare la sua arma da fuoco e subisse un’aggressione tale da minacciare la sua integrità fisica.
85. Alla luce di queste considerazioni, il pubblico ministero chiese l’archiviazione del procedimento.
8. L’opposizione dei ricorrenti
86. Il 10 dicembre 2002, i ricorrenti fecero opposizione alla richiesta di archiviazione. Basandosi sul fatto che lo stesso pubblico ministero aveva ammesso che l’inchiesta era stata caratterizzata da errori e dubbi che non avevano trovato risposte certe, essi sostenevano che la ricerca della verità rendesse indispensabile un dibattimento in contraddittorio.
87. Quanto a M.P., i ricorrenti contestavano la tesi della pallottola deviata dalla pietra ed affermavano che non si poteva sostenere al tempo stesso che M.P. aveva sparato in aria e che aveva agito per legittima difesa, tanto più che l’interessato aveva dichiarato di non avere visto Carlo Giuliani al momento dello sparo.
I ricorrenti facevano poi notare che la tesi della pallottola deviata da un oggetto era stata formulata un anno dopo i fatti da un perito designato dal pubblico ministero e si basava su una mera ipotesi non corroborata da elementi oggettivi. Il perito dei ricorrenti aveva ritenuto che una collisione con una pietra avrebbe deformato diversamente la pallottola. Inoltre, i ricorrenti facevano riferimento alla dichiarazione che menzionava la prassi consistente nel modificare le pallottole per aumentarne la capacità di espansione e quindi di frammentazione.
88. Quanto a F.C., i ricorrenti facevano osservare che dal fascicolo emergeva che Carlo Giuliani era ancora vivo dopo il passaggio della jeep sul suo corpo. Al riguardo, essi sottolineavano che l’autopsia, che aveva concluso per l’assenza di lesioni apprezzabili provocate dai passaggi della jeep, era stata definita superficiale dal pubblico ministero.
89. Alla luce di queste considerazioni, e criticando la scelta di affidare ai carabinieri diversi atti d’inchiesta, i ricorrenti insistevano affinché fosse celebrato un processo, per accertare le responsabilità del decesso di Carlo Giuliani.
90. In via sussidiaria, i ricorrenti chiedevano che fossero compiuti ulteriori atti d’inchiesta, in particolare:
a) una perizia volta a stabilire le cause e il momento del decesso di Carlo Giuliani, in particolare per sapere se questi fosse ancora vivo durante e dopo il passaggio della jeep;
b) un’audizione del capo della polizia, De Gennaro, e del carabiniere Zappia, per sapere quali direttive fossero state impartite in merito al porto dell’arma sulla coscia;
c) la ricerca e l’identificazione della persona che aveva lanciato la pietra in questione;
d) una seconda audizione dei manifestanti presentatisi spontaneamente;
e) l’audizione del carabiniere V.M., che aveva riferito della prassi consistente nell’incidere la punta dei proiettili per dar loro un effetto migliore;
f) una perizia sui bossoli rinvenuti e sulle armi di tutti gli agenti di polizia e carabinieri presenti in piazza Alimonda al momento dei fatti..
9. L’udienza dinanzi al giudice per le indagini preliminari
91. L’udienza dinanzi al giudice per le indagini preliminari ebbe luogo il 17 aprile 2003. Dal verbale di udienza risulta che i ricorrenti confermarono la loro tesi secondo la quale il proiettile in questione non si era frantumato a seguito di un impatto con il sasso. Essi esclusero la possibilità che il proiettile fosse stato deviato e affermarono che esso aveva raggiunto direttamente la vittima. L’avv. Vinci, rappresentante dei ricorrenti all’udienza, dichiarò, per quanto riguarda l’ipotesi secondo la quale il proiettile poteva essere stato modificato per aumentarne la prestazione, conformemente alla prassi riferita da un testimone: «evidentemente non abbiamo prove per sostenere nulla, si tratta di una testimonianza che abbiamo prodotto per avanzare varie ipotesi. Di sicuro non possiamo affermare, e non pretendiamo di farlo, che MP lo abbia fatto».
92. Il procuratore presente all’udienza dichiarò che aveva l’impressione che «su alcune questioni, sulle quali egli aveva creduto vi fosse accordo, non vi era alcun accordo e vi erano invece delle divergenze». Egli ricordò che il perito dei ricorrenti, il sig. Gentile, era d’accordo sul fatto che il proiettile era stato danneggiato prima di raggiungere Carlo Giuliani, e aveva riconosciuto che, tra le possibili cause del danno, vi era un impatto con qualcosa oppure un difetto intrinseco del proiettile, e che questa seconda ipotesi era meno probabile della prima.
10. La decisione del giudice per le indagini preliminari
93. Con ordinanza depositata in cancelleria il 5 maggio 2003, il giudice per le indagini preliminari di Genova archiviò il procedimento.
94. Per ricostruire gli eventi, il giudice fece riferimento ad un resoconto dei fatti, redatto da un anonimo, messo in rete da un sito anarchico (www.anarchy99.net), resoconto che il giudice considerò attendibile vista la congruenza di quanto narrato con il materiale audiovisivo e con le dichiarazioni dei testimoni
«Appare di notevole interesse la descrizione, acquisita agli atti, diffusa da un anonimo partecipante ai disordini su un sito Internet che può essere collegato a degli anarchici francesi (www.anarchy99.net); essa fornisce un dettagliato racconto certamente aderente alla realtà per i particolari descritti che trovano riscontro nel materiale video fotografico e nelle testimonianze in atti e può dunque costituire la base per ricostruire con precisione gli eventi, sia con riferimento ai movimenti dei manifestanti nel luogo in cui ha trovato la morte Carlo Giuliani, che alla loro consistenza numerica ed alla condotta tenuta dagli stessi manifestanti e dalle Forze dell'Ordine nei momenti che hanno preceduto la morte del giovane».)
Il sito in questione descriveva la situazione nella piazza Alimonda e riportava una carica dei manifestanti contro i carabinieri con, in prima linea, coloro che lanciavano tutto quello che trovavano e, in seconda linea, coloro che trasportavano cassonetti, contenitori della spazzatura, ecc. che potevano servire da barricate mobili. L’atmosfera sulla piazza era descritta come «furiosa». Ai fini della decisione il giudice prese in considerazione il brano seguente:
«...Non credo che siamo stati in tanti di questo corteo ad andare fino al cuore della zona di scontro dove corso Gastaldi si restringe e diventa via Tolemaide ...
C’erano migliaia di persone in questa zona vicino agli scontri che si riparavano, osservavano, si aeravano dopo aver ricevuto dei gas lacrimogeni. Ho continuato a scendere verso via Tolemaide. C'era tanta gente e le prime tracce di scontri iniziavano a farsi vive... C'era veramente tanta gente che portava equipaggiamento o elementi di equipaggiamento alla moda delle Tute Bianche ...
Ho continuato a scendere… C’era sempre tanta gente… C'erano centinaia di persone nelle prime file dei tumultuanti. Poco dopo ho raggiunto le prime file, un grosso contrattacco dei manifestanti ha iniziato a scatenarsi… Centinaia di persone hanno iniziato ad avanzare contro gli sbirri. I lanci di proiettili sulle fila della polizia si sono intensificati a poco a poco. È iniziata ad essere una vera pioggia di pietre. Ce n'erano sempre di più che gli cadevano addosso... Ne prendevano tante sul muso e vedevano tutti che dietro le centinaia di persone che le attaccavano ce n’erano mille, duemila, più su nel corso che iniziavano a seguire sempre più numerosi e rapidamente le prime file di tumultuanti diritti su di loro. Le persone urlavano «Avanti! Avanti!».
Allora le file degli sbirri hanno cominciato a sfasciarsi… Le persone hanno tutte caricato urlando e lanciando tutto quello che potevano... Le persone si precipitavano sui proiettili che erano sparsi a terra. Ad ogni 20 metri tutto quello che era stato lanciato sugli sbirri era raccolto e riutilizzato immediatamente. Il lancio di pietre ha preso forma di avvicendarsi intensamente e rapidamente. Leggermente indietro, decine di persone correndo si portavano dietro contenitori della spazzatura, cassonetti, grate ecc.. e spostavano così le barricate contemporaneamente alla carica che avanzava a piccoli scatti che si succedevano rapidamente. L'atmosfera era furiosa. Il livello di violenza era veramente elevato. Quello che è rimasto del dispositivo poliziesco ha iniziato o lanciare granate furiosamente. Questo ci ha rallentato. I veicoli sono riusciti a sbloccarsi. Gli sbirri hanno iniziato a ricomporre le loro file. Li avevano fatti indietreggiare di 200 metri credo. Hanno dovuto impiegare molto tempo per recuperare questi 200 metri che gli abbiamo fatto perdere in 10 minuti. Le persone hanno iniziato a radunare gli oggetti per un nuovo attacco (riportare, fare riserve di proiettili, di oggetti, di barricate mobili da radunarsi dietro alle prime file…). Gli sbirri si erano appena presa una bella sberla ed erano instabili sulla difesa. È per questo motivo che hanno dovuto mandare 30 o 40 sbirri nella stradina laterale sulla sinistra delle prime file dei manifestanti. Dovevano pensare che le prime file avrebbero avuto paura di una carica sul fianco che li avrebbe separati dal restante gruppo dei manifestanti (carica che sarebbe subito stata raggiunta da un’altra di fronte) e che avrebbero indietreggiato leggermente in modo da diminuire la pressione sul dispositivo poliziesco di via Tolemaide o forse che cercassero di dissuaderci di allargarci nella stradina sulla sinistra e di espandere così il perimetro dei combattimenti. Non so perché abbiano fatto questo, in ogni caso non è stata una buona idea perché c’era tanta gente innervosita che arrivava per spingere le prime file e conquistare lo spazio guadagnato durante la carica dei manifestanti e alcune decine di sbirri sono stati presto caricati da almeno 60/70 persone. Gli sbirri sono indietreggiati verso una stradina perpendicolare. Abbiamo continuato a caricarli. Più indietreggiavano e più caricavamo. Li abbiamo seguiti nella stradina perpendicolare. Uscendo dalla stradina ci siamo ritrovati in una piazzetta con una chiesa. Gli sbirri hanno continuato ad indietreggiare sotto i proiettili. Diversi manifestanti tenevano delle sbarre di ferro o manici di zappa. Eravamo più numerosi di loro e fuggivano il contatto. Gli sbirri sono andati a ricostruire le loro file all’ingresso di una strada che dava su una piazza. Ripiegando hanno lasciato a 20 o 30 metri dietro di loro due piccole macchine 4x4 dei carabinieri. È stato tutto violento, rapido e confuso e quindi sarò prudente. Le due macchine hanno cercato di indietreggiare per un motivo che ignoro, per lo meno la seconda non ce l’ha fatta. Il veicolo si è trovato tagliato fuori dal resto del dispositivo poliziesco e a contatto dei manifestanti che hanno iniziato a lapidarlo e a picchiarlo con le sbarre e con i manici. Il finestrino di dietro si è rotto, non ho visto come però non c’era più. Ero a circa 10 metri dal veicolo un po’ a strapiombo in confronto a lui (che era alla mia sinistra) perché ero sulla scalinata della chiesa. E in quel momento ho sentito la prima detonazione, abbastanza forte, secca e vicina. Istintivamente mi sono piegato e ho pensato che fosse uno sparo d’arma da fuoco. Guardai di fronte a me il dispositivo poliziesco che si trovava all’inizio della stradina per vedere che cosa fosse successo, se erano loro che sparavano. O se caricassero. C’era una nuvola di gas, erano a 30 metri circa, non vedevo granché. Credo che ci sia stata un’altra detonazione. Ho girato su me stesso, sempre piegato, ho sceso 2 o 3 scalini verso il retro, ho fatto alcuni passi e mi sono accovacciato dietro non so più che cosa fosse per ripararmi. Mi sono alzato un po’. Dritto davanti a me, sempre circa a 10 metri a mio giudizio, c’era il retro del 4X4 dei carabinieri con il suo finestrino sfondato. Ho percepito dei movimenti dentro. Mi sono abbassato. Ma quasi subito mi sono sollevato e credo (ma è un po’ confuso, non posso essere categorico) di aver visto dal finestrino rotto, abbastanza distintamente due sbirri con il casco, piegati o accovacciati stretti l’uno all'altro. Ho visto la "macchia chiara" di una mano all’altezza del torso con il prolungamento di questa mano una massa nera e luccicante. Ho immediatamente capito che non potesse trattarsi che di un’arma a mano e che era da quest’arma che provenivano le detonazioni. Ho pensato che avesse tirato in aria per sprigionarsi. Gli sbirri (perché mi sembrava che fossero due) sembravano agitati e guardavano girandosi leggermente su loro stessi dal finestrino rotto se dei manifestanti si avvicinassero. Non vedevo che cosa succedeva a terra. Dopo ho guardato dietro di me che cosa succedeva, se i manifestanti avanzavano o indietreggiavano. Quando ho guardato di nuovo davanti a me, la macchina dei carabinieri era andata via. Mi sono rialzato. Ho avanzato. C’era un po’ di gente davanti a me. Ho avuto la sensazione che il rumore si fosse attenuato in modo considerevole durante alcuni secondi. Dopo ci sono stati alcuni urli. Mi sono detto che c’era un problema, che qualcosa di grave era successo. Ho visto qualche persona correre e fermarsi a 6/7 metri sulla sinistra. Mi sono avvicinato. C’erano 4/5 persone in cerchio, ho girato attorno a loro. Ho visto qualcuno in terra. Un lacrimogeno ha rotolato vicino al nostro gruppo. Ho tirato dentro per rinviarlo agli sbirri che non si muovevano e che erano sempre a circa 30 metri. I suoi piedi erano vicini ai miei. Ricordo la sua maglietta bianca e il suo cappuccio appiccicoso e luccicante di sangue. Ho visto una pozza di sangue che si allargava vicino alla sua testa. Ho notato che pisciava sangue dall’orbita sinistra. Ho capito che è stata una pallottola a fare questo e che gli spari non erano stati sparati in alto. Ho fatto alcuni passi indietro tenendomi la testa. Quando mi sono girato ho visto 2/3 giornalisti con telecamere e macchine fotografiche che riprendevano il tizio a terra… Gli sbirri hanno iniziato ad avvicinarsi lentamente. Un gruppo di 6/7 sbirri si è staccato dalle loro fila e dietro a 3 o 4 scudi sono venuti avanti su di noi abbastanza lentamente e tranquillamente a quanto mi è sembrato. Due ragazzi hanno iniziato a sollevare il tizio da terra. Mi sono avvicinato per aiutarli, ma un altro manifestante è venuto dicendo che il tizio era ferito grave e di non toccarlo. Allora i due ragazzi lo hanno riappoggiato. Nessuno pensava che fosse infatti gia morto. Il gruppetto dei 6/7 sbirri si era ancora avvicinato. Erano a 10 metri forse. Abbiamo indietreggiato e la fila di sbirri che seguiva il gruppetto di testa a distanza si è messo a caricare, allora siamo scappati di corsa. Non sapevamo che cosa fare perché pensavamo che il tizio a terra fosse gravemente ferito ma non morto. Non abbiamo verificato se il cuore o il suo polso battevano ancora. Se avessimo capito che era gia morto ovviamente non avremmo mai lasciato il suo corpo tra le mani degli sbirri e lo avremmo trasportato fino a via Tolemaide dove avremmo acciuffato un’ambulanza (non oso immaginare l’effetto che questo avrebbe fatto sui centinaia e centinaia di persone che si trovavano là).
Tant’è che gli sbirri hanno caricato e la piazza si è svuotata, gli ultimi manifestanti hanno raggiunto la parte grossa del gruppo a cui hanno riferito che un tizio si era preso una pallottola e che forse era morto. Le persone hanno lanciato urla di collera. Gli sbirri dopo aver vuotato la piazza si sono presentati nella stradina da dove le persone stavano iniziando ad andarsene verso via Tolemaide. Quando li hanno visti arrivare la gente gli è andata incontro urlando "Assassini" e hanno fatto rifluire gli sbirri nella piazzetta.
Di fronte a me c’era una strada dove la gente caricava verso la piazza e alla mia destra la strada che sbucava su via Tolemaide. Ho visto in fondo a questa via un piccolo veicolo blindato che risaliva di corsa via Tolemaide sfondando tutti gli ostacoli. Spero che nessuno si trovasse sulla sua strada perché il blindato si avventava dritto a tutta velocità. Ho incontrato un giornalista che aveva assistito alla morte del manifestante, parlava francese e mi ha detto a me e ad un altro francese che si trovava là che non c’era da illudersi, il tizio era morto. Ha detto che bisognava mandare le immagini. Ho raggiunto via Tolemaide da una stradina più su dalla zona dove ho avvistato il blindato. La notizia cominciò a spandersi tra le prime file dei tumultuanti e le persone hanno attaccato gli sbirri furiosamente. Io ho iniziato a risalire lentamente, in senso contrario. La notizia funesta risaliva il corteo anche lei….Dopo ho accelerato e gridato durante un lasso di tempo continuando a camminare veloce, in diverse lingue che c’era un morto con una pallottola in testa. Ho informato la S.O. della LCR della notizia. Dopo ho continuato ancora per un po’ a risalire la manifestazione annunciando la notizia... La testa del corteo era schifata dalla notizia e quindi lasciava i luoghi. Fine del racconto. Un anarchico da qualche parte in Francia - fine 07 2001.»
95. Secondo il giudice, quanto descritto dall'anonimo partecipante ai disordini trova piena rispondenza nel contenuto delle comunicazioni di notizie di reato e nei risultati delle indagini immediatamente avviate, secondo i quali «verso le ore 17,00 un gruppo di dimostranti si era attestato in via Caffa all'incrocio con la via Tolemaide innalzando barricate con cassonetti per la spazzatura, carrelli di supermercati e quant’altro era riuscito a reperire sul posto. Da tale barricata il gruppo aveva iniziato un fitto lancio di pietre e corpi contundenti all’indirizzo di un contingente dei Carabinieri che, inizialmente posizionato in piazza Alimonda all’angolo con via Caffa, aveva iniziato ad avanzare allo scopo di fermare i manifestanti il cui gruppo era nel frattempo numericamente aumentato per l'arrivo di altri manifestanti giunti da via Tolemaide.»
96. Il giudice ricostruì così quello che successe dopo:
«Erano pertanto giunti in ausilio al contingente appiedato due Defender dei Carabinieri, uno dei quali guidato dal Carabiniere Cavataio, sul quale prendevano posto i Carabinieri Raffone e Placanica.
All' improvviso i manifestanti avevano posto in essere una violentissima carica che aveva costretto il contingente dei Carabinieri a ripiegare percorrendo a ritroso via Caffa per guadagnare una posizione relativamente sicura; le due jeep avevano iniziato di conseguenza una manovra di retromarcia fino a raggiungere la piazza Alimonda dove, mentre una era riuscita ad invertire la marcia in direzione di piazza Tommaseo, quella condotta dal Carabiniere Cavataio nell'effettuare la manovra di svolta era andata a sbattere con il frontale del veicolo contro un cassonetto della spazzatura senza riuscire ad effettuare una subitanea manovra di retromarcia. Nel volgere di pochi attimi il veicolo era stato circondato da un gran numero di manifestanti che lo accerchiavano prendendolo d'assalto e colpendolo con mezzi di ogni genere (tubi, pali della segnaletica stradale, assi di legno ecc.), mentre da parte dei manifestanti che si trovavano sia nei pressi della camionetta che in zone più distanti continuava una fitta sassaiola. I numerosi filmati scattati sul luogo mostrano la violenza dell’attacco portato al contingente dei Carabinieri ed in particolare nel filmato realizzato da "Luna Rossa Cinematografica" si nota il violentissimo assalto al defender rimasto bloccato all'angolo di piazza Alimonda, contro cui i manifestanti si accanivano, sfondandone i vetri con pietre, spranghe e bastoni. Le immagini estrapolate dai filmati e le fotografie scattate nell'imminenza del fatto e raccolte nell'album della Squadra Mobile contenente 34 fotografie danno una precisa sequenza dei fatti mostrando il reparto appiedato dei Carabinieri schierato nel tratto di via Caffa che congiunge piazza Alimonda a via Tolemaide, mentre fronteggia numerosi manifestanti che, armati di spranghe e bastoni, lanciano sassi da una barricata eretta all' incrocio con la via Tolemaide dietro la quale si nota, nella foto n. 1, anche Carlo Giuliani nell'atto di lanciare una pietra contro i Carabinieri.
Le fotografie da 3 a 7 mostrano i manifestanti che avanzano verso il contingente dei Carabinieri seguito dalle jeep, armati di spranghe e bastoni, nonché di numerose pietre che lanciano all'indirizzo dei Carabinieri come evidente nella fotografia n. 4.
Le successive immagini mostrano la ritirata del contingente dei Carabinieri preceduto dalle jeep che viaggiano in retromarcia, "inseguito" da moltissimi manifestanti (fra i quali si distingue nelle foto n. 10 Massimiliano Monai che corre imbracciando una trave), essendosi aggiunto a quelli che già si trovavano in via Caffa un gran numero di altri manifestanti provenienti da via Tolemaide. Il contingente appiedato riusciva ad attraversare di corsa la piazza ritirandosi in direzione di piazza Tommaseo sempre inseguito dai manifestanti e le jeep iniziavano una rapida manovra di inversione della marcia, venendo però raggiunte dai manifestanti che tentavano di assalirle entrambe, come evidente nelle fotografie n. 13 e 14. Uno dei mezzi riusciva a completare la manovra abbandonando la piazza, mentre l’altro nell’effettuare la manovra andava a sbattere con la parte anteriore contro un cassonetto dei rifiuti rimanendovi incastrato anche perché, come si vedrà, il motore si spegneva più volte.
Mentre alcuni manifestanti continuavano a lanciare sassi anche contro il contingente appiedato ormai lontano e contro il "defender" che si stava allontanando, la jeep condotta dal Carabiniere Cavataio, sulla quale prendevano posto i Carabinieri Raffone e Placanica, veniva immediatamente accerchiata dai manifestanti che si accanivano sul mezzo sfondandone i vetri e colpendo l’equipaggio con sassi, tubi di ferro ed assi che più volte introducevano attraverso i finestrini. L’accanimento dei manifestanti contro il mezzo, quale risulta dal materiale video fotografico in atti, è impressionante; vengono lanciate al suo indirizzo pietre, alcune delle quali come si vedrà colpiscono i Carabinieri al volto ed alla testa, e si nota distintamente Massimiliano Monai, ancora armato della lunga trave di legno, mentre la infila nel finestrino laterale destro cagionando in tal modo al Carabiniere Dario Raffone, fra le altre "contusioni escoriate in sede scapolare destra" che evidenzieranno, alla consulenza medico legale disposta dal pubblico ministero, caratteristiche di compatibilità con un colpo inferto proprio con tale mezzo (foto da 16 a 22 ). Nella foto n. 18 si nota che dal vetro posteriore totalmente infranto sporge il piede di uno dei Carabinieri che si trovano a bordo nell’atto di respingere un estintore che viene lanciato verso l’interno del mezzo e che potrebbe essere l’oggetto che ha determinato la "forte contusione alla gamba destra con edema diffuso a tutta la gamba" riportata dal Carabiniere Placanica il quale, nel corso del suo interrogatorio, riferiva infatti di essere stato colpito anche alla gamba da un oggetto "estremamente pesante e metallico".
Mentre il lancio di oggetti continua all'indirizzo del "defender" ed i suoi assalitori non si staccano dal mezzo, uno dei Carabinieri all’interno dell’autovettura impugna con la mano destra una pistola; ciò è chiaramente visibile nelle foto 18, 19, 20, 21 e 22 che mostrano una mano che dall'interno impugna una pistola al limite superiore della sagoma della ruota di scorta posta sul portellone posteriore; mentre l’aggressione continua un giovane si china a terra e raccoglie un estintore che alza verso il lunotto posteriore della jeep come nell'atto di scagliarlo.
Dall'interno partono due spari in rapida successione. Il giovane con l'estintore si accascia al suolo e il suo corpo rotola arrestandosi contro la ruota posteriore sinistra del mezzo; di fianco ad essa, sopravanzando il corpo, è rotolato l’estintore.
Qualche istante dopo il "defender" riesce ad ingranare la retromarcia arrotando con la ruota posteriore sinistra il corpo del giovane e poi nuovamente investendolo mentre avanza imboccando la via Caffa in direzione di piazza Tommaseo, fermandosi quasi subito all’angolo con una via laterale. Sul selciato resta il corpo esanime di un giovane con il capo coperto da un passamontagna, che verrà identificato in Carlo Giuliani».
97. Per quanto riguarda FC, il giudice considerò che gli elementi del fascicolo permettevano di escludere la sua responsabilità penale, poiché la morte di Carlo Giuliano era stata sicuramente provocata, nel lasso di alcuni minuti, dallo sparo, e i passaggi della jeep sul corpo avevano provocato solo delle contusioni e delle ecchimosi. Inoltre, FC non era riuscito a vedere Carlo Giuliani, tenuto conto della confusione che si era creata intorno alla jeep. Ciò escludeva qualsiasi responsabilità dell’autista nell’omicidio.
98. Per quanto riguarda MP, il giudice prese atto che gli elementi del fascicolo dimostravano che il primo proiettile sparato aveva colpito Carlo Giuliani in modo letale. Si trattava di un proiettile blindato, di calibro 9 mm parabellum, e dunque di particolare potenza. Tenuto conto di quest’ultima, e vista la debole resistenza dei tessuti attraversati dal proiettile, si poteva, secondo il giudice, accogliere l’ipotesi formulata dai periti della procura, secondo cui il proiettile aveva colpito un oggetto prima di raggiungere Carlo Giuliani. Tale oggetto intermedio poteva essere uno dei numerosi sassi che erano stati lanciati dai manifestanti in direzione della jeep. Ciò sembrava confermato dal filmato che mostra un sasso che si disintegra in aria nello stesso momento in cui si sente una detonazione.
99. Quanto all’originaria direzione del colpo, il giudice prese atto che la perizia balistica non permetteva di stabilirla. Tuttavia, a suo parere, se si partiva dal principio che la jeep era alta 1,96 m, che il sasso che si vedeva nel filmato si trovava a circa 1,90 m di altezza quando la videocamera l’aveva ripreso, era sensato pensare che il colpo fosse stato esploso verso l’alto, conformemente alle conclusioni dei periti della procura.
100. Il giudice considerò che la prima ipotesi formulata dalla procura – ossia che MP avesse sparato al solo scopo di intimidire i manifestanti – non poteva essere presa in considerazione, ed affermò che MP voleva fermare l’aggressione. Peraltro, non vi erano abbastanza elementi che permettessero di affermare che MP aveva potuto vedere Carlo Giuliani al momento dello sparo, e dunque che avesse mirato contro la vittima.
Secondo il giudice, l’ipotesi più probabile era che MP aveva sparato correndo il rischio di uccidere e, pertanto, che si trattava di un omicidio doloso. Tuttavia, nella fattispecie intervenivano due fatti che escludevano la responsabilità penale: in primo luogo l’uso legittimo delle armi, previsto dall’articolo 53 del codice penale («[non è punibile] il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di fare uso di armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità»); in secondo luogo, la legittima difesa.
101. Bisognava anzitutto stabilire se l’uso di un’arma era stato necessario. La ricostruzione dettagliata dei fatti faceva pensare che MP si fosse trovato in una situazione di estrema violenza, volta a destabilizzare l’ordine pubblico ed in atto nei confronti dei carabinieri, la cui incolumità era direttamente minacciata. Secondo il giudice, il pericolo derivava dal numero di manifestanti e dalle modalità complessive dell’azione, che esponevano MP e gli altri due Carabinieri ad atti di violenza che potevano mettere in pericolo la loro incolumità. In conclusione, l’uso dell’arma da fuoco era giustificato, e graduato in modo da essere il meno offensivo possibile, dato che MP aveva «certamente diretto i colpi verso l’alto» e che uno dei proiettili aveva colpito Carlo Giuliani solo perché la sua traiettoria era stata modificata in modo imprevedibile. Il passo pertinente della decisione recita:
«La morte di Carlo Giuliani, attinto dal un proiettile di un Carabiniere che nel corso di una manifestazione ha fatto uso delle armi, impone prima di tutto di valutare se la condotta di Placanica sia scriminata dall’art. 53 c.p. che stabilisce la non punibilità per "il pubblico ufficiale che al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di fare uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità". Non si tratta della legittima difesa ma di un potere più ampio, in cui la legittimità della reazione non è subordinata al limite della proporzione con la minaccia, purché non si eccedano i limiti della "necessità", perché se questi vengono varcati ricorreranno gli estremi dell'art. 55 c.p. che punisce l'eccesso colposo, atteso che anche per i pubblici ufficiali l'uso delle armi costituisce una "estrema ratio" e dunque deve essere sempre preferito il mezzo meno dannoso. Ma quando l’uso delle armi sia ritenuto legittimo nel rispetto della proporzione, il verificarsi di un evento più grave non voluto non può essere posto a carico del pubblico ufficiale in quanto la prevedibilità di tale evento è intrinsecamente collegata alla componente di rischio insito nell’uso dell’arma da fuoco, unica in dotazione del pubblico ufficiale, e il suddetto rischio potrebbe scongiurarsi solo rinunciando all’uso dell'arma, normativamente autorizzato (fattispecie in cui, riconosciuto legittimo l’uso delle armi da parte dei Carabinieri che avevano mirato alle ruote per fermare un’auto in fuga, è stato escluso che essi potessero rispondere ex art. 55 c.p. della morte non voluta degli occupanti dell’autovettura Cass 22.9.2000 - Brancatelli). L’uso di armi o di altro mezzo di coazione fisica (consistente cioè in una violenza materiale alla persona) non è punibile:
- quando il fatto è commesso al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio e per la necessità di respingere una violenza o resistenza all’Autorità;
- quando è autorizzato in modo specifico da una norma giuridica;
- in via generale, e dunque senza la necessità di particolari autorizzazioni legislative, la punibilità è esclusa quando si agisca per la necessità di respingere una violenza o una resistenza: l’Autorità, si tratti o no di violenza o resistenza costitutiva di uno dei reati di cui agli artt. 336 e ss. c. p.
L’art 53 c.p. fa comunque salve, anche nei confronti dei pubblici ufficiali, le disposizioni di cui agli artt. 51 e 52 c.p. e giustifica il comportamento del pubblico ufficiale anche quando non sia diretto a reagire al pericolo di un’offesa ingiusta contro lo stesso pubblico ufficiale, trovando nell’art. 53 c.p. una esimente speciale in virtù anche del fine di adempire ad un dovere d’ufficio che qualifica la sua condotta.
Si tratta dunque di una disposizione che completa quelle di cui agli artt. 51 e 52 c.p., conferendo una autonoma disciplina all’uso delle armi ed eliminando qualsiasi dubbio sui requisiti richiesti dalla legge perché il pubblico ufficiale o il privato non siano punibili.
Trattasi, come si è detto, di una scriminante più ampia della legittima difesa che trova più frequenti applicazioni in ipotesi di resistenza più che di violenza diretta nei confronti del pubblico ufficiale, ma è indubbio che il confine tra le due figure giuridiche, quando l’autore dell’vento lesivo sia appunto un pubblico ufficiale, può diventare labile.
Non c’è dubbio, sulla base della ricostruzione dei fatti minuziosamente effettuata, che Placanica, comandato in servizio di ordine pubblico, fosse pienamente legittimato a fare uso delle armi quando ricorressero i presupposti della necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità. E non vi è parimenti dubbio che la situazione in cui Placanica si è trovato ad agire fosse di estrema violenza volta a destabilizzare l’ordine pubblico ed in atto nei confronti delle stesse forze dell’ordine, la cui incolumità era direttamente messa in pericolo.
Infatti nel caso in esame non si profilava la necessità di vincere una violenza secondo un concetto genericamente inteso che ricomprende anche il mancato rispetto dell’Autorità, bensì della necessità di difendersi contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta che veniva portata direttamente alla persona di Placanica e di coloro che con lui si trovavano.
Certamente per il numero dei manifestanti e per le modalità complessive dell’azione la violenza posta in essere nei confronti di Placanica e dell’equipaggio del "Land Rover" su cui lo stesso si trovava lo esponeva al pericolo di gravi danni fisici, come è evidente dalle lesioni riportate dallo stesso Placanica e dal Carabiniere Raffone, che sono stati attinti alla testa ed al volto da grossi pezzi di pietre nonché in altre parti del corpo mediante l'utilizzo di tavole, travi e bastoni che venivano violentemente introdotte attraverso i vetri rotti della camionetta.
Si trattava dunque di una situazione di grave pericolo che trova indubbio riscontro non solo nella documentazione video fotografica agli atti, ma altresì nelle dichiarazioni degli stessi partecipanti all’aggressione.
Basta ricordare la descrizione che di quegli attimi è stata fatta dall’anonimo anarchico, nonché le parole di alcuni dei diretti aggressori del defender:
"…io tentando di fuggire da una via laterale, mi trovo con circa 400 persone nel tratto di strada che conduce a piazza Alimonda, nella quale speravo che la situazione fosse più tranquilla e di riprendere fiato…appena entrati nella via laterale ci troviamo di fronte una cinquantina di Carabinieri che vedendoci arrivare di corsa, stavamo scappando, si spaventano correndo via dopo aver spruzzato contro di noi le bombolette con lo spray urticante.
Continuiamo a correre i carabinieri davanti, noi dietro fino a piazza Alimonda. Qui inseriscono tra noi e loro due camionette dei Carabinieri che ci fermano e proteggono la corsa degli agenti.
Delle due camionette giunte sul posto, una si muove subito per raggiungere il cordone di polizia e carabinieri che si trovava nel tratto di via Caffa vicino a piazza Alimonda, l’altra incredibilmente si dirige con il lunotto posteriore già rotto, contro un cassonetto che si incastra fra la jeep e il muro.
A quel punto io sono a lato della camionetta: sul mezzo vedo accalcarsi diversi manifestanti che sfogano quattro ore di paura ed esasperazione contro la lamiera…
Guardando cosa succede intorno alla camionetta, mi rendo conto che il carabiniere seduto dietro sta puntando la pistola e sento che urla "vi ammazzo tutti porci bastardi!". Mi volto e grido che ha una pistola e sta cercando di avvisare gli altri del pericolo. In quel momento Carlo Giuliani che ancora non riconosco è accanto a me e sta guardando per terra. Mentre corro verso la strada suddetta, sento gli spari, mi volto e vedo il corpo di un ragazzo a terra, gli altri che si trovano a lato del mezzo di fermano e si allontanano… La mia impressione è che dal momento in cui vedo la pistola a quello in cui sento gli spari, siano trascorsi diversi secondi in cui il carabiniere continuava ad urlare "vi ammazzo tutti". Preciso inoltre che prima di sparare, a quello che poi saprò essere Carlo Giuliani, il carabiniere aveva puntato l’arma verso altre persone, soprattutto verso il ragazzo con la felpa e con il casco nero, che essendosi accorto della pistola come me, scappa sottraendosi alla mira" e nel seguito dello stesso interrogatorio ribadisce "cercavamo di passare da quella parte dicendo "non c'è nessuno", in effetti qua in via Caffa c’erano 40 carabinieri, stranissimo sembrava che si fossero persi…saranno stati 50 metri prima dell'imboccatura di piazza Alimonda: loro erano in 40, noi 400-500 persone che appena ci hanno visto ci hanno spruzzato con le bombolette in tre, tutto per aria… a quel punto questi qua scappano, noi siamo a 15-20 metri…Io non ho preso a mazzate la camionetta non ho preso a sprangate la camionetta… ho tirato un sasso, forse da 50 metri di distanza… posso anche aver dato dei calci alla camionetta, ma che io abbia preso qualcosa, ecco un pezzo di ferro ed abbia dato delle mazzate alla camionetta, ecco io questo non l’ho fatto… può essere che abbia lanciato un sasso, non lo so, non certo comunque con l’intenzione di volere fare del male a qualcuno, era un momento di paura prima di tutto … sa se uno mi arriva con la pistola puntata, lo posso anche capire che prenda l’estintore per togliergli la pistola, ad esempio, lo posso capire, lo posso concepire… non sono andato lì con l'intenzione di assaltare la jeep… non credo di essere stato intorno a quella jeep per più di 15-20 secondi, cioè il tempo di vedere questo Carabiniere sia lateralmente che poi girando che poi sì, prima di questa foto io ero girato che stavo guardando in direzione di questo ragazzo con la felpa viola che parla inglese. Tempo di guardarlo, mi sono tolto il fazzoletto e ho iniziato a gridare di scappare e dopo 15 secondi che la foto è stata scattata, ho sentito gli spari… insieme a me sono venuti via una quindicina di persone, tutti gli altri sono rimasti intorno… È arrivata con il muso contro il cassonetto dell'immondizia, già con il finestrino sfondato e già con questa persona comunque stesa all'interno della camionetta con il braccio con lo scudo verso il finestrino laterale che guardando la camionetta è il finestrino di sinistra, e con la pistola in mano… Allora le dico abbiamo visto la camionetta e probabilmente, le dico probabilmente perché io non posso ricordare cosa mi è passato nella mente in quel momento perché non me lo ricordo. Se pensassi con la mia testa di adesso le dico "stavo scappando", con la testa di quel momento probabilmente, anche perché c’erano gli altri, pensavo ci fosse molta meno gente, ho visto il nemico nella camionetta, nella jeep dei carabinieri e gli avrò tirato due pietre… Se io avessi voluto fare del male a qualcuno, prendevo assi di legno che sono riuscito a trovare, bastoni, mazze ecc. e mi mettevo qua dietro a dare delle mazzate, qua dove c’era il carabiniere dal lunotto come ha fatto questo qua che ha cercato di tirargli la pietra in faccia, io questo non l’ho fatto... se io fossi una persona che comunque ha l’intenzione da quando è scesa in strada dall’una del pomeriggio, a fare male a qualcuno, in questo caso alle forze dell’ordine, io ne ho avuto possibilità molto buone, avrei avuto una possibilità ottima per fare del male a qualcuno e questo non è successo..." (interrogatorio Predonzani al P.M. in data 6 settembre 2001).
Di ulteriore utilità per comprendere quanto realmente accaduto in piazza Alimonda sono le dichiarazioni rese da Monai Massimiliano, presentatosi spontaneamente al Pubblico Ministero in data 30.8.2001 il quale ha dichiarato:
"... Durante gli scontri, durante il casino, quando ci caricavano e caricavano, a quel punto lì, siamo al punto di Carlo, io principalmente ero dalla parte dell’Ottavio Barbieri... io ero lì... a cercare di fare qualcosa, di scappare indietro, oppure di andare avanti, però non potevi andare da nessuna parte: Avanti c’erano loro. Dietro c’era belin un casino di gente che tirava le pietre. A quel punto cosa e' successo eravamo tutti lì con un po’ di gente che io non conosco, un po’ perché aveva il passamontagna, chi aveva quello chi aveva il fazzoletto, abbiamo visto i carabinieri andare indietro... Io ho visto la gente che tirava le pietre contro i carabinieri. I carabinieri andavano indietro, c’era un gruppo che andava avanti e un gruppo che li voleva chiudere... siamo andati in giù tirando delle pietre... i carabinieri correvano indietro e la gente che gli tirava delle pietre... A quel punto è successo che i carabinieri sono andati via, noi ci siamo fermati e queste due jeep sono arrivate a tutto spiano perché? Boh, sono arrivate contro di noi chiaramente noi scappavamo; le due macchine una ha fatto retromarcia dalla Chiesa ed è riuscita ad andare via e l’altra ha fatto l’inversione ad U ed è rimasta incastrata: gli sono arrivati tutti addosso come si vede; lì a 20 metri ho visto sta trave, l’ho presa e ho dato 3 bastonate contro la camionetta, neanche contro il vetro perché quando sono arrivato io era già rotto. Ho dato tre colpi sopra la camionetta mentre arrivava di tutto, poi ho preso il bastone, il vetro era già rotto e c’era il carabiniere che mi guardava... quello che non ha sparato, quello che mi vedeva con la trave... non ho visto niente neanche la pistola, niente, poi lasciando il bastone e facendo il giro sentivo dire "dai che forse lo salviamo, dai" "assassini, assassini, l’hanno ammazzato". Ho dato 3 bastonate sul furgone, sono andato indietro, c’erano due carabinieri, quello che non ha sparato che mi guardava, gli sono entrato dentro con la trave e non so neanche se l’ho preso, l'avrò preso qua nella costola. Lui si è abbassato per ripararsi, io mi sono fermato, ho buttato via la trave e intanto tiravano le pietre; e questo qua ha sparato e io ero sempre lì, cioè non è che quando ho buttato la trave sono scappato... quando io ho dato addosso a lui, è successo che il tipo ha sparato... Sono loro che ci hanno attaccato con le Land Rover. È diverso. Le forze dell’ordine stavano tornando indietro a piedi e noi correndo siamo arrivati quasi corpo a corpo, loro sono andati il più indietro possibile e noi ci siamo fermati, le 2 jeep sono venute incontro. Poi hanno fatto tutta questa retromarcia qua e la jeep si è fermata e poi ci sono stati i 10 secondi di deliri, di tutta la gente che era li. Io comunque non avrei ammazzato nessuno perché non sono un delinquente... da quante pietre hanno tirato io non ho sentito che avevano sparato... qualcuno urlava "Bastardi, via" roba di 10 secondi..." e alla domanda di quanta gente vi fosse vicino alla jeep rispondeva "tantissima".
Le fotografie in atti sono oltremodo esplicative della violenza descritta dagli stessi manifestanti.
Basta visionare le foto da 16 a 20 che mostrano chiaramente un estintore che, proiettato verso il vetro posteriore ormai rotto del "defender", colpisce il piede destro di Placanica che chiaramente sporge oltre il limite della ruota di scorta nel tentativo di impedire l’entrata dell’estintore all’interno della camionetta; quello stesso estintore che alcuni secondi dopo Carlo Giuliani raccoglierà da terra alzandolo sopra la testa per scagliarlo nuovamente all’interno della camionetta, come qualcun altro, se non addirittura lui stesso aveva poco prima tentato di fare visto quanto ha dichiarato al P.G. in data 23 luglio 2001 Neri Ernesta, titolare del distributore di benzina della società Q8 sito in via Tolemaide, la quale riferiva che poco dopo le ore 16,00 aveva notato dalla sua abitazione un giovane con il passamontagna scuro, la canottiera bianca ed i pantaloni scuri che si allontanava dal distributore con un estintore di cui scaricava il contenuto girando poi in via Caffa; riconoscendo poi l’estintore asportatole in quello sequestrato accanto al corpo di Carlo Giuliani.
La violenza dell’assalto posto in essere da numerosi manifestanti, la costante sassaiola alla quale era sottoposto il "defender" e che causava danni fisici agli occupanti rilevati dalle consulenze medico legali, l'aggressione portata agli occupanti dai manifestanti che continuavano a circondare il mezzo dappresso introducendovi mezzi contundenti e dunque il protrarsi nel tempo della situazione di pericolo indubbiamente attuale di una ingiusta offesa all’incolumità personale di Placanica e dei suoi compagni, certamente rendeva necessaria una difesa che non poteva che sfociare nell’uso dell’unico mezzo che Placanica aveva a disposizione per contrastarla: l’arma.
Infatti il gesto di Giuliani non è stato una isolata aggressione come ritenuto dai difensori dei suoi familiari, ma solo una delle fasi di una violenta aggressione al "defender" posta in essere dalle numerose persone che lo avevano accerchiato, tentavano di farlo oscillare e, probabilmente, di aprirne il portellone, come dichiarato da alcune delle persone presenti al fatto, con il rischio di cagionare direttamente più gravi lesioni agli occupanti.
Partendo dalla ipotesi, ormai accertata, che il colpo sparato da Placanica è stato diretto verso l’alto, non vi è dubbio che la condotta di Placanica, alla quale è conseguita la morte di Carlo Giuliani, è scriminata dall'art. 53 c.p., avendo il militare esploso due colpi diretti verso l’alto che seguivano le numerose quanto inutili intimazioni volte a far cessare la violenza, uno dei quali per un fattore sopravvenuto ed assolutamente imprevedibile, ha deviato il proiettile determinando la morte di Carlo Giuliani.
Tutti gli elementi della indagine, della cui completezza non si può dubitare, consentono dunque con certezza di escludere che Placanica abbia deliberatamente diretto i suoi colpi verso Carlo Giuliani; ma quand’anche ciò si fosse verificato, non vi è dubbio che il carabiniere legittimato all’uso delle armi, con la componente di rischio che l’uso di tale strumento di per sé comporta, si trovava in presenza di un pericolo attuale per la vita o l’integrità fisica propria e dei compagni, pericolo già concretatosi in atti lesivi della integrità fisica e che si faceva vieppiù violento; e che dunque legittimamente avrebbe potuto dirigere il colpo d’arma da fuoco contro gli aggressori al fine di porli nella impossibilità di proseguire nell'azione lesiva e pur cercando di limitare il danno in tal modo cagionato (con colpi diretti ad esempio a non colpire organi vitali), non trattandosi di resistenza passiva né essendosi l'aggressore fatto scudo con un ostaggio: unici casi in cui dottrina e giurisprudenza concordemente escludono la legittimità dell’utilizzo dell’arma direttamente contro l'aggressore.
Quanto sopra consente dunque di ritenere la condotta di Placanica scriminata ai sensi dell'art. 53 c.p., tanto più che l’uso dell'arma, assolutamente indispensabile, è stato graduato in modo da risultare il meno offensivo possibile, atteso che i colpi sono stati certamente diretti verso l’alto e solo per un’imprevedibile modifica della traiettoria uno di essi è andato a colpire Carlo Giuliani.»
102. Il giudice ritenne poi di dover decidere se MP avesse agito per legittima difesa, visto che quest’ultima costituiva un fattore «più rigoroso» di esclusione della responsabilità.
A questo riguardo, il giudice considerò che MP aveva, a giusto titolo, avuto la percezione di un pericolo per la sua incolumità fisica e per quella dei suoi compagni, e che tale pericolo era realmente esistito a causa del contesto violento. Secondo il giudice, per valutare la necessità della risposta e la proporzionalità di quest’ultima, non bisognava considerare la situazione isolata di Carlo Giuliani e valutare il suo gesto isolato (aveva sollevato un estintore vuoto); bisognava invece considerare il gesto di Carlo Giuliani come una delle fasi di una violenta aggressione alla jeep, posta in essere da una massa di manifestanti. L’aggressione non proveniva solo da Carlo Giuliani, ma da una massa di aggressori. La risposta di MP doveva dunque essere considerata in rapporto a quest’ultima, per essere valutata nel suo «contesto».
Tenuto conto del numero di aggressori, dei mezzi utilizzati, del carattere continuo degli atti di violenza, delle ferite dei carabinieri presenti nella jeep, della difficoltà per il veicolo di allontanarsi dalla piazza per problemi al motore, si poteva affermare che la risposta di MP era stata necessaria. Inoltre, tale risposta era stata adeguata visto il grado di violenza.
A tale riguardo, il giudice affermò che era certo che se MP non avesse estratto l’arma e sparato due volte, l’aggressione non sarebbe cessata; poi, che se l’estintore – che MP aveva già respinto una volta con la gamba – fosse riuscito a penetrare nella jeep, avrebbe provocato gravi ferite agli occupanti. Il giudice affermò che MP aveva a disposizione un unico mezzo per fermare la violenza: l’arma da fuoco. A tale riguardo, il giudice considerò che MP ne aveva fatto un uso proporzionato, in quanto prima di sparare aveva urlato ai manifestanti di andarsene affinché questi cambiassero atteggiamento; poi aveva sparato verso l’alto. Il giudice concluse che MP aveva agito per legittima difesa. Inoltre, precisò che il fatto che MP avesse potuto vedere Carlo Giuliani – come affermavano i periti della procura e i ricorrenti – e che avesse corso il rischio di uccidere non cambiava affatto la conclusione, dal momento che il gesto di MP era giustificato dalla necessità di difendere l’incolumità personale degli occupanti della jeep, ed era proporzionato rispetto all’importanza dei beni da difendere e ai mezzi di cui disponeva a tale scopo.
103. La decisione di archiviazione recita:
«Occorre esaminare la condotta di Placanica anche alla luce della sussistenza dei più ristretti requisiti richiesti dall’art. 52 c.p., onde verificare se siano ravvisabili nelle circostanze del fatto e nella reazione posta in essere anche gli elementi per la sussistenza della più rigorosa causa di giustificazione della legittima difesa. Si è ampiamente detto della situazione di fatto ed ambientale in cui Placanica si è trovato ad agire. E non vi è dubbio che in tale situazione, analoga a quella che nel vicino corso Torino aveva poco prima portato all’incendio di un mezzo blindato al cui interno era stata lanciata una bottiglia molotov, Placanica percepisse come concreto quel pericolo di attentato alla incolumità sua e dei compagni che effettivamente sussisteva e che si era già concretato in episodi lesivi (vista la documentazione in atti e le lesioni riportate dagli occupanti del "defender"); e che perdurava nonostante le ripetute intimidazioni effettuate mostrando l’arma. Basta osservare le numerose foto che mostrano la camionetta sempre accerchiata dai manifestanti che sfondano i vetri con aste e bastoni che introducono all’interno con il chiaro intento non solo di danneggiare il mezzo a scopo di protesta, ma di far del male al suo equipaggio, lanciando all’indirizzo del mezzo un numero rilevantissimo di pietre, molte della quali penetravano all'interno colpendo gli occupanti, per avere un’idea della violenza in concreto in atto e dei possibili ulteriori danni che avrebbero potuto essere cagionati agli occupanti del mezzo. Né è ipotizzabile quanto sostenuto dalla difesa degli opponenti nel corso dell’udienza, secondo cui le lesioni al capo di Placanica avrebbero potuto essere state cagionate dall’urto contro la leva interna del faro posto sul tetto del "defender" anziché dalla condotta dei manifestanti. A parte la considerazione oggettiva che numerose pietre sporche di sangue sono state rinvenute all’interno del "defender", la leva del faro posto sul tetto è rivestita di plastica ed inserita in uno snodo coperto da una cuffia che serve ad orientare il faro, e proprio il fatto che tale leva sia collegata ad uno snodo rende il congegno opportunamente privo della rigidezza necessaria a cagionare lesioni al capo di coloro che si trovino all’interno del "defender", e comunque lesioni lacero-contuse dell’entità di quelle riportate da Placanica.
Tornando dunque alla situazione di fatto, non vi è dubbio che la reazione posta in essere fosse necessaria tenuto conto di tutte le circostanze dell'azione ed in particolare del numero degli aggressori, dei mezzi dai predetti utilizzati per l’offesa alle persone, della continuatività della violenza nonostante plurime intimazioni da parte dei militari, delle lesioni già cagionate ai predetti e perfino della difficoltà di allontanarsi dal luogo visto che il motore del "defender" si spegneva, allontanamento non esigibile ma ciò nonostante tentato. Ne consegue che anche l’analisi dell’adeguatezza della difesa rispetto all’offesa in atto, con riguardo alla sostanziale equivalenza dei beni posti in pericolo, deve risolversi positivamente, concretandosi l’attacco portato al "defender" dei Carabinieri in atti non solo pericolosi, ma di per sé stessi già lesivi di diritti ed in particolare della integrità fisica degli occupanti; ed è incontestabile, alla luce della circostanze del fatto, che se Placanica non avesse estratto l'arma minacciando con essa i manifestanti ed infine esplodendo i due colpi, l’attacco non sarebbe cessato e sarebbe stato portato a conseguenze certamente ulteriori e più gravi, e che se l’estintore che già una volta Placanica aveva respinto con un calcio fosse entrato all’interno dell’abitacolo colpendo i carabinieri già feriti avrebbe cagionato loro lesioni di notevole gravità se non addirittura conseguenze più gravi. Pacifica l’attualità del pericolo e l’ingiustizia dell’offesa che veniva non solo paventata al livello di pericolo, ma che già era in atto, occorre verificare la sussistenza del requisito della proporzione anche in considerazione dei mezzi posti a disposizione dell’aggredito e delle modalità del loro utilizzo.
In tema di proporzione del mezzo di difesa rispetto all’offesa, la Corte di Cassazione ha più volte chiarito che ai fini della configurabilità dell’esimente della legittima difesa, il giudizio di proporzione, che deve essere formulato in riferimento ai mezzi a disposizione dell’aggredito ed ai beni tutelati, non può essere qualitativo e relativistico. Infatti, il raffronto concerne pur sempre il bene di un aggressore e il bene di un aggredito, il quale, nel difendersi, non è in grado, nella situazione concreta, di dosare esattamente il reale pericolo e gli effetti della reazione, sicché la proporzione non viene meno quando il male inflitto all’aggressore abbia una intensità leggermente superiore a quella del male minacciato" (nella specie, relativa a ritenuta sussistenza dell’esimente, l’imputato si era difeso mediante l’uso del fucile, unico strumento di cui in quel momento disponeva, per neutralizzare l'improvvisa aggressione che la vittima, armata di un tubo di ferro della lunghezza di circa un metro, aveva dapprima portato contro il padre dell'imputato medesimo e poi contro quest’ultimo, procurando loro varie ferite. Cass. Sez I sent. 08284 del 13/04/1987-Catania).
La Corte ha inoltre stabilito che "in tema di legittima difesa, le espressioni "necessità di difendere" e "sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa", contenute nell’articolo 52 del codice penale,vanno intese nel senso che la reazione deve essere, nella circostanza, l’unica possibile perché non sostituibile con altra meno dannosa, ugualmente idonea ad assumere la tutela del diritto (proprio o altrui) aggredito" (Cass. Sez I sent. 02551 del 1/12/1995 - P.M. e Vellino).
Tali principi sui quali sono allineate la costante giurisprudenza e la dottrina dominante, applicate alle circostanze di fatto nelle quali si è verificata la tragica morte di Carlo Giuliani, consentono di ritenere rispettato anche il requisito della proporzione fra i mezzi offensivi a disposizione degli aggressori e quelli a disposizione degli aggrediti, che è ormai pacificamene insito nel concetto di proporzione che deve far riferimento non solo ai beni in conflitto, di cui si è parlato, ma anche ai mezzi usati per difenderli. Mario Placanica aveva a disposizione un solo mezzo per fronteggiare la violenza posta in essere nei suoi confronti e l’aggressione all’integrità fisica, se non addirittura alla vita, propria e dei compagni: l'arma. Ed anche a questo proposito le risultanze dei fatti depongono nel senso di un utilizzo di tale mezzo graduato in modo da creare all’offensore il minor danno possibile, nel tentativo di scoraggiarne comunque l’azione e di farlo desistere. La Corte di Cassazione ha infatti anche chiarito che "ai fini della configurabilità dell'esimente della legittima difesa la proporzione fra i mezzi difensivi a disposizione dell’aggredito e quelli usati deve essere valutata, quando a disposizione vi è un solo mezzo ma questo è suscettibile di usi diversi e graduabili, in termini di raffronto fra i vari usi possibili e l’uso che in concreto si è scelto di farne in relazione alle modalità dell'aggressione posta in essere o alle sue prevedibili conseguenze, essendo una tale situazione del tutto identica a quella in cui la valutazione deve essere fatta in termini di raffronto tra più mezzi a disposizione e quello usato. L’uso perciò di arma da fuoco, quale mezzo di difesa, deve essere contenuto, nel caso in cui trattasi di un’aggressione al massimo lesiva dell’integrità personale, in termini di mera apparenza mostrando l’arma e tenendo un atteggiamento deciso all’uso ovvero limitato all’esplosione di colpi in aria e in terra ovvero anche contro l’aggressore ma curando di non colpirlo o al massimo di colpirlo in zone non vitali, e quindi al solo scopo di deterrenza o di ferire, ma non di togliere la vita"; e dunque "in termini di mera sentenza o lesione dell’integrità fisica dell’aggressore" (Cass. 20.9.1982 - Tosani).
Orbene, nonostante numerose fotografie mostrino il defender accerchiato dai manifestanti dal quale spunta la mano di Placanica che impugna l’arma e le dichiarazioni in atti, non del solo indagato ma degli stessi aggressori, diano atto delle ripetute intimazioni del Carabiniere ad allontanarsi, lo stesso materiale fotografico mostra chiaramente che tali tentativi di scoraggiare l’aggressione non trovavano alcuna risposta nella condotta dei manifestanti che continuavano nella loro esasperata violenza, determinando infine l’indagato ad avvalersi dell’arma, unico mezzo che aveva a disposizione per contrastare la violenza in atto. E tanto più la condotta di Placanica appare aver rispettato il requisito della massima proporzione sotto il profilo delle modalità di utilizzo dei mezzi a sua disposizione, quando si consideri che se Placanica avesse voluto arrecare un sicuro danno a qualcuno dei suoi aggressori avrebbe potuto dirigere l’arma lateralmente verso i finestrini contro i quali si assiepavano numerosi dimostranti, mentre le complesse risultanze tecniche danno atto della sicura direzione verso l’alto dei colpi esplosi al primo dei quali, solo per una tragica fatalità, è conseguita la morte del giovane Giuliani.
Che dunque Placanica potesse intravedere Giuliani, come sostenuto dalla Difesa degli opponenti e pure ipotizzato dai consulenti del Pubblico Ministero, o che proprio non l’abbia visto come appare più probabile, sparando nel punto più alto che la sua posizione gli consentiva e magari accettando il rischio che il colpo esploso potesse attingere persone che si trovavano sul luogo dei fatti, il suo comportamento appare scriminato da una situazione di legittima difesa, atteso che la intenzionalità nella produzione dell’evento voluto o anche solo previsto è stata certamente determinata dalla necessità di difesa di diritti ingiustamente offesi, posta in essere nel rispetto dei limiti della proporzione sia con riferimento al valore dei beni posti in essere che ai mezzi a disposizione per la loro tutela.»
104. Le istanze della Difesa volte a ottenere un’integrazione delle indagini furono interamente rigettate dal giudice per i motivi di seguito esposti.
105. Quanto alla perizia medico-legale sulle cause della morte di Carlo Giuliani, volta in particolare ad accertare se lo stesso fosse ancora vivo nel momento in cui veniva arrotato dalla jeep e, comunque, a chiarire se i metodi di indagine applicati fossero scientificamente corretti:
«Si è già detto che non vi sono in atti elementi che consentano di dubitare della scrupolosità degli accertamenti eseguiti e della correttezza dei metodi di indagine esperiti, di talché l’accertamento richiesto appare non necessario. Va inoltre osservato che le persone offese, messe in condizione di partecipare all’autopsia disposta sul corpo del giovane con propri consulenti e dunque di verificare la correttezza dei metodi di indagine che venivano applicati, non hanno ritenuto di avvalersi di tale facoltà, né di svolgere propri accertamenti sulla salma del giovane, che anzi è stato cremato appena tre giorni dopo la sua morte, rendendo, quand’anche fosse utile (il che non è), impossibile qualsiasi ulteriore accertamento.»
106. Quanto all’audizione del capo della polizia De Gennaro e del sottotenente dei Carabinieri Zappia, in ordine alle direttive imposte per la gestione dell’ordine pubblico e sulla regolarità dell’utilizzo di "fondine a coscia" come quella dalla quale MP risulta aver estratto l’arma dalla quale ha esploso il colpo che ha colpito Carlo Giuliani:
«Anche tale indagine appare del tutto inconferente rispetto all’accertamento del tragico episodio che ha causato la morte di Carlo Giuliani, atteso che le direttive impartite per la gestione dell’ordine pubblico non possono che essere di ordine generale e certamente non contemplano istruzioni relativamente ad episodi non prevedibili di attacco diretto alle persone dei militari, quali è stato quello al quale ha reagito il Carabiniere Placanica; la cui condotta, come si è ampiamente detto, è scriminata sia dall’uso legittimo delle armi che dalla più rigorosa ipotesi di legittima difesa.
Quanto poi alla richiesta di accertare se fosse regolamentare l’uso delle "fondine a coscia", e comunque se siano utilizzate da parte di militari appartenenti all’Arma dei Carabinieri, non si comprende quale apporto alla indagine tale conoscenza potrebbe portare posto che a nulla rileva in quale posizione Placanica portasse la pistola, di cui nella situazione descritta, avrebbe legittimamente potuto far uso dovunque l’avesse portata o altrimenti reperita.»
107. Quanto alle indagini ai fini dell’identificazione della persona che potrebbe aver lanciato il sasso che avrebbe deviato la traiettoria del proiettile al fine di assumerne le dichiarazioni in ordine alla sua traiettoria di detto sasso:
«Trattasi di accertamento concretamente impossibile, anche qualora se ne fosse ravvisata la necessità, atteso che non è realistico ritenere che alcuno dei manifestanti abbia seguito la traiettoria dei sassi dopo averli lanciati contro il bersaglio che aveva individuato, al fine di verificare che il lancio fosse andato a segno; preoccupandosi più che altro di munirsi di nuovi oggetti contundenti del cui lancio fare segno le forze dell’ordine.
Inoltre, quand’anche fosse possibile una dichiarazione in tal senso da parte dell’ignoto manifestante che paradossalmente è stato, senza volerlo, la causa della morte del suo compagno di protesta, ne sarebbe impossibile l’identificazione, e le sue dichiarazioni sarebbero comunque del tutto irrilevanti a fronte dei risultati tecnici acquisiti.»
108. Quanto a una nuova audizione del manifestante M. Monai sul comportamento dei militari all’interno del "defender", sul numero dei manifestanti che si trovavano vicino al veicolo e su chi effettivamente all’interno del "defender" impugnasse l’arma, alla luce di quanto dichiarato da Monai nel corso di un’intervista, e quanto a una nuova audizione di E. Predonzani sulle stesse circostanze, sulla posizione di Giuliani prima di essere attinto dal colpo mortale e su quanti vetri della jeep fossero rotti:
«Le dichiarazioni che, in epoca molto vicina ai fatti e dunque quando il ricordo ne era più vivido, Monai e Predonzani hanno ritenuto di rendere presentandosi spontaneamente al Pubblico Ministero per riferire quanto a loro conoscenza in merito ai fatti di cui erano stati protagonisti ed alla tragica morte di Carlo Giuliani, rendono del tutto inutili nuove audizioni; trattasi infatti di dichiarazioni che riferiscono particolari estremamente precisi che hanno trovato riscontro nel materiale video fotografico in atti, tanto da costituire importante riscontro ai risultati delle indagini tecniche, mentre le differenti dichiarazioni che gli indagati, ed in particolare Monai, hanno reso ad organi di stampa o televisioni, non hanno alcuna veste processuale, e comunque il loro contenuto non rende necessario alcun chiarimento alla luce della precisa ricostruzione effettuata nella immediatezza del fatto e che ha trovato riscontro in dati oggettivi, quali fotografie e filmati. Né appare rilevante sapere quanti vetri del "defender" fossero rotti posto che è incontestabile che erano rotti alcuni vetri sul lato destro ed il vetro posteriore.»
109. Quanto all’audizione di Marco D’Auria, che dovrebbe confermare che in Piazza Alimonda non sono state lanciate "molotov", come invece ha fatto capire MP, nonché permettere di determinare la distanza alla quale si trovava quando ha scattato la fotografia sulla quale si sono basati i periti della procura per effettuare la ricostruzione balistica:
«Anche tale richiesta non appare destinata ad apportare alcun contributo all’indagine posto che la fotografia del D’Auria non ha costituito che un riferimento per determinare la posizione in cui Giuliani si trovava quando è stato attinto dal colpo d’arma da fuoco; la distanza della vittima dal "defender" è stata infatti calcolata tenendo conto della posizione assunta dalle persone che compaiono nelle fotografie con riferimento ad elementi fissi quali arredi e segnalazioni stradali rispetto ai quali sono state effettuate misurazioni concrete e trova conferma nelle dichiarazioni rese dalle persone che si trovavano vicine a Giuliani.
Quanto poi al fatto che Placanica avrebbe ipotizzato che in piazza Alimonda siano state esplose "molotov", come sembrerebbe dalla richiesta dell’ulteriore accertamento, trattasi di affermazione non esatta. Placanica infatti non ha mai affermato che in piazza Alimonda sono state esplose "molotov", limitandosi a riferire che temeva che ciò potesse avvenire.»
110 Quanto all’audizione del maresciallo Primavera sui tempi di rottura del vetro posteriore del portellone della jeep:
«Sulla circostanza che il vetro non sia stato rotto dal colpo di pistola di Placanica non vi sono dubbi, essendo evidente dalle fotografie che mostrano la mano di Placanica che impugna la pistola per minacciare i manifestanti, che il vetro era già stato infranto probabilmente dal lancio di pietre, ben prima che PLACANICA esplodesse il colpo che ha causato la morte di Giuliani. Né la diversa percezione da parte di colui che si trovava su un altro "defender" ha influenza sulla ricostruzione dei fatti, pacificamente ed in modo tranquillante accertati nella loro oggettività.»
111. Quanto all’acquisizione delle riprese effettuate in piazza Alimonda dai due Carabinieri che avevano telecamere sui caschi «etichettate e consegnate al Colonnello Leso»:
«Trattasi di materiale già in atti come risulta dalla comunicazione dei Carabinieri di Genova in data 13.9.2001, che dà atto della trasmissione al Pubblico Ministero di 17 videocassette, 15 delle quali relative ad immagini riprese in varie zone della città, fra cui via Caffa, dalle telecamere installate sui caschi protettivi di alcuni militari; nonché della trasmissione di 2 videocassette contenenti riprese effettuate dall’elicottero dell'Arma.»
112. Quanto all’audizione dell’appuntato VM sui motivi della perdita dell’incamiciatura del proiettile:
«La richiesta della Difesa delle persone offese si basa sulle dichiarazioni rese spontaneamente dal Mattioli, al quale "risulta essere pratica frequente intagliare la punta di un proiettile al fine di fargli acquisire un potere dirompente maggiore" escludendo automaticamente "l’intenzione di far uso della propria arma da fuoco a scopo intimidatorio. Essi servono per uccidere al primo colpo".
Preso atto della conoscenza di tale pratica da parte del Mattioli non si comprende quale utilità potrebbe avere la sua audizione da parte del Pubblico Ministero a fronte dei risultati delle consulenze balistiche disposte che si basano su riscontri oggettivi; laddove l’ipotesi del Mattioli non può essere considerata se non quale raro malcostume, che non si comprende per quale motivo e sulla base di quali dati oggettivi dovrebbe attribuirsi al Carabiniere Placanica atteso altresì che gli ulteriori colpi sequestrati nel caricatore della pistola a lui in dotazione risultavano perfettamente regolari.»
113. Quanto alla consulenza tecnica sulla jeep volta ad accertare le cause che hanno determinato il danno presente sul montante superiore dell'automezzo sopra la seconda «i» della scritta «carabinieri»:
«Si è già ampiamente trattato degli accertamenti effettuati per determinare l’origine dei danni al portellone posteriore, certamente cagionati dal lancio di pietre ed oggetti contundenti, che piovevano in grande quantità sul mezzo; ed è pacifico che anche il danno specificamente indicato non può avere diversa origine.
L’accertamento nuovamente richiesto dunque non è in grado di dissipare i dubbi della difesa degli opponenti circa l’impatto del proiettile con un calcinaccio, non potendosi certamente ipotizzare che un solo sasso sia stato scagliato contro il mezzo che risulta in più punti ammaccato, e preso atto che gli oggetti che attraversavano il teatro dei fatti e venivano scagliati contro i mezzi delle forze dell'ordine erano numerosissimi ed hanno causato non solo lesioni alle persona, ma anche vistosi danni alla carrozzeria del "defender".»
114. Quanto alla consulenza tecnica collegiale sui bossoli in sequestro per accertare da quali armi sono stati sparati, estendendo l’accertamento alle armi di tutti gli appartenenti alle forze dell’ordine presenti in piazza Alimonda nel momento in cui è stato colpito Carlo Giuliani:
«Trattasi com’è evidente di accertamento privo di concreta rilevanza. Non vi è dubbio infatti, per ammissione dello stesso indagato e per i risultati delle consulenze effettuate, che il colpo mortale che ha attinto Carlo Giuliani è stato esploso dalla pistola dello stesso Placanica.
Gli accertamenti a suo tempo disposti dal Pubblico Ministero per verificare se altri appartenenti alle forze dell'ordine avessero esploso colpi d’arma da fuoco nell’area di piazza Alimonda in data 20 luglio 2001, hanno infatti avuto risposta negativa, salvo per ciò che concerne l’esplosione di colpi a scopo intimidatorio avvenuta in via Tolemaide all’incrocio con la via Armenia da parte del Carabiniere Errichiello Massimiliano al fine di allontanare alcuni manifestanti che avevano accerchiato altro mezzo blindato facendolo segno di colpi di pietre ed essendo armati di spranghe, pietre e picconi.»
115. Per quanto riguarda, inoltre, i rilievi degli avvocati dei ricorrenti, che avevano sostenuto che numerosi atti di indagine erano stati delegati ai carabinieri e che molte audizioni erano avvenute in presenza di appartenenti all’Arma dei carabinieri, il giudice si espresse come segue:
«Si osserva che tali considerazioni possono avere poteri suggestivi, ma nulla hanno a che vedere con ciò che davvero si è verificato in piazza Alimonda portando alla tragica morte del giovane Giuliani, le cui drammatiche fasi sono state documentate da copioso materiale video fotografico in atti e dalle dichiarazioni degli stessi protagonisti della vicenda con una dovizia di mezzi e particolari che non può e non deve consentire di spostare l’attenzione su considerazioni del tutto irrilevanti.»
116. Alla luce di queste considerazioni, il giudice per le indagini preliminari concluse che «si può ritenere provato che il carabiniere MP ha agito in presenza di causa di giustificazione che esclude la punibilità del fatto; e che non vi sono elementi che consentono di ravvisare responsabilità del carabiniere FC nella morte di Carlo Giuliani». Pertanto, il giudice dispose l’archiviazione del procedimento.
D. La Commissione parlamentare d’inchiesta.
117. Il 5 settembre 2001 una commissione parlamentare d’inchiesta procedette all’audizione del dott. Lauro, un funzionario della polizia di Roma che aveva partecipato alle operazioni di mantenimento e ripristino dell’ordine pubblico a Genova.
118. Il dott. Lauro dichiarò che i carabinieri erano attrezzati di laringofoni, degli strumenti che permettono di comunicare tra loro molto rapidamente.
Chiamato a spiegare perché le forze dell’ordine che si trovavano abbastanza vicine alla jeep (15 o 20 metri) non fossero intervenute, Lauro rispose che gli uomini erano in servizio dal mattino e avevano avuto vari scontri durante la giornata. Egli aggiunse che non aveva notato, al momento dei fatti, che vi fosse un gruppo di carabinieri e agenti di polizia che sarebbero potuti intervenire.
Quanto alla funzione delle due jeep, Lauro spiegò che queste avevano portato dei viveri intorno alle 16.00, che erano ripartite e poi ricomparse dopo circa un’ora per verificare se vi fossero dei feriti.
Inoltre, Lauro dichiarò di aver chiamato un’ambulanza per Carlo Giuliani, poiché non vi erano medici sul posto.
119. Il 20 settembre 2001, alcuni parlamentari chiesero al Governo di spiegare i motivi per cui le forze dell’ordine spiegate durante le operazioni di mantenimento e ripristino dell’ordine pubblico erano state munite di munizioni letali e non di pallottole di gomma. I parlamentari raccomandavano l’utilizzo di questo tipo di proiettili e sostenevano che essi erano stati utilizzati varie volte con successo in alcuni Paesi stranieri.
Il rappresentante del Governo rispose che la normativa non prevedeva una tale possibilità e che, comunque, non era dimostrato che tali munizioni non provocano anch’esse conseguenze molto gravi per la vittima. Infine, egli spiegò che erano in corso delle ricerche sull’opportunità di introdurre armi non letali.
E. La sentenza pronunciata dal tribunale di Genova nel «processo dei 25»
120. Il 13 marzo 2008 il tribunale di Genova pubblicò la sentenza pronunciata all’esito del processo intentato contro venticinque manifestanti per numerosi reati (in particolare danneggiamento, furto, devastazione, saccheggiamento, atti di violenza nei confronti di membri delle forze dell’ordine) relativi alla giornata del 20 luglio 2001. I ministeri dell’Interno, della Difesa, della Giustizia, nonché il governo, si erano costituiti parte civile. Contro la sentenza in questione è stato interposto appello e il relativo procedimento è tuttora pendente.
121. Tale sentenza contribuisce alla comprensione degli eventi del 20 luglio 2001 (v. paragrafi 13-19 supra). Nel corso del dibattimento, durante 144 udienze, il tribunale di Genova ebbe modo di procedere all’audizione di numerosi testimoni e di esaminare in dettaglio il copioso materiale audiovisivo.
122. Nelle sue conclusioni riguardanti l’attacco dei carabinieri contro il corteo delle «Tute bianche», il tribunale considerò che tale attacco era stato illegale e arbitrario.
123 Per giungere a questa conclusione, il tribunale aveva stabilito che i manifestanti delle «Tute bianche» non avevano commesso atti significativi di violenza nei confronti dei carabinieri che li avevano attaccati. L’uso di dispositivi lacrimogeni e l’avanzata dei carabinieri verso Corso Torino avevano avuto luogo senza che fosse realmente necessario uno spiegamento di forze. L’attacco era stato condotto contro centinaia di persone inoffensive; non era nemmeno volto a isolare e bloccare le poche persone che lanciavano oggetti sui carabinieri, che avevano potuto continuare a farlo tranquillamente. Peraltro, non era stato dato alcun ordine di disperdersi.
124. Il tribunale giudicò poi che anche la carica successiva era stata illegale e arbitraria. Essa non era stata preceduta da un ordine di disperdersi; non era stata ordinata dall’ufficiale competente. Non era stata necessaria: le immagini dimostravano che i manifestanti restavano immobili dietro scudi di plexiglas, e che le persone che partecipavano al corteo non lanciavano oggetti, ad eccezione di tre lanci provenienti dal corteo. Inoltre, le forze dell’ordine avrebbero avuto il tempo (un minuto e mezzo circa) per chiedere istruzioni, cosa che non avevano fatto. Infine, il corteo era legale e i manifestanti non avevano aggredito i carabinieri.
125. Le modalità di intervento erano state anch’esse illegali: i carabinieri avevano lanciato dei dispositivi lacrimogeni ad altezza d’uomo; molti manifestanti presentavano ferite inflitte per mezzo di manganelli non regolari, i mezzi blindati avevano sfondato le barricate e inseguito la folla fino a sopra i marciapiedi, con l’intenzione manifesta di fare male.
126. Di conseguenza, il tribunale considerò che l’illegalità e l’arbitrarietà delle manovre dei carabinieri giustificavano i comportamenti di resistenza adottati dai manifestanti durante l’uso di gas lacrimogeni e la carica del corteo, e i successivi scontri avvenuti nelle vie laterali, in via Casaregis e in via Invrea, fino alle 15.30, ossia fino al momento in cui i carabinieri avevano eseguito l’ordine di fermarsi e lasciar passare il corteo. In conclusione, il tribunale giudicò che gli imputati si erano trovati in una situazione di «risposta necessaria» di fronte agli atti arbitrari della forza pubblica, ai sensi dell’articolo 4 del decreto legislativo n. 288 del 1944.
127. Inoltre, il tribunale trasmise il fascicolo alla procura, in quanto le dichiarazioni del sig. Mondelli e di altri due membri delle forze dell’ordine, secondo le quali il loro attacco era stato necessario per rispondere all’aggressione dei manifestanti, non corrispondevano alla realtà.
128. Per quanto riguarda il comportamento adottato dai manifestanti dopo le 15.30, invece, il tribunale considerò che esso non era più giustificato dalle azioni della forza pubblica, dal momento che l’attacco illegale e arbitrario era cessato. Di conseguenza, anche se i manifestanti avevano forse mantenuto la sensazione di essere state vittime di abusi e ingiustizie, il loro comportamento in questa fase non era più difensivo ma piuttosto dovuto a un desiderio di vendetta e, in quanto tale, ingiustificato e perseguibile.
129. Per quanto riguarda specificamente i fatti avvenuti nella piazza Alimonda, il tribunale di Genova considerò che l’attacco ordinato dal funzionario di polizia Lauro contro il gruppo di manifestanti non era stato né illegale né arbitrario. Pertanto, la violenta reazione dei manifestanti che ne era seguita, ossia l’inseguimento da parte dei carabinieri e l’assalto alla jeep, non poteva essere considerato una reazione di difesa contro un comportamento arbitrario delle forze dell’ordine.
130. Quanto alla condotta dei carabinieri a bordo della jeep, questi avevano potuto immaginare di essere oggetto di un tentativo di linciaggio. Il fatto che i manifestanti in questione – a differenza dei gruppi di black blocks – non disponevano di cocktail Molotov e non erano dunque in grado di incendiare il veicolo era un elemento valutabile ex post. Secondo il tribunale, gli occupanti della jeep non potevano essere colpevolizzati per non aver ragionato in questo modo e per aver ceduto al panico.
131. Il tribunale considerò che Carlo Giuliani si trovava a quattro metri dalla jeep quando era stato abbattuto. F.C. aveva dichiarato che con la sua maschera a gas aveva solo una visione parziale. M.P. aveva detto di non aver compreso per quale motivo il veicolo in cui era salito non l’aveva condotto all’ospedale e si era messo a seguire il contingente. Vedeva solo ciò che succedeva nell’abitacolo. Al momento dello sparo, M.P. era allungato e aveva i piedi rivolti verso la porta posteriore del veicolo. Aveva preso Raffone su di lui e non vedeva la propria mano: non poteva dire se la sua mano si era trovata all’interno o all’esterno dell’abitacolo. In ogni caso, aveva sparato verso l’alto. La sentenza del tribunale indica che il perito Marco Salvi, che aveva effettuato l’autopsia sul corpo di Carlo Giuliani, aveva dichiarato, da parte sua, che la traiettoria rimandava ad uno sparo diretto. Quanto al frammento metallico finito nel corpo della vittima, Salvi dichiarò che era molto difficile trovarlo.
II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI
1. Uso legittimo delle armi
132. L’articolo 53 del codice penale prevede che non è punibile «il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di fare uso di armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’autorità, e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona (...). La legge determina gli altri casi nei quali è autorizzato l’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica.».
2. Legittima difesa
133. L’articolo 52 del codice penale prevede che non è punibile «chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa».
3. Eccesso colposo
134. Ai sensi dell’articolo 55 del codice penale, in particolare in caso di legittima difesa o di uso legittimo delle armi, quando l’interessato ha ecceduto colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità o imposti dalla necessità, il suo comportamento è punibile come delitto colposo, se il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo.
4. Disposizioni in materia di pubblica sicurezza
135. Gli articoli 18-24 del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza regolano lo svolgimento delle riunioni pubbliche e degli assembramenti in luoghi pubblici. Quando una riunione o un assembramento in luogo pubblico possono mettere in pericolo l’ordine pubblico o la sicurezza, o quando vengono commessi dei reati, la riunione può essere sciolta. Prima di procedere allo scioglimento di tale riunione, i partecipanti sono invitati a disciogliersi dalle forze dell’ordine. Qualora l’invito rimanga senza effetto, è ordinato il discioglimento con tre distinte formali intimazioni. Qualora le tre intimazioni rimangano anch’esse senza effetto, o non possano essere fatte per rivolta od opposizione, gli ufficiali di pubblica sicurezza o dei carabinieri ordinano che la riunione o l’assembramento siano disciolti con la forza. All’esecuzione di tale ordine provvedono la forza pubblica e la forza armata sotto il comando dei rispettivi capi. Le persone che si rifiutano di obbedire all’ordine di discioglimento sono punite con l’arresto (da un mese a un anno) e con l’ammenda (a 30 a 413 euro).
5. Disciplina dell’uso delle armi
136. Una direttiva del ministero dell’interno, datata febbraio 2001 e indirizzata ai questori, contiene delle disposizioni generali sull’uso dei dispositivi lacrimogeni e degli sfollagente. L’uso di tale materiale deve essere ordinato espressamente e chiaramente dal responsabile del servizio, previa consultazione con il questore. Il personale deve esserne informato.
6. Indagine preliminare e parte lesa
137. Gli articoli pertinenti del codice di procedura penale («CPP») recitano:
Articolo 79
«La costituzione di parte civile può avvenire per l’udienza preliminare (...)»
Articolo 90
«La persona offesa dal reato, oltre ad esercitare i diritti e le facoltà ad essa espressamente riconosciuti dalla legge in ogni stato e grado del procedimento, può presentare memorie e, con esclusione del giudizio di cassazione, indicare elementi di prova.»
Articolo 101
«La persona offesa dal reato, per l’esercizio dei diritti e delle facoltà ad essa attribuiti, può nominare un difensore (...)»
Articolo 359 c. 1
«Il pubblico ministero, quando procede ad accertamenti tecnici (…) per cui sono necessarie specifiche competenze, può nominare ed avvalersi di consulenti, che non possono rifiutare la loro opera.»
Articolo 360
«Quando gli accertamenti (…) riguardano persone, cose o luoghi il cui stato è soggetto a modificazione, il pubblico ministero avvisa, senza ritardo, la persona sottoposta alle indagini, la persona offesa dal reato e i difensori del giorno, dell’ora e del luogo fissati (…) e della facoltà di nominare consulenti tecnici.»
(...)
3. I difensori nonché i consulenti tecnici eventualmente nominati hanno diritto di assistere al conferimento dell’incarico, di partecipare agli accertamenti e di formulare osservazioni e riserve.»
Articolo 392
«1. Nel corso delle indagini preliminari il pubblico ministero e la persona sottoposta alle indagini possono chiedere al giudice che si proceda con incidente probatorio (...)»
«2. Il pubblico ministero e la persona sottoposta alle indagini possono altresì chiedere una perizia che, se fosse disposta nel dibattimento, ne potrebbe determinare una sospensione superiore a sessanta giorni».
Articolo 394
«1. La persona offesa può chiedere al pubblico ministero di promuovere un incidente probatorio.
2. Se non accoglie la richiesta, il pubblico ministero pronuncia decreto motivato e lo fa notificare alla persona offesa.»
Articolo 409
«1. Fuori dei casi in cui sia stata presentata opposizione alla domanda di archiviazione, il giudice, se accoglie la richiesta di archiviazione, pronuncia decreto motivato e restituisce gli atti al pubblico ministero. (...)
2. Se non accoglie la richiesta, il giudice fissa la data dell’udienza in camera di consiglio e ne fa dare avviso al pubblico ministero, alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa dal reato. Il procedimento si svolge nelle forme previste dall’art. 127. Fino al giorno dell’udienza gli atti restano depositati in cancelleria con facoltà del difensore di estrarne copia.
3. Della fissazione dell’udienza il giudice dà inoltre comunicazione al procuratore generale presso la corte di appello.
4. A seguito dell’udienza, il giudice, se ritiene necessarie ulteriori indagini, le indica con ordinanza al pubblico ministero fissando il termine indispensabile per il compimento di esse.
5. Il giudice (se non ritiene necessarie ulteriori indagini, e) quando non accoglie la richiesta di archiviazione, dispone con ordinanza che, entro dieci giorni, il pubblico ministero formuli l’imputazione (...).
6. L’ordinanza di archiviazione è ricorribile per cassazione solo nei casi di nullità previsti dall’art. 127 comma 5.»
Articolo 410
«1. Con l’opposizione alla richiesta di archiviazione la persona offesa dal reato chiede la prosecuzione delle indagini preliminari indicando, a pena di inammissibilità, l’oggetto della investigazione suppletiva e i relativi elementi di prova.
2. Se l’opposizione è inammissibile e la notizia di reato è infondata, il giudice dispone l’archiviazione con decreto motivato e restituisce gli atti al pubblico ministero.
3. Fuori dei casi previsti dal comma 2, il giudice provvede a norma dell’art. 409 commi 2, 3, 4 e 5, ma, in caso di più persone offese, l’avviso per l’udienza è notificato al solo opponente».
6. Sepoltura e cremazione
138. L’articolo 116 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, relativo alle indagini sulla morte di una persona per la quale sorge sospetto di reato, dispone:
«Se per la morte di una persona sorge sospetto di reato, il procuratore della Repubblica accerta la causa della morte e, se lo ravvisa necessario, ordina l’autopsia secondo le modalità previste dall’articolo 360 del codice di procedura penale ovvero fa richiesta di incidente probatorio (...)
«(...) La sepoltura non può essere eseguita senza l’ordine del procuratore della Repubblica».
L’articolo 79 del decreto del Presidente della Repubblica n. 285 del 10 settembre 1990 prevede che, per la cremazione di un cadavere in caso di morte improvvisa o sospetta, occorre la presentazione del nulla osta dell'autorità giudiziaria.
III TESTI INTERNAZIONALI PERTINENTI
1. Principi fondamentali ONU sull’uso della forza e delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine
140. Adottati il 7 settembre 1990 dall’ottavo Congresso delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine e il trattamento dei rei, tali principi, nelle loro parti pertinenti, recitano:
«1. I poteri pubblici e le autorità di polizia adotteranno ed applicheranno delle normative sull’uso della forza e delle armi da fuoco contro le persone da parte delle forze dell’ordine. Nell’elaborazione di tali normative, i governi e i servizi di repressione terranno costantemente presenti le questioni etiche legate all’uso della forza e delle armi da fuoco.
2. I governi e le autorità di polizia predisporranno la più ampia gamma di mezzi possibile e doteranno le forze dell’ordine di vari tipi di armi e munizioni che permetteranno un uso differenziato della forza e delle armi da fuoco. A tal fine, sarebbe opportuno realizzare delle armi non mortali neutralizzanti da utilizzare nelle situazioni appropriate, allo scopo di limitare sempre più il ricorso ai mezzi atti a cagionare la morte o delle ferite. Dovrebbe essere anche possibile, allo stesso scopo, fornire alle forze dell’ordine degli strumenti di difesa come giubbotti antiproiettile, caschi e veicoli blindati affinché sia sempre meno necessario utilizzare armi di qualsiasi tipo.»
(…)
9. Le forze dell’ordine non utilizzeranno armi da fuoco contro le persone se non per autodifesa o per difendere altre persone da una minaccia immediata di morte o di grave ferimento, per prevenire il compimento di crimini particolarmente gravi che comportino seria minaccia alla vita, per arrestare persone che rappresentino tali pericoli e resistano alla loro autorità, o per evitarne la fuga, e comunque soltanto quando metodi meno estremi si rivelino insufficienti al raggiungimento di tali obiettivi. In ogni circostanza, l’uso intenzionale e letale di armi da fuoco potrà essere consentito soltanto quando strettamente inevitabile al fine di proteggere la vita.
10. Nelle circostanze previste dal principio n. 9, gli agenti delle forze dell’ordine dovranno identificarsi come tali ed impartire un chiaro avvertimento della loro intenzione di impiegare armi da fuoco, attendendo un tempo sufficiente perché l’avvertimento venga osservato, a meno che far ciò non li ponga inopportunamente a rischio o non dia origine a rischio di morte o di danno grave per altre persone o non sia chiaramente inappropriato o inutile per le circostanze del caso.
11. Una normativa che regola l’uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine deve comprendere delle direttive volte a:
a) Specificare le circostanze in cui le forze dell’ordine sono autorizzate a portare armi da fuoco e prescrivere i tipi di armi da fuoco e munizioni autorizzate;
b) Assicurarsi che le armi da fuoco vengano utilizzate solo in circostanze appropriate e in modo da minimizzare il rischio di danni inutili;
c) Vietare l’utilizzo delle armi da fuoco e delle munizioni che provocano ferite inutili o presentano un rischio ingiustificato;
d) Disciplinare il controllo, il deposito e la consegna di armi da fuoco e prevedere in particolare delle procedure conformemente alle quali le forze dell’ordine devono rendere conto di tutte le armi e le munizioni ad esse consegnate;
e) Prevedere che devono essere fatte delle intimazioni, all’occorrenza, in caso di utilizzo di armi da fuoco;
f) Prevedere un sistema di rapporti in caso di utilizzo di armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine nell’esercizio delle loro funzioni.
(…)
18. I poteri pubblici e le autorità di polizia devono assicurarsi che tutte le forze dell’ordine vengano selezionate mediante procedure adeguate, che presentino le qualità morali e i requisiti psicologici e fisici richiesti per il buon esercizio delle loro funzioni e che ricevano una formazione professionale costante e completa. È opportuno verificare periodicamente se essi continuano ad essere idonei all’esercizio di tali funzioni.
19. I poteri pubblici e le autorità di polizia devono assicurarsi che tutte le forze dell’ordine ricevano una formazione e siano sottoposti a test secondo norme attitudinali appropriate sull’uso della forza. Le forze dell’ordine che sono tenute a portare armi da fuoco devono essere autorizzate a farlo solo dopo essere state specificamente addestrate al loro utilizzo.
20. Per la formazione delle forze dell’ordine i poteri pubblici e le autorità di polizia presteranno particolare attenzione alle questioni di etica di polizia e di rispetto dei diritti dell’uomo, in particolare nell’ambito delle inchieste, e ai mezzi per evitare l’uso della forza o delle armi da fuoco, ivi compresa la risoluzione pacifica dei conflitti, la conoscenza del comportamento delle folle e i metodi di persuasione, di negoziazione e di mediazione, nonché i mezzi tecnici, al fine di limitare l’uso della forza o delle armi da fuoco. Le autorità di polizia dovrebbero rivedere il loro programma di formazione e i loro metodi di azione in occasione di particolari incidenti.
(…)»
B. Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti (CPT)
141. Il passaggio pertinente del rapporto relativo alla visita effettuata in Italia nel 2004, reso pubblico il 17 aprile 2006, riporta:
«14: Il CPT ha avviato dal 2001 un dialogo con le autorità italiane con riguardo ai fatti che sono avvenuti a Napoli (il 17 marzo 2001) e a Genova (dal 20 al 22 luglio 2001). Le autorità italiane hanno continuato ad informare il Comitato sul seguito riservato alle accuse di maltrattamenti formulate nei confronti delle forze dell’ordine. In questo ambito, le autorità hanno fornito, in occasione della visita, una lista dei procedimenti giudiziari e disciplinari in corso.
Il CPT desidera essere regolarmente informato sull’evoluzione dei procedimenti giudiziari e disciplinari di cui sopra. Inoltre, desidera ricevere informazioni dettagliate sui provvedimenti adottati dalle autorità italiane allo scopo di evitare che si ripetano episodi simili in futuro (ad esempio, a livello della gestione delle operazioni di mantenimento dell’ordine su vasta scala, a livello della formazione del personale, di dirigenza e di esecuzione, e a livello dei sistemi di controllo e di ispezione.»
«15: Nel suo rapporto sulla visita del 2000, il CPT aveva raccomandato che fossero adottati provvedimenti in materia di formazione dei membri delle forze dell’ordine, più in particolare per quanto riguarda l’integrazione dei principi dei diritti dell’uomo alla formazione pratica – iniziale e continua – alla gestione delle situazioni ad alto rischio, come il fermo e l’interrogatorio di sospetti. Nelle loro risposte, le autorità italiane hanno dato solo risposte di natura generale sulla componente «diritti dell’uomo» della formazione proposta ai membri delle forze dell’ordine. Il CPT spera di ricevere informazioni più dettagliate – e aggiornate – su questa questione ...).»
IN DIRITTO
I. SULLA ALLEGATA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 2 DELLA CONVENZIONE
142. I ricorrenti lamentano che Carlo Giuliani è stato ucciso dalle forze dell'ordine e che le autorità non hanno protetto la sua vita, né hanno condotto una inchiesta effettiva sulla sua morte. Essi invocano l'articolo 2 della Convenzione, così formulato:
« 1. Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il reato sia punito dalla legge con tale pena.
2. La morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario:
a) per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale;
b) per eseguire un arresto regolare o per impedire l'evasione di una persona regolarmente detenuta;
c) per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un'insurrezione. »
A. Argomenti delle parti
1. I ricorrenti
a) Sull'aspetto materiale dell'articolo 2 della Convenzione
143. Nel far riferimento alla giurisprudenza della Corte (in particolare alle cause Şimşek e altri c. Turchia, n° 35072/97 e 37194/97, 26 luglio 2005, Sergueï Chevtchenko c. Ucraina, no 32478/02, 4 aprile 2006, Erdoğan e altri c. Turchia, no 19807/92, 25 aprile 2006), i ricorrenti ricordano che la Corte ha il potere di prendere in considerazione tutti gli elementi del fascicolo per valutare se vi sia stata violazione dell'articolo 2 della Convenzione. Di conseguenza, essa può giungere a conclusioni diverse da quelle che figurano nelle decisioni nazionali. Gli interessati domandano quindi alla Corte di non limitare il suo esame alle conclusioni dell'indagine penale interna.
144. I ricorrenti ritengono che gli atti di M.P. mettono in causa la responsabilità dello Stato e affermano l'esistenza di un nesso di causalità tra il colpo di arma da fuoco sparato da M.P. e la morte di Carlo Giuliani. Secondo loro, occorre limitarsi a quello che è stato accertato dall'autopsia, ossia che M.P. ha sparato dall'alto verso il basso ed ha colpito la vittima.
145. Quanto alla "teoria del sasso", essi osservano di non essere mai stati d’accordo con questa teoria e su questo punto rinviano al loro atto di opposizione avverso la richiesta di archiviazione ed al verbale dell'udienza innanzi al giudice delle indagini preliminari. I ricorrenti fanno riferimento all'opinione del loro perito, dott. Gentile, che nella sua relazione ha sostenuto che il proiettile non si era frammentato colpendo il corpo della vittima; tuttavia, dal momento che non si disponeva del proiettile e che non se ne conosceva né la forma, né le dimensioni, né la massa del « bersaglio intermedio », era impossibile formulare una ipotesi scientifica sul tipo di « traumatizzazione » subita dal proiettile nella sua traiettoria e di sostenere che quest'ultima fosse stata deviata. Inoltre, gli altri periti da loro incaricati di ricostruire lo svolgimento dei fatti hanno escluso che "il sasso" si sia frammentato dopo la collisione con il proiettile sparato da M.P. e hanno ritenuto che si fosse frammentato contro la jeep.
146. I ricorrenti sostengono inoltre che gli occupanti della jeep non erano in pericolo di vita, in quanto si trattava di una jeep Defender, veicolo che, pur non essendo blindato, è sufficientemente robusto. Inoltre, il numero di manifestanti visibili dalle immagini non supera la dozzina. Questi ultimi non avevano armi letali. Inoltre, le immagini mostrano bene che i manifestanti non avevano circondato la Jeep: non vi era alcun manifestante né a sinistra né davanti al veicolo. A bordo della jeep, vi era uno scudo, come provano le fotografie. M.P. portava un giubbetto antiproiettile e aveva due caschi a sua disposizione. Infine, altre forze dell'ordine erano nelle vicinanze. Quanto alle ferite di M.P. e D.R., i ricorrenti ritengono che nessun elemento prova che siano state inflitte al momento dei fatti.
147. Secondo i ricorrenti, nella fattispecie si è avuto un uso sproporzionato della forza. Gli elementi seguenti secondo loro corroborano questa tesi: M.P. ha sparato dall'alto verso il basso, secondo l'autopsia e secondo quanto si può dedurre dalle dichiarazioni dell'interessato. Quest'ultimo non ha mai affermato di aver sparato verso l'alto e ha dichiarato di non aver visto Carlo Giuliani al momento del tiro. Secondo i ricorrenti, questo significa che M.P. ha ammesso di aver sparato ad altezza d'uomo e di non aver sparato allo scopo di contrastare un atto di violenza illegittimo da parte di Carlo Giuliani. Inoltre, M.P. non ha dato chiari avvertimenti sulla sua intenzione di utilizzare l'arma da fuoco. Le immagini versate al fascicolo mostrano bene che la pistola è tenuta orizzontalmente e verso il basso. I ricorrenti osservano poi che alcune delle fotografie scattate al momento dei fatti mostrano uno scudo di carabiniere che funge da protezione al posto di uno dei vetri rotti della jeep. Infine, i proiettili letali di cui disponevano i carabinieri rafforzano la tesi dell'uso eccessivo della forza. Si trova quindi ad essere la responsabilità dello Stato in seguito agli atti di M.P.
148. Inoltre i ricorrenti ritengono che la responsabilità dello Stato sia coinvolta anche per le carenze nella pianificazione, l'organizzazione e la gestione dell'operazione di mantenimento dell'ordine e delle lacune del quadro normativo.
149. Secondo i ricorrenti, un primo problema è posto dal fatto che le forze dell'ordine non hanno beneficiato di un adeguato quadro normativo, attuato dal diritto interno e dalla prassi. Il diritto interno ha reso inevitabile l'uso dell'arma da fuoco, come dimostra il fatto che l'inchiesta è stata archiviata perché la condotta di M.P. era prevista dagli articoli 52 e 53 CP. I ricorrenti allegano che il diritto interno in materia di uso delle armi da parte delle forze dell'ordine è inadeguato, superato e non conforme alle norme internazionali. Essi argomentano che alla luce della giurisprudenza della Corte (Erdoğan e altri, succitata; Tzekov c. Bulgaria, no 45500/99, 23 febbraio 2006 ; Natchova e altri c. Bulgaria [GC], no 43577/98 e 43579/98, CEDH 2005-VII ; Makaratzis c. Grecia [GC], no 50385/99, CEDH 2004‑XI), un contesto normativo (legislativo e amministrativo) carente abbassa il livello di protezione legale del diritto alla vita che è richiesto in uno Stato democratico; nella fattispecie, non vi erano sufficienti misure di prevenzione e non vi sono state linee di condotta chiare e criteri che coordinassero l’uso della forza e delle armi da fuoco. Trattandosi di disposizioni di diritto interno, i ricorrenti osservano che l’articolo 53 CP e l’articolo 24 del codice di pubblica sicurezza non sono compatibili con l’articolo 2 della Convenzione e le norme internazionali, questo in ragione dell'epoca in cui sono stati adottati (epoca fascista) e del loro contenuto, che riflette questo contesto. A tale proposito, i ricorrenti ritengono che la nozione di « necessità » che legittima l'uso delle armi e la nozione di « uso della forza » non sono equivalenti ai principi espressi dalla giurisprudenza di Strasburgo in materia di ricorso alle armi, che si basa sulla « assoluta necessità ». Inoltre, l'articolo 52 CP prevede che la legittima difesa si applichi quando « la reazione di difesa [è] proporzionata all'offesa »; ora questo non equivale affatto alle formule « assolutamente inevitabile per proteggere vite umane » e « strettamente proporzionata [alle circostanze] » che figurano nella giurisprudenza della Corte.
150. Inoltre, in materia di uso delle armi da fuoco non vi sono state disposizioni regolamentari chiare e conformi alle norme internazionali. In effetti, nessuno degli ordini di servizio del questore di Genova sottoposti dal Governo disciplina l'uso delle armi da fuoco. I ricorrenti si riferiscono ai Principi di base sul ricorso alla forza e sull'uso delle armi da fuoco da parte dei responsabili dell'applicazione delle leggi, adottati dall'ottavo Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e il trattamento dei delinquenti, che si è svolto a La Avana (Cuba) dal 27 agosto al 7 settembre 1990. In particolare, essi rinviano all'obbligo per i poteri pubblici e le autorità di polizia di adottare e applicare delle disposizioni sul ricorso alla forza e sull’uso delle armi da fuoco da parte dei responsabili dell'applicazione delle leggi (principio n° 1). Essi invocano anche il principio n° 11, secondo il quale la regolamentazione che disciplina l'uso delle armi da fuoco deve in particolare: specificare le circostanze nelle quali i responsabili dell'applicazione delle leggi sono autorizzati a portare armi da fuoco; prescrivere i tipi di armi da fuoco e di munizioni autorizzate; assicurarsi che le armi da fuoco siano utilizzate soltanto in circostanze appropriate e in maniera tale da rendere minimo il rischio di danni inutili; vietare l'uso delle armi da fuoco e delle munizioni che provocano ferite inutili o presentano un rischio ingiustificato.
151. Un altro problema è costituito dalla selezione e dalla formazione del personale. A tale proposito, i ricorrenti sostengono che la compagnia di carabinieri CCIR era comandata da persone esperte in ambito di missioni di polizia militare internazionale all'estero, ma prive di esperienza in materia di mantenimento e ripristino dell'ordine pubblico. Gli ufficiali Leso, Truglio e Cappello avevano avuto precedenti esperienze internazionali (per esempio in Somalia). Quanto all'esperienza del personale in generale, i ricorrenti osservano che al momento dei fatti non era in vigore alcun regolamento contenente i criteri di reclutamento e di selezione per le operazioni di mantenimento e ripristino dell'ordine pubblico. Questo è contrario ai principi n. 18 e 19 enunciati dall'ONU. Il Governo non ha peraltro precisato le condizioni minime per poter impiegare un carabiniere in una grande operazione di mantenimento e ripristino dell'ordine pubblico. Quanto all'esperienza delle truppe impiegate a Genova, i ricorrenti argomentano che si trattava per i tre quarti di giovani che svolgevano il loro servizio militare all'interno dell'arma dei carabinieri come carabinieri di leva o ausiliari, fatto questo che fornisce un'idea sulla loro inesperienza. In particolare, per quanto riguarda i tre carabinieri a bordo della jeep: D.R. aveva diciannove anni e sei mesi al momento dei fatti ed effettuava il suo servizio militare da quattro mesi; M.P. non aveva ancora venti anni ed era in servizio da meno di dieci mesi; F.C. non aveva ancora ventiquattro anni era in servizio da ventidue mesi. Per quanto riguarda il corso di formazione di una settimana svoltosi a Velletri citato dal Governo, i ricorrenti osservano che non si trattava di una formazione che aveva ad oggetto la conoscenza delle norme internazionali al fine di ridurre al massimo i rischi per la vita dei manifestanti; si trattava piuttosto di un allenamento di guerra, in quanto gli istruttori - quali il capitano Cappello - avevano acquisito un'esperienza professionale militare all'estero. Ora ciò sarebbe incompatibile con il principio n° 20 dell'ONU. I ricorrenti ricordano infine le osservazioni formulate dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT) nel suo rapporto relativo alla visita in Italia reso pubblico il 17 aprile 2006 (vedere sopra i testi internazionali pertinenti).
152. Anche l'equipaggiamento dei carabinieri porrebbe dei problemi in quanto non sarebbe conforme al principio n° 2 dell’ONU dal momento che gli interessati erano dotati unicamente di proiettili letali e non di proiettili di caucciù. Inoltre, un certo numero di carabinieri avrebbe utilizzato armi non regolamentari, come i manganelli metallici.
153. I ricorrenti rivolgono inoltre l’attenzione all'ordine di servizio del 19 luglio 2001 e osservano che quest’ultimo aveva profondamente modificato le istruzioni precedenti, in quanto aveva previsto un dispositivo di difesa dinamico che implicava la mobilità dei carabinieri mentre prima si trattava di un'organizzazione statica. Inoltre, l'ordine di servizio del 19 luglio aveva autorizzato, oltre a manifestazioni statiche, il corteo delle « Tute bianche ». Oltretutto, a quest'ordine di servizio non sarebbe stata data un'adeguata diffusione. Lo testimonierebbero le dichiarazioni rese nel "processo ai 25" dal funzionario di polizia Lauro e dall'ufficiale dei carabinieri Zappia, il primo ha dichiarato di essere stato informato via radio delle modifiche la mattina del 20 luglio, il secondo ha dichiarato che l'ordine di servizio era decaduto alle 3.00 del mattino del 20 luglio. Lauro aveva inoltre precisato che il 19 luglio gli era stato detto che per il giorno successivo non era stato autorizzato alcun corteo e che doveva prendere servizio alle 6.00 in un determinato luogo, mentre la mattina del 20 luglio aveva ricevuto per radio altre istruzioni secondo le quali l'inizio del suo servizio era stabilito alle 10.00 in un altro luogo. Infine, aveva dichiarato di non aver saputo che doveva esserci un corteo (dichiarazioni di Lauro all'udienza del 26 aprile 2005, durante il « processo ai 25 »; dichiarazioni di Zappia all'udienza del 3 maggio 2005, durante lo stesso processo). Infine i ricorrenti sostengono che le forze dell'ordine selezionate e dispiegate a Genova non conoscevano la città e le sue strade. Su questo punto essi rinviano alle varie dichiarazioni rilasciate nel « processo ai 25 » (Mondelli, udienza del 16 novembre 2004; Bruno, stessa udienza; Fiorillo, udienza dell'8 febbraio 2005; Lauro, udienza del 26 aprile 2005; Mirante, 15 marzo 2005).
154. I ricorrenti sostengono inoltre che le autorità italiane non hanno adottato le misure necessarie per proteggere la vita delle persone nella gestione delle operazioni di mantenimento e di ripristino dell'ordine pubblico e che non sono state capaci di valutare adeguatamente il rischio. A tale proposito osservano che M.P. è stato considerato dal suo superiore, il capitano Cappello, psichicamente e fisicamente non idoneo a proseguire il suo servizio. Di conseguenza gli sono stati ritirati il lancia lacrimogeni ed i lacrimogeni. I ricorrenti si chiedono quindi perché non gli è stata ritirata anche la pistola munita di proiettili letali. Questo rappresenta per i ricorrenti un elemento che permette, da solo, di provare la violazione dell'articolo 2 della Convenzione.
155. I ricorrenti osservano inoltre che la jeep nella quale si trovava M.P. era una jeep non blindata e che nonostante ciò è stata lasciata senza protezione. Le ragioni che possono spiegare la presenza delle jeep in coda al plotone, quando quest'ultimo è partito alla carica di un gruppo di manifestanti, non appaiono nel fascicolo istruttorio. I responsabili Lauro e Cappello hanno dichiarato al "processo ai 25" di non essersi accorti che le due jeep erano in coda. Il secondo avrebbe dichiarato: "la jeep che segue deve essere blindata, altrimenti è un suicidio" (udienza del 26 aprile e del 20 settembre 2005). Comunque sia, i ricorrenti ritengono che il fatto che non sia stata assicurata nessuna vigilanza sulle due jeep che seguivano la compagnia, tanto che queste ultime hanno potuto seguire il plotone una volta partito all'attacco dei manifestanti, rivela la disorganizzazione e la mancanza di una catena di comando chiara.
156. I ricorrenti osservano che il sistema di comunicazione ha mostrato delle disfunzioni a causa della sua struttura, in quanto molti poliziotti e carabinieri dovevano comunicare con la centrale operativa e i poliziotti e i carabinieri non potevano comunicare via radio direttamente tra loro.
157. Infine, i ricorrenti dichiarano di non capire perché, nonostante la loro vicinanza, le forze dell'ordine presenti sui luoghi non siano intervenute. Secondo loro, i poliziotti che si trovavano non lontano hanno per forza dovuto vedere la scena.
158. Per di più, i ricorrenti sostengono che la mancanza di un soccorso immediato dopo che Carlo Giuliani si era accasciato e i passaggi della jeep sul suo corpo hanno contribuito al decesso del loro congiunto.
b) Sull'aspetto procedurale dell'articolo 2 della Convenzione
159. I ricorrenti i ricorrenti sostengono che l'inchiesta non è stata effettiva nel senso dell'articolo 2 della Convenzione. Di conseguenza, invitano la Corte a considerare con prudenza le conclusioni dell'autorità giudiziaria nazionale (Erdoğan e altri, succitata). Secondo loro, l'indagine condotta dalle autorità nazionali è stata carente sia sul piano della sua ampiezza che a causa delle numerose disfunzioni e della mancanza di imparzialità.
160. Per quanto riguarda l'ampiezza dell'indagine, i ricorrenti osservano che non è mai stata posta la questione di valutare la responsabilità globale delle autorità in merito alle carenze nella direzione delle operazioni ed alla loro incapacità ad assicurare un uso proporzionato della forza per disperdere i manifestanti (Şimşek e altri, succitata). Non è stata svolta un'indagine sulla pianificazione e la coordinazione delle operazioni (Erdoğan e altri, succitata). E neanche è stata svolta un'indagine sulle istruzioni date ai membri delle forze dell'ordine, né sulle ragioni per le quali le forze dell'ordine avessero soltanto proiettili letali (ibidem). La procura sembra aver accettato la versione dei fatti consegnata dai membri delle forze dell'ordine senza porsi altre questioni sulle circostanze di fatto. Non si è mai domandata se i superiori di M.P. potessero essere considerati responsabili per il fatto di aver lasciato un'arma letale tra le mani di un carabiniere mentre lo stato psicologico e fisico di quest'ultimo lo rendeva non idoneo a proseguire il suo servizio.
161. I ricorrenti ricordano che il Governo, a sua difesa, ha sostenuto l'impossibilità di ampliare l'inchiesta in quanto la procura poteva agire soltanto nei confronti della persona sospettata di aver commesso il reato. Era esclusa qualsiasi indagine sulle decisioni politiche e organizzative, dal momento che la procura non poteva esaminare la fondatezza delle scelte operative effettuate durante il G8.
Secondo i ricorrenti, se questo è vero, è il diritto nazionale ad essere incompatibile con l'articolo 2 della Convenzione dal momento che non permette che l'indagine sia estesa alla ricerca delle responsabilità sulla pianificazione, organizzazione e gestione delle operazioni, e sulle circostanze del decesso della vittima.
Tuttavia, visto che la procura, nella sua richiesta di archiviazione, ha constatato alcune disfunzioni (senza precisare la loro natura), e visto che questa constatazione non ha dato luogo alla ricerca delle cause e delle responsabilità all'origine di queste disfunzioni, la violazione dell'articolo 2 è anche legata alla scelta della procura di avere un'indagine incompleta.
162. I ricorrenti sottolineano che essi si sono opposti all'archiviazione del caso ed hanno domandato, invano, l'approfondimento e l'allargamento dell'indagine. Essi rimproverano agli inquirenti di non aver ascoltato J.M., il testimone che ha visto Carlo Giuliani vivo dopo il tiro; di non aver tentato di identificare colui che ha lanciato il « sasso »; di non avere indagato sulla regolarità dell'arma di M.P.; di non aver ascoltato il fotografo autore dello scatto che mostra Carlo Giuliani con l'estintore in mano, di modo che la distanza tra quest'ultimo e la jeep è stata presunta e non confermata; di non avere preso in esame l'ipotesi secondo la quale il proiettile mortale era stato modificato prima del tiro (effetto dum-dum), secondo la prassi vigente in seno alle forze dell'ordine; di non aver ascoltato gli alti responsabili della polizia.
163. Quanto alla possibilità di partecipare all'indagine della procura, i ricorrenti osservano innanzitutto che non sono mai stati « parti » alla procedura, perché nel diritto italiano la costituzione di parte civile è possibile soltanto in caso di rinvio a giudizio. In quanto parti lese in mancanza di rinvio a giudizio, i ricorrenti hanno fruito di un limitato diritto di partecipazione all'indagine, diritto che è ancora più ristretto quando la procura procede secondo l'articolo 360 del codice di procedura penale (accertamenti tecnici non ripetibili), dal momento che la legge non prevede in questi casi la possibilità per la parte lesa di chiedere alla procura di inviare al giudice una domanda di incidente probatorio (e che soltanto in caso di incidente probatorio la parte lesa può pregare il giudice di porre domande ai periti della procura).
164. I ricorrenti si sono trovati nella situazione degli « accertamenti tecnici non ripetibili » al momento dell'autopsia e della perizia collegiale.
Per quanto riguarda specificatamente l'autopsia, i ricorrenti fanno inoltre osservare che in fine mattinata la procura li ha informati che l'autopsia sarebbe iniziata alle ore 15.00, e che il termine era talmente breve che essi stessi ed il loro difensore non hanno avuto la possibilità di comprendere e di studiare la situazione.
Per quanto riguarda la prima e la seconda perizia balistica, i ricorrenti ammettono di aver avuto la possibilità teorica di chiedere alla procura di rivolgere al giudice una domanda di incidente probatorio; tuttavia, poiché la procura stessa aveva richiesto un incidente probatorio e aveva subito un rifiuto, i ricorrenti non avevano ritenuto utile depositare una simile istanza.
165. Infine, i ricorrenti osservano che essi non sono potuti intervenire nei primi atti delle indagini affidate ai carabinieri (sequestro dell'arma di M.P.; constatazione che l'arma fosse dotata di un caricatore; prime indagini tecniche sul cadavere nella camera mortuaria dell'ospedale; indagini tecniche riguardanti la jeep a bordo della quale si era trovato M.P.; rilievi fotografici sul materiale di M.P. al momento della morte di Carlo Giuliani; verifiche riguardanti l'otturatore non originale dell'arma di M.P.; sequestro della vettura), perché il loro intervento non era previsto dalla legge.
166. I ricorrenti elencano quindi molte lacune nell'indagine:
- i proiettili non sono mai stati ritrovati, tanto che non è stato possibile eseguire alcuna vera perizia balistica. Sono stati ritrovati soltanto due bossoli, e non è certo che corrispondano ai proiettili sparati da M.P. (vedere la prima e la seconda perizia balistica);
- uno scanner aveva permesso di vedere un frammento metallico rimasto nella testa di Carlo Giuliani. Ora, quest'ultimo non è mai stato ritrovato e versato al fascicolo;
- l'intervento dell'autorità giudiziaria sul posto non è stata rapida e non ha permesso di preservare lo stato dei luoghi;
- l'arma, l'equipaggiamento e la jeep sono rimaste in possesso dei carabinieri;
- M.P., D.R. e F.C. hanno avuto un colloquio con i loro superiori prima di essere ascoltati dalla procura e hanno potuto comunicare tra loro. Peraltro, D.R. è stato ascoltato soltanto il giorno dopo i fatti;
- alcuni membri delle forze dell'ordine presenti sui luoghi sono stati ascoltati con molto ritardo (il capitano Cappello è stato ascoltato l'11 settembre 2001; il sottotenente Zappia, il 21 dicembre 2001).
- il giudice delle indagini preliminari ha anche basato la sua decisione di archiviazione sul materiale proveniente da un sito internet anonimo;
- non vi è stata procedura in contraddittorio, l'archiviazione ha impedito lo svolgimento di un dibattimento in contraddittorio.
167. I ricorrenti rimettono in discussione l'imparzialità dell'indagine a causa del ruolo svolto dai carabinieri del comando provinciale di Genova, visto che, potenzialmente, questi carabinieri avrebbero potuto essere ascoltati se l'inchiesta fosse stata conforme all'articolo 2 della Convenzione. Essi osservano che:
- subito dopo la morte di Carlo Giuliani, i tre carabinieri si sono allontanati (con la jeep e le armi) fino al momento in cui, alcune ore più tardi, la procura ha cominciato le audizioni. Così, M.P., F.C. e D.R. sarebbero stati ascoltati dai loro superiori prima di essere ascoltati dalla procura;
- i carabinieri hanno avuto in mano per primi la pistola di M.P. ed hanno eseguito il sequestro; essi hanno dichiarato che il caricatore dell'arma conteneva meno di 15 pallottole ;
- i primi rilievi tecnici sul cadavere sarebbero stati fatti dai carabinieri;
- i carabinieri hanno eseguito i rilievi tecnici sulla jeep e hanno avuto in loro possesso tale veicolo ed il materiale che si trovava a bordo, ivi compreso un bossolo;
- essi hanno effettuato i rilievi fotografici sull’equipaggiamento di M.P.;
- sono stati incaricati di ritrovare e trasmettere all'autorità giudiziaria tutti i filmati e le fotografie (aeree e al suolo) riprese dai carabinieri o da altri soggetti, riguardanti gli eventi accaduti il 20 luglio tra le ore 12.00 e le ore 18.00 nei pressi di piazza Alimonda;
- sono stati pregati di verificare il materiale audiovisivo;
- hanno messo a verbale le dichiarazioni rese alla procura.
168. I ricorrenti rimettono poi in discussione l’imparzialità dell’indagine in quanto quest’ultima avrebbe dovuto interessare la squadra mobile di Genova se fosse stata conforme all’articolo 2. A tale proposito essi osservano che il questore di Genova era il più alto responsabile dell’ordine pubblico durante il G8; che la centrale operativa, durante il G8, si trovava nella sede della questura di Genova; che gli ordini di caricare i manifestanti sono stati dati dai funzionari della polizia.
169. Infine i ricorrenti rimettono in discussione l’imparzialità del perito Romanini, scelto dalla procura per coordinare la terza perizia balistica. Essi osservano che questo perito, nel settembre 2001, aveva fatto pubblicare un articolo su una rivista specializzata (TAC Armi), nel quale riteneva che M.P. avesse agito in stato di legittima difesa. La questione della sua incompatibilità era stata sollevata dal quotidiano « Il Manifesto » il 19 marzo 2003, ossia prima della decisione di archiviazione del 5 maggio 2003. I ricorrenti non hanno avuto la possibilità di domandare l’esclusione del perito della procura in quanto la causa è rimasta allo stadio delle indagini preliminari.
I ricorrenti sottolineano l’importanza che la perizia del dott. Romanini ha avuto per l’autorità giudiziaria, che ha accolto la sua teoria del « proiettile deviato da un sasso ».
170. Alla luce di questi elementi, i ricorrenti domandano alla Corte di concludere per la violazione dell'articolo 2 della Convenzione nel suo aspetto procedurale.
2. Il Governo
a) Sull'aspetto materiale dell'articolo 2 della Convenzione
171. Basandosi sulla tesi secondo la quale l'indagine condotta a livello nazionale è stata effettiva, il Governo osserva innanzitutto che la Corte non è competente per rimettere in discussione i risultati dell'indagine e le conclusioni dei giudici nazionali. Di conseguenza, la risposta – negativa - alla domanda per sapere se le autorità nazionali abbiano mancato al loro dovere di proteggere la vita di Carlo Giuliani è contenuta nella richiesta di archiviazione, come pure lo svolgimento dei fatti che deve essere preso in considerazione. Il Governo invoca a sostegno di queste allegazioni l'opinione dissenziente dei giudici Thomassen e Zagrebelsky allegata alla sentenza Ramsahai e altri c. Paesi Bassi (no 52391/99, 10 novembre 2005), e domanda alla Corte di seguire questo approccio.
172. Secondo il Governo, nella fattispecie, la morte non è stata inflitta intenzionalmente. Inoltre, non ci sarebbe stato « un uso eccessivo della forza » né da parte di M.P., né nell'organizzazione e nella gestione delle operazioni di mantenimento dell'ordine pubblico. Nella sua nota integrata alle osservazioni del Governo, il ministero dell’Interno fa osservare che al termine dell'indagine giudiziaria, è stata ritenuta a favore di M.P. la tesi dell'uso legittimo delle armi e che l'archiviazione dell'indagine si basa su questi elementi.
173. Il Governo sostiene la mancanza di causalità tra il colpo di arma da fuoco sparato da M.P. e la morte di Carlo Giuliani; è soltanto per un caso del tutto eccezionale e imprevedibile che il proiettile ha colpito la vittima. Secondo il Governo, questa tesi risulta dalla decisione di archiviazione. A tale proposito, esso indica che l'archiviazione della causa non è stata motivata dall'esclusione della responsabilità oggettiva di M.P. (non si è mai dubitato, fin dai primi momenti dell'indagine, del fatto che Carlo Giuliani fosse deceduto a causa di un proiettile sparato da M.P.), ma per motivi di carattere giuridico (la legittima difesa), combinati con alcuni elementi di fatto relativi alla direzione del tiro, alla visibilità ed alla anormale traiettoria del proiettile. Se è vero che il giudice delle indagini preliminari ha correttamente applicato le norme che escludono la responsabilità in caso di uso legittimo delle armi e in caso di legittima difesa, non ha tuttavia dimenticato la circostanza eccezionale ed imprevedibile della deviazione del tiro a seguito della collisione con un sasso, circostanza che è stata valutata sul terreno della proporzionalità. Il Governo ne deduce che la decisione di archiviazione ha escluso la responsabilità di M.P. in quanto il nesso di causalità tra il colpo di arma da fuoco ed il decesso di Carlo Giuliani era stato interrotto dalla collisione tra il proiettile ed il sasso e la deviazione della traiettoria del tiro. Questo « costituisce peraltro un aspetto dei motivi del suo proscioglimento, ma in definitiva questo dettaglio procedurale poco importa ».
174. Il Governo ricorda le conclusioni del giudice delle indagini preliminari: M.P. ha agito di sua iniziativa, in preda al panico, in una situazione in cui aveva valide ragioni per temere che la sua vita o la sua integrità fisica fossero esposte ad un grave ed imminente pericolo, come pure quelle dei suoi colleghi. Inoltre, M.P. non ha visto né Carlo Giuliani né chiunque altro. Egli ha tirato verso l'alto, in una direzione incompatibile con il rischio di colpire qualcuno. Sarebbe quindi non appropriato ritenere M.P. responsabile della morte di Carlo Giuliani, perché il nesso di causalità tra la sua azione ed i suoi effetti è stato interrotto dall'intervento di un fattore esterno imprevedibile ed incontrollabile. Il decesso non è stata la conseguenza voluta e diretta di un ricorso alla forza, e questa forza non era potenzialmente omicida (Scavuzzo-Hager e altri c. Svizzera, no 41773/98, §§ 58 e 60, 7 febbraio 2006 ; Kathleen Stewart c. Regno Unito, decisione della Commissione del 10 luglio 1984, Décisions et rapports (DR) 39, p.162). Per quanto riguarda la traiettoria del proiettile, il Governo sottolinea « il carattere improbabile e imprevedibile della collisione tra il proiettile e un corpo solido che l'ha deviato ». A questa teoria della « deviazione del proiettile » avrebbero aderito i ricorrenti, come indicato dalla procura nella sua richiesta di archiviazione, dal momento che i periti delle due parti concordavano sul fatto che il proiettile fosse già frammentato prima di raggiungere il corpo della vittima; questo implicherebbe che vi era anche accordo sulle cause di questa frammentazione. Le altre ipotesi che possono spiegare la frammentazione del proiettile e avanzate dai ricorrenti - quali una manipolazione del proiettile per accrescere la sua capacità di frammentazione o un difetto di fabbricazione - erano considerate dai ricorrenti stessi come « molto più improbabili ». Data la loro più ridotta probabilità, queste ipotesi non potevano fornire una valida spiegazione. Per quanto riguarda, infine, l'impossibilità di identificare l'oggetto che può aver incrociato, danneggiato e deviato il proiettile, il Governo – così come la procura - ritiene che si tratti di un dettaglio che non sembra poter pesare in maniera decisiva sulle conclusioni dell'indagine.
175. A titolo sussidiario e « per avere la coscienza a posto », nell'ipotesi in cui venisse ritenuto dalla Corte un nesso di causalità giuridicamente valutabile tra il colpo di arma da fuoco e la morte di Carlo Giuliani e in cui fosse quindi coinvolta la responsabilità dello Stato, il Governo sostiene che il ricorso alla forza « omicida » è stato « assolutamente necessario » e « proporzionato » (Andronicou e Constantinou c. Cipro, 9 ottobre 1997, Recueil des arrêts et décisions 1997‑VI ; Brady c. Regno Unito (dec.), no 55151/00, 3 aprile 2001 ; Ahmet Özkanet e altri c. Turchia, no 21689/93, 6 aprile 2004). A sostegno di questa tesi, il Governo esegue un’analisi della decisione di archiviazione e prende in esame i seguenti elementi che da questa emergono: l'ampiezza ed il carattere generalizzato della violenza che fin dall'inizio prevalevano nell'ambito delle manifestazioni; la forza dell'assalto dei manifestanti contro il contingente dei carabinieri poco prima degli atti controversi, e il parossismo di violenza che gli eventi avevano raggiunto in quel momento; la condizione personale, fisica e psicologica dei carabinieri coinvolti, soprattutto di M.P.; l'estrema brevità della scena, dall’assalto al veicolo fino al colpo mortale (su questo punto, il Governo rinvia alle due videocassette che ha sottoposto); il fatto che M.P. abbia sparato soltanto due colpi di arma da fuoco e li abbia diretti verso l'alto; la probabilità che M.P. non potesse vedere la vittima al momento del tiro, o che potesse tutt'al più scorgerla indistintamente al limite del suo campo visivo; le ferite subite da M.P. e D.R. durante il servizio, il 20 luglio.
176. Per quanto riguarda soprattutto l’altezza dei tiri di M.P., il Governo osserva che non è provato che la fotografia dalla quale si vede la pistola che supera il lunotto posteriore della jeep – clichè versato al fascicolo - indichi la posizione dell'arma al momento dei due colpi di arma da fuoco. In effetti, non bisogna dimenticare che M.P. ha estratto la sua arma almeno qualche secondo prima di sparare, e che una piccola frazione di secondo è sufficiente per spostare la mano di qualche centimetro o per cambiare di qualche grado la sua angolazione. La fotografia in questione non apporta quindi la prova della responsabilità di M.P. per quanto riguarda la morte di Carlo Giuliani e non contraddice la tesi dell'incidente imprevedibile.
177. Il Governo sottolinea poi « l'impossibilità oggettiva, ritenuta dalla procura, di sapere quali fossero l'atteggiamento psicologico e le intenzioni precise di M.P., dato lo stato confusionale e di panico nel quale si trovava al momento dei fatti e la sua incapacità a darsi delle risposte ». Tuttavia, « è sufficiente guardare i filmati e tener conto delle lesioni già subite dai carabinieri per rendersi conto che questi ultimi erano effettivamente esposti ad un serio e immediato pericolo di perdere la vita o di subire gravi ferite. Quanto meno essi potevano legittimamente pensare di correre questo rischio ». L'equipaggiamento di M.P. era costituito dalla sua tenuta anti sommossa, da due caschi dotati di una visiera, da uno zaino, da sei lacrimogeni, da un filtro Dirin 500Sekur per maschera a gas, da una pistola Beretta e dal suo caricatore. Il ministero dell’Interno afferma che non è possibile sapere se al momento dei fatti vi fosse uno scudo a bordo della jeep.
178. Il Governo osserva che M.P. non ha mai ricevuto l'ordine di sparare e che agito di sua iniziativa, in preda al panico, in una situazione in cui aveva valide ragioni per temere che la sua vita o la sua integrità fisica fossero seriamente minacciate, così come quelle dei suoi colleghi. L'uso delle armi da fuoco non è mai stato preconizzato nella pianificazione delle operazioni. L'episodio della morte di Carlo Giuliani deve essere ricollocato in un contesto generale di violenza e, di conseguenza, è da escludere qualsiasi eccesso nell'uso dell'arma e qualsiasi sproporzione. Secondo il Governo, M.P. non aveva altre possibilità oltre a quella di sparare; la posizione del veicolo impediva la fuga. Inoltre, i carabinieri che si trovavano nella jeep non potevano chiamare i soccorsi, visto il loro stato di panico, le intenzioni aggressive dei manifestanti e la rapidità dell'azione. I soccorsi non avrebbero peraltro avuto il tempo di arrivare, tenuto conto della distanza e del fatto che le forze dell'ordine dovevano riorganizzarsi ed erano anche impegnate in uno scontro con i manifestanti.
179. La richiesta di archiviazione formulata dalla procura si basava sulla presa in considerazione di tutti questi elementi, oltre che sul principio del favor rei: quando vi sono dubbi e appare impossibile sostenere innanzi al tribunale, con la possibilità di un esito positivo, l'accusa sulla base degli elementi raccolti, e quando il dibattimento non può integrare in modo significativo il materiale probatorio, allora si impone l'archiviazione della causa.
180. Il Governo conclude che a seguito degli atti di M.P. e F.C non è in alcun modo coinvolta la responsabilità dello Stato.
181. Sulla questione di sapere se le autorità possano essere ritenute responsabili per aver indirettamente provocato la situazione di pericolo che ha portato alla necessità per M.P. di sparare, il Governo osserva che la morte di Carlo Giuliani è conseguenza dell'azione individuale di M.P., azione non ordinata e non autorizzata dai suoi superiori, e quindi reazione imprevista e imprevedibile. Le conclusione dell'indagine - tiro verso l'alto interrotto e deviato da un sasso - permettono di escludere qualsiasi responsabilità dello Stato, ivi compresa la responsabilità indiretta in ragione delle presunte lacune nell'organizzazione o nella gestione delle operazioni di mantenimento e di ripristino dell'ordine pubblico nel loro complesso. Per quanto riguarda le « disfunzioni » evocate dalla procura nella richiesta di archiviazione, soprattutto in ragione delle modifiche apportate all'organizzazione nella notte precedente i fatti, il Governo osserva che queste non sono state precisate o stabilite. Da parte sua, il Governo nega che la direzione delle operazioni sia stata destabilizzata da cambiamenti di piano inopportuni e, in ogni modo, nega che all'origine degli atti controversi vi siano eventuali disfunzioni.
182. Nel far riferimento alla sentenza Andronicou e Constantinou succitata, il Governo prega la Corte di dare prova della stessa considerazione e di non andare al di là di un « semplice rammarico » per quanto riguarda la morte di Carlo Giuliani. Non sarebbe giustificato che la Corte sostituisse la propria valutazione a quella degli ufficiali e dei funzionari che, nei loro uffici o sul campo, hanno pianificato e diretto le operazioni.
183. Quanto agli aspetti generali dell'organizzazione delle operazioni di mantenimento e di ripristino dell'ordine pubblico, il Governo osserva che nulla indica che vi sia stato un errore di valutazione che possa essere collegato all'evento controverso. Il Governo fa notare che non vi è un nesso di causalità tra la morte di Carlo Giuliani e la carica al corteo delle « Tute bianche ». Poi, nulla permette di dire che non bisognasse condurre il contingente dei carabinieri in piazza Alimonda, prendere il tempo di riorganizzarlo e spiegarlo di fronte ai manifestanti.
184. Quello che distingue il presente caso di specie dalle cause Ergi c. Turquie (28 luglio 1998, Recueil 1998‑IV), Oğur c. Turchia ([GC], no 21594/93, CEDH 1999‑III) e Makaratzis (succitata), è che nella presente causa la pianificazione delle operazioni non poteva che essere parziale e approssimativa, dal momento che i manifestanti potevano restare pacifici o darsi alla violenza. Di conseguenza, i manifestanti erano « per così dire, inevitabilmente, padroni del gioco per quanto riguarda l'evoluzione dei fatti, e le autorità non potevano prevedere in dettaglio quello che sarebbe accaduto e dovevano assicurare nel loro intervento una flessibilità difficile da programmare ».
185. Il Governo osserva poi che un secondo elemento distingue il caso di specie dalle cause sopra citate. In queste cause le vittime erano state raggiunte da un proiettile sparato ad altezza d'uomo e in quadro di spari multipli. Insomma, « in nessuna delle cause citate, il caso aveva svolto un ruolo paragonabile a quello svolto nella situazione controversa ».
186. Il Governo sottolinea che le manifestazioni di Genova avrebbero dovuto essere pacifiche e svolgersi nella legalità. I filmati mostrano che gran parte dei manifestanti sono rimasti entro i limiti della legalità e della non violenza. Le autorità avrebbero fatto tutto quello che era in loro potere -tramite i servizi informativi - per evitare per quanto possibile che elementi perturbatori (anarchici, provocatori, soggetti violenti e aggressivi, persino terroristi) si mischiassero con i manifestanti e facessero degenerare la manifestazione. A tale proposito, il Governo sostiene che « un considerevole numero di soggetti violenti (fra cui il giovane Giuliani) hanno potuto raggiungere la città e saccheggiarla ». In previsione di una eventuale degenerazione della situazione, erano state prese importanti precauzioni. Tuttavia, nessuna autorità avrebbe potuto - « senza l'assistenza di un veggente » - prevedere esattamente quando, dove e come la violenza sarebbe esplosa e in quali direzioni si sarebbe diffusa. Nel momento in cui i carabinieri erano arrivati in piazza Alimonda, la situazione era calma e i comandanti ne avevano approfittato per riorganizzare i loro uomini e per far salire a bordo della Jeep M.P. e D.R., i due carabinieri intossicati dai gas lacrimogeni. Soltanto dopo la carica da parte dei manifestanti (che avevano lanciato oggetti contundenti e avviato una manovra di accerchiamento nella evidente intenzione di condurre un vero attacco contro i militari) i carabinieri avevano dovuto ripiegare. Durante questa ritirata, le due jeep si erano ritrovate isolate. Secondo il Governo, se gli eventi non fossero precipitati, la jeep interessata si sarebbe allontanata subito con i feriti.
187. Sulla questione di sapere perché una jeep non blindata come quella in cui si trovava M.P. sia stata utilizzata durante il G8, il Governo sostiene che il veicolo non era destinato ad essere operativo nell'ambito del mantenimento dell'ordine, ma interveniva semplicemente nel supporto logistico. Peraltro, il Governo precisa che la jeep Defender era dotata di griglie metalliche per proteggere il parabrezza e i vetri laterali anteriori. Dietro, i vetri laterali e il lunotto non avevano griglie. Inoltre la jeep era dotata del sistema radio Gamma 400.
188. Quanto al fatto che le forze dell'ordine fossero dotate di munizioni letali e non di proiettili in caucciù, il Governo osserva che il diritto italiano non permette l'uso di questo secondo tipo di munizioni. In ogni caso, il porto di un'arma « non letale », indipendentemente dalle norme vigenti, costituisce un incoraggiamento a servirsene, nell'illusione di non provocare gravi danni. Ora, in Italia vige la regola che le armi da fuoco non sono utilizzate nelle operazioni di mantenimento dell'ordine: le forze di polizia non sparano sulla folla, che sia piombo o caucciù. Inoltre, la sperimentazione delle armi e delle munizioni « non letali » effettuata negli anni 80 è stata sospesa in seguito ad incidenti che hanno mostrato che quest'ultime potevano provocare la morte o delle ferite molto gravi. Le armi non letali sono concepite per un uso massiccio teso a contrastare una carica importante di manifestanti o a disperdere questi ultimi. Nel caso di specie, le forze dell'ordine non hanno mai ricevuto l'ordine di sparare ed il loro equipaggiamento serviva, come era per M.P., alla loro difesa personale.
189. In vista del G8 non è stata adottata nessuna specifica disposizione sull'uso delle armi da fuoco, ma è stato fatto riferimento alle circolari del Comando generale dei carabinieri che richiamano le disposizioni del CP in vigore (articoli 52, 53 e 54).
190. Per quanto riguarda l'esperienza professionale dei carabinieri impiegati al G8 di Genova, il Governo precisa che F.C. (l'autista) era in servizio dal 16 settembre 1999, D.R., ausiliario, dal 16 marzo 2001, e M.P., ausiliario, dal 14 settembre 2000. La loro formazione aveva incluso un addestramento tecnico di base tenuto al momento del loro reclutamento e dei corsi di perfezionamento sul mantenimento dell'ordine pubblico e sull’uso dell’equipaggiamento fornito. Inoltre, essi avevano acquisito una significativa esperienza nel corso di eventi sportivi o altri.
191. Infine, in vista del G8 tutto il personale utilizzato a Genova, compresi i tre carabinieri summenzionati, aveva partecipato a sessioni di addestramento a Velletri. In questa circostanza, istruttori esperti avevano approfondito le tecniche di intervento da mettere in atto durante le operazioni di mantenimento dell'ordine pubblico.
192. Per quanto riguarda la questione di sapere per quali ragioni le forze dell'ordine che si trovavano vicine alla Jeep non siano intervenute, il Governo osserva che i carabinieri presenti sul posto si erano appena ritirati sotto la carica dei manifestanti e avevano bisogno di tempo per riorganizzarsi. Per quanto riguarda i poliziotti, « presenti ad una distanza relativamente corta, ma non nelle immediate vicinanze », essi sono intervenuti il più rapidamente possibile. A tale proposito, il Governo sottolinea la rapidità con la quale si è verificato l'evento tragico (qualche decina di secondi in tutto).
193. Infine il Governo fa notare che la relazione dell'autopsia prova che il passaggio del veicolo sul corpo di Carlo Giuliani era stato senza serie conseguenze per quest'ultimo. Peraltro, i soccorsi erano intervenuti rapidamente sui luoghi del dramma.
b) Sull'aspetto procedurale dell'articolo 2 della Convenzione
194. Il Governo osserva che occorre partire dall'esame dell'aspetto procedurale del motivo di ricorso, e invita la Corte a concludere che l'indagine è stata conforme all'articolo 2. Sulla base di questa conclusione, sarà poi possibile esaminare l'aspetto materiale del motivo di ricorso senza rimettere in discussione le conclusioni dei giudici nazionali.
195. Per quanto riguarda l'esigenza di efficacia, il Governo sottolinea che si tratta di un obbligo di mezzi e non di risultato. Di conseguenza il fatto che i mezzi impiegati, nonostante la loro adeguatezza, non avessero permesso di chiarire interamente tutti gli aspetti del caso di specie non può, in quanto tale, indurre la Corte a constatare l’insufficienza dell’indagine. Il Governo ammette che « alcuni atti e documenti provano le difficoltà incontrate nella ricostruzione dei fatti, soprattutto in ragione della indisponibilità di alcuni elementi, ma queste difficoltà non sono affatto ascrivibili alle autorità o a negligenza da parte loro, ma risultano da condizioni oggettive e non gestibili. Non essendo evidente una mancanza di diligenza, le zone d'ombra nella ricostruzione dei fatti non possono quindi essere attribuite agli inquirenti, che hanno soddisfatto l'obbligo di mezzo ». Tuttavia, volendo supporre che possa sussistere un dubbio in merito ad alcuni elementi, in materia penale il dubbio favorisce l'accusato e non la vittima (in dubio pro reo). Questo principio non può essere rimesso in discussione da una forzata interpretazione dell'articolo 2. Ad ogni modo, non spetta alla Corte sostituirsi ai giudici nazionali per valutare il carattere concludente di questo o quell’elemento di prova.
196. Anche l'esigenza di celerità nell'avvio del procedimento e nella raccolta delle prove sarebbe stata rispettata, soprattutto alla luce dei seguenti elementi: l'indagine a carico dei due sospettati è stata avviata il giorno dopo i fatti; immediatamente dopo i fatti, piazza Alimonda è stata isolata ed è stata preservata la scena del dramma; gli oggetti pertinenti sono stati subito identificati e sequestrati ; l’autopsia è stata praticata entro le ventiquattro ore; i principali attori e testimoni sono stati ascoltati immediatamente (M.P. e F.C. la sera stessa, D.R. il giorno successivo); anche gli altri testimoni facilmente accessibili sono stati ascoltati in tempi molto brevi; soltanto i manifestanti sono stati convocati più tardi essendo più difficile identificarli, ma in ogni caso in tempi ampiamente compatibili con le esigenze di celerità.
197. Per quanto riguarda l'ampiezza e la serietà delle indagini, il Governo osserva che l'autorità giudiziaria non ha fatto economia di mezzi per accertare i fatti e a questo scopo ha fatto ricorso alle risorse tecnologiche più avanzate come pure a metodi tradizionali. Così, la procura e gli inquirenti, quando necessario, hanno interrogato nuovamente alcune persone che erano già state ascoltate una prima volta ed hanno anche ascoltato terze persone estranee sia ai manifestanti che alle forze dell'ordine (abitanti che avevano potuto assistere ai fatti). E’ stata effettuata sul posto una ricostruzione dei fatti e delle prove di tiro. Un consistente materiale audiovisivo è stato integrato agli atti della procedura. Si tratta non soltanto di immagini riprese dalle forze dell'ordine (che, del resto, non possono essere considerate non affidabili unicamente per questo), ma anche di materiale che aveva potuto essere identificato presso privati cittadini (soprattutto giornalisti). La procura ha disposto tre perizie balistiche, di queste la terza è stata affidata ad un collegio di quattro periti molto considerati per le delicate perizie che avevano realizzato in altri processi. Infine, il Governo ricorda che il giudice delle indagini preliminari, nella sua decisione, si è anche basato su materiale proveniente da fonti vicine ai manifestanti stessi (il materiale di un sito internet anarchico). Questo proverebbe « la cura e l'imparzialità con le quali ogni elemento potenzialmente utile è stato raccolto e analizzato, anche quando non era facile venirne a conoscenza e prevederne il contenuto ».
198. Quanto al fatto che l'inchiesta sia stata a carico soltanto di M.P. e F.C., il Governo osserva che la responsabilità penale è strettamente personale e presuppone un rapporto di casualità secondo il quale il fatto delittuoso è la conseguenza diretta e immediata dell'atto incriminato. Ora, eventuali errori o disfunzioni nell'organizzazione, nella direzione o nella condotta delle operazioni di mantenimento dell'ordine pubblico non potevano in nessun caso essere considerate direttamente all'origine del dramma accaduto in piazza Alimonda. Quindi sarebbe stato superfluo, ed estraneo alla competenza e ai poteri dell'autorità giudiziaria, estendere l'indagine agli alti responsabili della polizia o ricercare altri responsabili, « lo scopo di un procedimento penale non è quello di trovare un capro espiatorio ad ogni costo». In particolare, la norma del codice penale che prevede « l'omissione di atti del suo ufficio » non deve essere applicata alla fattispecie in quanto nessuno ha mai insinuato che un funzionario, ufficiale o agente della polizia si sia rifiutato o abbia omesso di eseguire un atto del suo ufficio.
199. Per quanto riguarda l'esigenza di trasparenza dell'indagine – che è stata avviata d'ufficio, conformemente al principio di diritto della obbligatorietà dell'azione penale -, il Governo osserva che i ricorrenti avrebbero avuto fin dall'inizio la possibilità di partecipare pienamente all'indagine, facendosi rappresentare dagli avvocati. Avrebbero anche potuto partecipare alle operazioni tecniche incaricando dei periti. Hanno preso parte, tramite i loro periti, alla terza perizia balistica ed alla ricostruzione dei fatti. Questo è stato possibile grazie alla procura, che « è arrivata a forzare l'interpretazione e l'uso dell'articolo 360 del codice di procedura penale ». Peraltro, i ricorrenti non si sono avvalsi della facoltà di partecipare all'autopsia. A tale proposito, il Governo osserva che l'avviso di autopsia è stato notificato al primo ricorrente alle 12 :10 del 21 luglio 2001, ossia tre ore prima dell'inizio dell'esame. Tenuto conto della celerità richiesta in questo tipo di cause non è possibile criticare questo termine per la sua brevità. Infine, il Governo osserva che i ricorrenti hanno potuto formulare critiche e domande nell’atto di opposizione alla richiesta di archiviazione; nella sua decisione di archiviazione, il giudice ha fornito una risposta sufficientemente dettagliata per motivare il rigetto delle loro domande di integrazione dell’indagine. Certo, i ricorrenti non hanno avuto la possibilità di chiedere un incidente probatorio in virtù dell'articolo 394 CPP per quanto riguarda i primi atti dell'indagine, ma questo tipo di verifica rientra esclusivamente nell'attività della polizia. Quanto alla possibilità di chiedere un incidente probatorio alla procura a proposito dell'autopsia e della perizia collegiale per la ricostruzione dei fatti, il Governo sostiene che questa possibilità esisteva in diritto, anche se l'articolo 360 CPP non la prevede. Tuttavia, la procura non sarebbe stata tenuta ad accogliere tale richiesta. In ogni caso, durante la perizia collegiale la procura ha chiesto alle parti se avessero obiezioni in merito al fatto di utilizzare la procedura prevista dall'articolo 360 CPP e non è stata sollevata alcuna obiezione. Quanto alle due perizie balistiche che hanno preceduto la perizia collegiale, il Governo ammette che sono state fatte unilateralmente. Tuttavia, queste perizie avevano come unico scopo quello di verificare se i due bossoli ritrovati appartenessero o no all'arma di M.P., e poiché quest'ultimo aveva già confessato di aver sparato due colpi di arma da fuoco, esse non avevano alcuna incidenza decisiva sulla ricostruzione dei fatti e sul seguito dell'indagine. Non erano altro che verifiche di routine. Ad ogni modo, l'arma è stata riesaminata nella perizia collegiale.
200. Per quanto riguarda l'esigenza di imparzialità dell'indagine, il Governo osserva che fin dai primi istanti dopo il dramma, la squadra mobile della Questura di Genova è intervenuta ed ha preso in mano le indagini. I carabinieri sono stati incaricati soltanto « per atti di minore importanza e quando si trattava di oggetti in loro possesso - per esempio per il sequestro del veicolo o dell'arma - o di persone appartenenti ai loro effettivi - per esempio quando è stato necessario citare (e non ascoltare) alcuni carabinieri. » Inoltre, la procura ha limitato al minimo gli atti delegati, preferendo compierli essa stessa, soprattutto gli interrogatori più importanti e quelli che avrebbero potuto essere influenzati dal fatto che l’inquirente apparteneva a un corpo di polizia o altro. « Tenuto conto dell'autonomia e dell'indipendenza giudiziaria, che in Italia ha raggiunto un livello che figura fra i più elevati d'Europa, e di cui beneficiano a pari titolo (cosa che non accade in altri paesi) sia i giudici che i rappresentanti della procura, e del fatto che occorre affidare l'indagine ad una autorità di polizia (a meno di non affidarsi ai detective privati per le cause riguardanti l'articolo 2), non si può rimproverare all'indagine o agli inquirenti nessuna mancanza di imparzialità (da un punto di vista soggettivo o oggettivo). Peraltro il fatto che tale ipotesi sia frutto di pura fantasia è una cosa confermata da due elementi circostanziali: ab interno, dai risultati delle indagini, che non hanno affatto dato a pensare che si tentasse di dissimulare alcuni elementi, come pure dalle motivazioni dell’archiviazione; ab esterno, attraverso il risultato di un'altra inchiesta (riguardante alcuni comportamenti successivi all'episodio di piazza All'immonda), al termine della quale alcuni membri delle forze dell'ordine, accusati di aver eseguito un raid in una scuola che ospitava alcuni manifestanti per la notte, sono stati rinviati a giudizio ».
201. Del resto, il Governo osserva che tutti i periti della procura erano civili, fatta eccezione per il secondo perito balistico che era un poliziotto. Quanto al perito Romanini, la procura avrebbe ignorato all'epoca in cui gli era stata affidata la perizia che costui, nel settembre 2001, avesse pubblicato un editoriale nel quale aveva analizzato che M.P. aveva agito in stato di legittima difesa, tenuto conto della grave situazione di pericolo e di paura nella quale si era manifestamente trovato. Il Governo sostiene che l'editoriale controverso aveva unicamente lo scopo di esporre una teoria politica fondata sul confronto tra l'episodio in questione e un'altra tragedia, accaduta precedentemente a Napoli e che Romanini giudicava oggettivamente più grave, ma che secondo lui aveva fatto molto meno rumore sui media perché non si prestava a una strumentalizzazione politica. Secondo il Governo, il fatto di aver scritto questo articolo non rendeva il dottor Romanini inidoneo ad esercitare in maniera oggettiva e imparziale il suo mandato peritale, perché quest'ultimo non consisteva né nel ricercare se M.P. avesse agito per legittima difesa, né nel verificare se i fatti si fossero svolti in maniera tale da sostenere la tesi della legittima difesa. Il collegio di periti doveva esprimersi in particolare sulla traiettoria del proiettile. Il ruolo specifico del dottor Romanini si è limitato ad effettuare delle prove di tiro alla presenza degli altri periti oltre che dei ricorrenti e dei periti di parte. Questa attività « puramente tecnica ed essenzialmente materiale » non lasciava posto a valutazioni preconcette che avrebbero potuto influenzare le conclusioni dell'indagine. Del resto, il Governo osserva che i ricorrenti non hanno sollevato alcuna obiezione rispetto alla scelta della persona di Romanini.
202. In conclusione il Governo ritiene che l’indagine sia stata effettiva e che gli obblighi procedurali di cui all’articolo 2 della Convenzione siano stati rispettati.
203. Il Governo precisa peraltro che a carico dei carabinieri non è stata aperta alcuna indagine amministrativa o disciplinare. Quanto ai poliziotti, osserva che sono pendenti due procedimenti a carico di parecchi agenti per presunte lesioni nei confronti di manifestanti dopo la morte di Carlo Giuliani, il 21 e 22 luglio 2001.
B. Valutazione della Corte
1. Principi generali
204. L'articolo 2, che garantisce il diritto alla vita ed espone le circostanze nelle quali può essere giustificato infliggere la morte, si colloca fra gli articoli fondamentali della Convenzione e non vi può essere autorizzata alcuna deroga. Combinato con l'articolo 3, esso sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche che formano il Consiglio d'Europa. Le circostanze nelle quali la privazione della vita può essere giustificata richiedono quindi una stretta interpretazione. Anche l'oggetto e lo scopo della Convenzione, in quanto strumento di tutela degli esseri umani, richiedono di comprendere e applicare l'articolo 2 in modo da renderne le esigenze concrete ed effettive (McCann e altri c. Regno Unito, 27 settembre 1995, §§ 146-147, serie A no 324). Il testo dell'articolo 2, integralmente esaminato, mostra che non soltanto di copre l'omicidio intenzionale, ma anche le situazioni nelle quali è possibile dover far « ricorso alla forza », fatto che può involontariamente procurare la morte. Il ricorso deliberato o volontario alla forza omicida tuttavia è soltanto uno dei fattori da prendere in considerazione quando si tratta di valutare la necessità. Il ricorso alla forza deve essere reso « assolutamente necessario » per raggiungere uno degli obiettivi di cui ai commi a) b) e c) del paragrafo 2. Questi termini indicano che occorre applicare un criterio di necessità più stretto e imperioso di quello normalmente adoperato per stabilire se l’intervento dello Stato sia « necessario in una società democratica » a titolo del paragrafo 2 degli articoli da 8 a 11 della Convenzione. In particolare, la forza utilizzata deve essere strettamente proporzionata agli scopi così permessi (McCann e altri succitata, §§ 148-149). A tale proposito la Corte ricorda che l’uso della forza da parte di agenti dello Stato per raggiungere uno degli obiettivi enunciati nel paragrafo 2 dell’articolo 2 della Convenzione può essere giustificato rispetto a questa disposizione se basato su una onesta convinzione considerata, per dei buoni motivi, valida all’epoca degli eventi, ma che successivamente si rivela sbagliata. Affermare il contrario significherebbe imporre allo Stato ed ai suoi agenti incaricati dell’applicazione delle legge un onere irrealistico che rischierebbe di essere esercitato a spese della loro e dell’altrui vita (McCann e altri succitata, § 200).
205. La prima frase dell’articolo 2 § 1 costringe lo Stato non soltanto ad astenersi dal procurare volontariamente ed illegalmente la morte, ma anche a prendere, nell’ambito del suo ordinamento giuridico interno, le misure necessarie alla tutela della vita delle persone sotto la sua giurisdizione (Kiliç c. Turchia, no 22492/93, § 62, CEDH 2000‑III). A tale proposito l'obbligo dello Stato impone il dovere fondamentale di assicurare il diritto alla vita predisponendo un quadro giuridico e amministrativo che possa dissuadere dal commettere azioni dannose per la persona e basandosi su un meccanismo d’applicazione concepito per prevenirne, reprimere e sanzionare le violazioni. Come mostra il testo stesso dell'articolo 2, il ricorso dei poliziotti alla forza omicida può essere giustificato in alcune circostanze. Tuttavia, l'articolo 2 non dà carta bianca. La mancanza di un inquadramento attraverso delle regole e l'abbandono ad un'azione arbitraria da parte degli agenti dello Stato sono incompatibili con un effettivo rispetto dei diritti dell'uomo. Questo significa che le operazioni di polizia, oltre ad essere autorizzate dal diritto nazionale, devono essere sufficientemente delimitate da questo delitto, nell'ambito di un sistema di garanzie adeguate ed effettive contro l’arbitrio e l'abuso della forza (Makaratzis, succitata, § 58).
206. Tenuto conto della importanza della tutela accordata dall'articolo 2, la Corte deve esaminare con estrema attenzione i casi in cui viene inflitta la morte, e prendere in considerazione non soltanto gli atti degli agenti dello Stato ma anche tutte le circostanze del caso, in particolare la preparazione e il controllo degli atti in questione (Mc Cann e altri succitata, §§ 147-150 ; Andronicou et Constantinou, sucitata, § 171).
207. L'obbligo di proteggere il diritto alla vita imposto dall'articolo 2 della Convenzione, combinato con il dovere generale che incombe allo Stato in virtù dell'articolo 1 di « riconoscere ad ogni persona sotto la sua giurisdizione i diritti e le libertà definiti nella (…) Convenzione » implica ed esige di condurre una forma di indagine efficace quando il ricorso alla forza abbia comportato la morte di un uomo (vedere, mutatis mutandis, McCann e altri succitata, § 161, e Kaya c. Turchia, 19 febbraio 1998, § 105, Recueil 1998-I). Una simile inchiesta deve aver luogo in ogni caso in cui vi è stata la morte di un uomo a seguito del ricorso alla forza, sia che gli autori siano agenti dello Stato che terze persone (Tahsin Acar c. Turchia [GC], no 26307/95, § 220, CEDH 2004‑III). In particolare le investigazioni devono essere approfondite, imparziali e rigorose (McCann e altri, succitata, §§ 161-163, e Çakıcı c. Turchia [GC], no 23657/94, § 86, CEDH 1999‑IV).
208. La Corte ritiene inoltre che la natura e il livello dell'esame che rispondono al criterio minimo di effettività dell'indagine dipendono dalle circostanze della fattispecie. Questi sono valutati in base a tutti i fatti pertinenti e tenuto conto delle realtà pratiche del lavoro di indagine. Non è possibile ridurre la varietà delle situazioni che possono prodursi ad un semplice elenco di atti di indagine o ad altri criteri semplificati (Tanrıkulu c. Turchia [GC], no 23763/94, §§ 101-110, CEDH 1999‑IV ; Kaya, succitata, §§ 89-91 ; Güleç c. Turchia, 27 luglio 1998, §§ 79‑81, Recueil 1998‑IV ; Velikova c. Bulgaria, no 41488/98, § 80, CEDH 2000‑VI ; e Buldan c. Turchia, no 28298/95, § 83, 20 aprile 2004).
209. In linea generale, affinché l'inchiesta possa essere considerata « effettiva » nel senso citato, è necessario che le persone che ne sono responsabili e quelle che effettuano le investigazioni siano indipendenti da quelle coinvolte negli eventi. Questo non soltanto presuppone la mancanza di qualsiasi legame gerarchico o istituzionale ma anche una indipendenza pratica (Ramsahai e altri c. Paesi Bassi [GC], no 52391/99, § 325, CEDH 2007-... ; McKerr c. Regno Unito, no 28883/95, § 128, CEDH 2001‑III ; Hugh Jordan c. Regno Unito, no 24746/94, § 120, CEDH 2001‑III ; Aktaş c. Turchia,no 24351/94, § 301, CEDH 2003‑V). È in gioco l'adesione dell'opinione pubblica al monopolio del ricorso alla forza posseduto dallo Stato.
210. L'indagine deve essere effettiva anche nel senso che essa deve permettere di stabilire se il ricorso alla forza fosse giustificato o no nelle circostanze (vedere, per esempio, la sentenza Kaya succitata, § 87) e di identificare e sanzionare i responsabili. Si tratta di un obbligo di mezzi, non di risultato. Le autorità devono aver preso tutte le misure ragionevoli a loro disposizione per essere sicure di ottenere prove relative ai fatti in questione, ivi comprese, fra altre, le deposizioni dei testimoni oculari, le perizie e, eventualmente, una autopsia idonea a fornire un resoconto completo e preciso delle ferite e un'analisi obiettiva delle constatazioni cliniche, soprattutto della causa del decesso (riguardo alle autopsie, vedere ad esempio la sentenza Salman c. Turchia [GC], no 21986/93, § 106, CEDH 2000-VII; riguardo ai testimoni, vedere per esempio Tanrıkulu, succitata, § 109; riguardo alle perizie, vedere per esempio Gül c. Turchia, no 22676/93, § 89, 14 dicembre 2000).
211. In questo contesto è implicita l'esigenza di celerità e di ragionevole diligenza (Yaşa c. Turchia, 2 settembre 1998, §§ 102-104, Recueil 1998‑VI ; Cakıcı succitata, §§ 80, 87 e 106 ; Tanrıkulu succitata, § 109; Mahmut Kaya c. Turchia, no 22535/93, §§ 106-107, CEDH 2000-III). E’ necessario ammettere che possono esserci degli ostacoli o delle difficoltà che impediscono all’indagine di progredire in una situazione particolare. Tuttavia, quando si tratta di indagare sul ricorso alla forza omicida una rapida risposta delle autorità può in genere essere considerata essenziale per preservare la fiducia del pubblico nel rispetto del principio di legalità e per evitare qualsiasi parvenza complicità o tolleranza relativamente ad atti illegali.
212. Per le stesse ragioni, il pubblico deve avere un sufficiente diritto di controllo sull’inchiesta o sulle sue conclusioni di modo che la responsabilità possa essere messa in causa sia in pratica che in teoria. Il richiesto livello di controllo del pubblico può variare da una situazione all’altra. In tutti i casi, tuttavia, i parenti della vittima devono poter partecipare alla procedura nella misura necessaria alla tutela dei loro interessi legittimi (nella causa Güleç, succitata (§ 82), il padre della vittima non aveva potuto consultare i documenti relativi all’indagine ed alla procedura; vedere anche la sentenza Gül succitata, § 93).
213. Qualsiasi lacuna dell’indagine che ne indebolisca la sua capacità di stabilire la causa del decesso o le persone responsabili rischia di far concludere che essa non risponde a questa norma (Aktaş, succitata, § 300).
2. Applicazione di questi principi al caso di specie
a) Sul preteso uso eccessivo della forza
214. La Corte è chiamata a rispondere in primo luogo alla richiesta di stabilire se vi sia stato un uso eccessivo della forza, che abbia comportato una violazione dell’elemento materiale dell’articolo 2.
215. L’inchiesta condotta a livello nazionale ha concluso che Carlo Giuliani è stato ucciso da un proiettile sparato da M.P.
216. Nonostante gli argomenti presentati dal Governo, l’archiviazione dell’inchiesta che ha riguardato M.P. non si basa sull’assenza di un nesso di causalità tra il colpo sparo mortale e il decesso di Carlo Giuliani. In effetti, l’impatto tra la pietra e il proiettile non è di natura tale da interrompere detto legame, come ha spiegato la procura nella sua richiesta di archiviazione (paragrafo 83 supra).
217. L’esistenza di un nesso di causalità tra lo sparo di M.P. e il decesso di Carlo Giuliani è al centro del ragionamento del giudice per le indagini preliminari, che ne ha tenuto conto, anche se questo elemento non è esplicitato nel testo della decisione di archiviazione. In effetti, se fosse stata stabilita un’assenza di nesso di causalità, tale constatazione sarebbe bastata, da sola, per escludere la colpevolezza di M.P.
Il giudice per le indagini preliminari ha approfondito il suo ragionamento, una volta stabilita l’esistenza di un nesso di causalità. Facendo ciò, il giudice ha valutato attentamente le circostanze che hanno caratterizzato il decesso di Carlo Giuliani, cercando di farsi un’idea precisa degli eventi, sulla base delle testimonianze raccolte, degli atti di causa, del copioso materiale audiovisivo, come risulta dal testo della sua decisione riassunto dettagliatamente ai paragrafi 93-116 supra.
218. Benché la traiettoria precisa del colpo mortale non abbia potuto essere determinata (paragrafo 99 supra), il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto che M.P. avesse sparato verso l’alto, il che permetteva di escludere che egli avesse deliberatamente ucciso Carlo Giuliani (paragrafo 101 supra). Secondo il giudice, si trattava comunque di omicidio volontario, poiché M.P. non aveva sparato solo per intimidire i suoi aggressori, ma per fermare la violenza, correndo in tal modo il rischio di uccidere (paragrafo 100 supra).
219. Il giudice per le indagini preliminari si è posto poi la questione di stabilire se vi fossero fatti che potevano escludere la responsabilità di M.P. A questo riguardo, ha concluso che due fatti escludevano la responsabilità penale di M.P.: l'uso legittimo dell’arma e la legittima difesa.
220. Per quanto riguarda l’uso dell’arma, il giudice ha ritenuto che quest’ultimo era stata indispensabile, dato che la ricostruzione dettagliata dei fatti faceva pensare che MP si fosse trovato in una situazione di estrema violenza, volta a destabilizzare l’ordine pubblico ed in atto nei confronti dei carabinieri, la cui incolumità era direttamente minacciata (paragrafo 101 supra).
Nella sua valutazione del pericolo, il giudice ha tenuto conto del numero di manifestanti e delle modalità complessive dell’azione, come gli atti di violenza contro M.P. e gli altri occupanti della jeep. In particolare, il giudice si è basato sulle testimonianze e le immagini che mostrano la violenza dell’assalto posto in essere da numerosi manifestanti, la costante sassaiola alla quale era sottoposto il veicolo, che aveva causato danni fisici agli occupanti, l'aggressione portata agli occupanti dai manifestanti che continuavano a circondare il mezzo dappresso introducendovi mezzi contundenti. Il protrarsi di questa situazione di pericolo aveva innegabilmente costituito un’offesa reale e ingiusta all’incolumità personale di M.P. e dei suoi compagni, e aveva reso necessaria una difesa che non poteva che sfociare nell’uso dell’unico mezzo che M.P. aveva a disposizione per contrastarla: la sua arma.
221. Anche a voler supporre che M.P. abbia deliberatamente diretto i suoi colpi verso Carlo Giuliani, secondo il giudice la situazione di pericolo sopra descritta avrebbe in ogni caso reso legittimo il ricorso all’arma (paragrafo 101 supra).
222. Quanto alla legittima difesa, il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto che anch’essa contribuiva ad escludere la responsabilità penale di M.P., tenuto conto che quest’ultimo aveva, a giusto titolo, avuto la percezione di un pericolo per la sua incolumità fisica e per quella dei suoi compagni. La risposta di M.P. era necessaria, considerato il numero di aggressori, i mezzi utilizzati, il carattere continuo degli atti di violenza, le ferite dei carabinieri presenti nella jeep, le difficoltà per il veicolo di allontanarsi. La risposta di M.P. era adeguata, visto che se M.P. non avesse estratto l’arma e sparato due volte, l’aggressione non sarebbe cessata, e che se l’estintore fosse riuscito a penetrare nella jeep, avrebbe provocato gravi ferite agli occupanti. Inoltre, la risposta di M.P. era proporzionata, dal momento che prima di sparare egli aveva urlato ai manifestanti di andarsene, e tenuto conto del fatto che aveva sparato verso l’alto (paragrafi 102-103 supra). In conclusione, il gesto di M.P., che aveva corso il rischio di uccidere utilizzando la propria arma, era dovuto alla necessità di difendere l’incolumità fisica degli occupanti della jeep, ed era proporzionato all’importanza dei beni da difendere e ai mezzi a disposizione per difenderli.
223. Quanto a F.C., tenuto conto del fatto che era passato sul corpo di Carlo Giuliani senza vederlo, e che i passaggi della jeep sul corpo della vittima non avevano causato né il decesso né lesioni apprezzabili, non vi erano elementi che permettessero di attribuirgli una qualsiasi responsabilità (paragrafo 97 supra).
224. Alla luce delle conclusioni dell’inchiesta, e in assenza di altri elementi che possano portarla a concludere diversamente, la Corte non ha motivi per dubitare che M.P. abbia sinceramente creduto che la sua vita fosse in pericolo, e ritiene che egli abbia utilizzato la sua arma allo scopo di difendersi dall’aggressione nei confronti degli occupanti della jeep, tra cui lui stesso, che si sentiva direttamente minacciato (McCann e altri, già cit., § 200; Huohvanainen c. Finlandia, n. 57389/00, § 96, 13 marzo 2007). Questo è uno dei casi elencati al secondo paragrafo dell’articolo 2, nei quali il ricorso a una forza omicida può essere legittimo, ma va da sé che deve esistere un equilibrio tra lo scopo perseguito e i mezzi utilizzati. In questo contesto, la Corte deve cercare di stabilire se il ricorso alla forza omicida fosse legittimo. In questo modo, essa non può, riflettendo nella serenità delle deliberazioni, sostituire la propria valutazione della situazione a quella dell’agente che ha dovuto reagire, nel fuoco dell’azione, a ciò che percepiva sinceramente come un pericolo allo scopo di salvarsi la vita (Bubbins c. Regno Unito, n. 50196/99, § 139, CEDU 2005-II (estratti)).
225. M.P. ha utilizzato una pistola Beretta, ossia un’arma potente. In effetti, essendo stato scartato dal servizio d’ordine, egli non disponeva più di dispositivi lacrimogeni e non è stato stabilito in via giudiziale – poiché la decisione di archiviazione non ne fa menzione – che egli avesse uno scudo per proteggersi. Tuttavia, la Corte osserva che, secondo le fotografie agli atti, vi era uno scudo nella jeep, e che uno dei manifestanti ha dichiarato che M.P. aveva tentato di servirsene per difendersi (paragrafo 23 supra). Prima di sparare, M.P. ha urlato ed ha tenuto la Beretta in mano in maniera visibile dall’esterno (le immagini agli atti mostrano la pistola). Il carabiniere affrontava un gruppo di manifestanti che conducevano un attacco violento contro il veicolo in cui egli si trovava e che avevano ignorato le intimazioni ad allontanarsi. La Corte ritiene che, nelle circostanze della presente causa, il ricorso alla forza omicida, benché molto deplorevole, non ha oltrepassato i limiti di quanto era assolutamente necessario per evitare ciò che M.P. aveva onestamente percepito come un pericolo reale e imminente per la sua vita e quella dei suoi colleghi.
226. La Corte non perde di vista che l’autore dello sparo ha preso l’iniziativa personale di sparare, sotto l’effetto del panico. Pertanto, essa non ritiene necessario esaminare in astratto la compatibilità con l’articolo 2 delle disposizioni legislative applicabili in materia di uso delle armi da parte dei membri delle forze dell’ordine durante le operazioni di mantenimento dell’ordine pubblico (McCann e altri già cit., § 153), poiché la situazione esaminata riguarda la difesa di un militare escluso dal servizio d’ordine e posto in un veicolo non blindato, ed è regolata dagli articoli 52 e 53 del codice penale.
227. Considerato quanto precede, la Corte ritiene che non vi sia stato un uso sproporzionato della forza. Pertanto non vi è stata violazione dell’elemento materiale dell’articolo 2 della Convenzione a questo riguardo.
b) Sull’inosservanza dell’obbligo di proteggere la vita di Carlo Giuliani
228. La Corte è chiamata a rispondere in secondo luogo alla questione di stabilire se l’operazione di mantenimento dell’ordine pubblico sia stata pianificata, organizzata e condotta in modo da ridurre al minimo, per quanto possibile, il ricorso alla forza omicida, e in caso contrario dovrebbe constatare una inosservanza degli obblighi positivi derivanti dall’elemento materiale dell’articolo 2 della Convenzione.
229. Essa osserva anzitutto che le lacune individuate dai ricorrenti (paragrafi 149-159 supra) non sono state prese in considerazione dalle autorità nazionali poiché l’inchiesta che ha avuto luogo è stata focalizzata sul comportamento di F.C. e di M.P. presi isolatamente. La Corte ritornerà su questo punto nell’ambito dell’analisi degli obblighi processuali derivanti dall’articolo 2 (v. 245-255 infra).
230. Procedendo alla valutazione della fase preparatoria e di direzione dell’operazione sotto il profilo dell’articolo 2 della Convenzione, la Corte deve considerare in particolare il contesto in cui l’incidente è avvenuto, nonché il modo in cui la situazione si è evoluta. Essa deve preoccuparsi unicamente di determinare se, in queste condizioni, la preparazione e la direzione dell’operazione di mantenimento dell’ordine pubblico dimostrino che le autorità hanno predisposto la vigilanza necessaria affinché i rischi per la vita di Carlo Giuliani fossero ridotti al minimo, e che esse non hanno dato prova di negligenza nella scelta delle misure adottate (Andronicou e Constantinou, già cit., §§ 181-182).
231. In via generale, la Corte ritiene che uno Stato che accetta che sul suo territorio si svolga un evento internazionale ad alto rischio deve adottare le misure di sicurezza necessarie e spiegare il massimo sforzo per assicurare il mantenimento dell’ordine pubblico. Pertanto esso ha il compito di prevenire gli eccessi che possano causare incidenti violenti. Se tuttavia tali incidenti avvengono, le autorità devono essere attente nella loro risposta alla violenza, in modo da ridurre al minimo il rischio di ricorrere alla forza omicida. Allo stesso tempo, lo Stato ha il dovere di assicurare il buono svolgimento delle manifestazioni organizzate intorno all’evento, tutelando tra gli altri i diritti garantiti dagli articoli 10 e 11 della Convenzione.
232. Nella fattispecie, le autorità italiane dovevano affrontare una riunione del G8 nel corso della quale avevano il compito di garantire la sicurezza dei capi di Stato e dei funzionari, quella degli abitanti di Genova nonché quella delle migliaia di manifestanti che avevano annunciato la loro presenza. Per quanto riguarda la pianificazione e l’organizzazione, dal fascicolo risulta che il prefetto di Genova ha adottato misure volte a limitare l’accesso alle zone sensibili della città, allo scopo di preservare la sicurezza dei partecipanti ai lavori del G8 e di evitare il rischio di attentati e aggressioni. Inoltre, tenuto conto dell’importanza dell’evento, delle dimensioni della città e del numero importante di manifestanti attesi, qualche giorno prima dell’inizio del G8 era stato inviato a Genova un numero considerevole di membri delle forze dell’ordine. La vigilia del 20 luglio 2001, i responsabili della sicurezza hanno elaborato la loro strategia per il giorno seguente, sapendo che si sarebbe trattato di un’operazione di grande portata e che avrebbero dovuto tentare di evitare qualsiasi eccesso da parte dei manifestanti.
233. La Corte deve rispondere alla questione di stabilire se le lacune che hanno caratterizzato la preparazione e la conduzione dell’operazione siano direttamente correlate con la morte di Carlo Giuliani.
234. Tra le lacune individuate dai ricorrenti vi sono tra l’altro il sistema di comunicazione predisposto, che non permetteva a membri di forze dell’ordine diverse di comunicare direttamente tra loro; la diffusione inadeguata dell’ordine di servizio riguardante il 20 luglio 2001, che ha fatto sì che le forze dell’ordine hanno attaccato il corteo delle Tute bianche, non sapendo che era autorizzato; la mancanza di coordinazione delle forze dell’ordine sul posto.
235. Per quanto riguarda il modo in cui l’operazione è stata condotta, non viene contestato che i carabinieri hanno attaccato il corteo autorizzato delle Tute bianche. Essa osserva al riguardo che il tribunale di Genova, chiamato ad un esame approfondito dell’episodio nell’ambito del «processo dei 25», che è pendente in appello, ha concluso in primo grado per il carattere illegale e arbitrario delle azioni dei carabinieri per quanto riguarda l’attacco al corteo in questione.
Detto ciò, la Corte non perde di vista che l’attacco al corteo delle Tute bianche non è in rapporto diretto con i fatti avvenuti nella piazza Alimonda, che si sono svolti alcune ore più tardi. Essa osserva che lo stesso tribunale di Genova ha chiaramente fatto la distinzione tra la reazione dei manifestanti mentre avevano luogo le suddette azioni arbitrarie e la reazione successiva, quando i manifestanti, animati solo da un desiderio di vendetta e non da una necessità di difendersi, si sono lasciati andare ad atti di violenza (paragrafi 120-128 supra).
236. Per quanto riguarda i fatti avvenuti nella piazza Alimonda, la Corte osserva che nell’arco di pochi minuti il gruppo di carabinieri sotto la direzione del funzionario di polizia Lauro ha attaccato dei manifestanti particolarmente aggressivi provenienti da una via adiacente e che questi ultimi hanno obbligato le forze dell’ordine a retrocedere rapidamente. Il veicolo a bordo del quale si trovava M.P. ha seguito la carica e si è trovato bloccato in piazza Alimonda durante la manovra di ripiegamento. I poliziotti presenti nei paraggi non sono accorsi in aiuto degli occupanti del veicolo, e questi ultimi si sono sentiti in situazione di grave pericolo, tanto che M.P. ha fatto uso della sua arma.
Certo, è lecito chiedersi: se M.P., che ha agito in uno stato psicologico particolare derivante da un grande stress e dal panico, avrebbe preso questa iniziativa se avesse beneficiato di una formazione e di un’esperienza adeguate; se, peraltro, una migliore coordinazione tra le forze dell’ordine presenti sul posto avrebbe permesso di fermare l’attacco della jeep senza fare vittime; infine, e soprattutto, se si sarebbe potuto evitare il dramma avendo cura di non lasciare la jeep non attrezzata di protezioni nel bel mezzo degli scontri, tanto più che questa aveva a bordo dei ferito non disarmati.
237. La risposta a queste domande non si evince né dall’inchiesta condotta a livello nazionale né da altri elementi del fascicolo. In queste circostanze la Corte, riflettendo nella serenità delle deliberazioni, deve dimostrare una certa prudenza nel riesaminare gli eventi con il beneficio della distanza (Bubbins, già cit., §§ 139 e 141; Andronicou e Constantinou già cit., § 171).
238. La Corte non perde di vista il fatto che, contrariamente alla situazione in altre cause (Mc Cann già cit., Andronicou già cit.), l'operazione delle forze dell’ordine nella fattispecie non mirava a un bersaglio preciso, dato che il pericolo di eccessi era imprevedibile e dipendeva dall’evolversi della situazione. Di conseguenza, la portata dell’operazione era molto ampia e la situazione era in un certo modo flessibile.
Essa osserva poi che i fatti controversi si sono svolti alla fine di una lunga giornata di operazioni di mantenimento dell’ordine, nel corso della quale le forze dell’ordine avevano dovuto far fronte a situazioni di pericolo che si evolvevano in un arco di tempo molto breve, e prendere decisioni operative cruciali. La Corte è convinta anche che le forze dell’ordine abbiano subito una pressione enorme, il che è confermato dalla condizione psichica di M.P.
La Corte ritiene che la carica ordinata dal funzionario di polizia Lauro fosse il risultato di una decisione operativa giustificata e legata alla percezione dei rischi, in funzione dell’evolversi della situazione. Era pertanto impossibile prevedere in anticipo gli eventi che sono avvenuti nella piazza Alimonda.
Infine, è opportuno ricordare che l’incidente che si è concluso con la morte di Carlo Giuliani è stato relativamente breve.
239. Avuto riguardo a quanto precede, e vista l’assenza di un’inchiesta nazionale in proposito, che essa deplora (paragrafi 245-255 infra), la Corte si trova nell’impossibilità di stabilire l’esistenza di un legame diretto e immediato tra le lacune che hanno potuto inficiare la preparazione o la conduzione dell’operazione di mantenimento dell’ordine e la morte di Carlo Giuliani.
240. La Corte deve infine esaminare l’affermazione dei ricorrenti secondo la quale, dopo che Carlo Giuliani si è accasciato, le autorità hanno tardato a chiamare e far intervenire i soccorsi.
241. Dal fascicolo risulta (paragrafo 19 supra) che alle 17.23 il gruppo di manifestanti precedentemente attaccato dalle forze dell’ordine era riuscito a respingere queste ultime e risaliva la via Caffa. Alle ore 17, 27 minuti e 25 secondi un poliziotto presente sul posto chiamò la centrale operativa per chiedere che un’ambulanza prestasse soccorso a Carlo Giuliani (paragrafo 29 supra). Il proiettile letale è stato dunque sparato in questo lasso di tempo. Peraltro, i ricorrenti hanno osservato che un’immagine mostra Carlo Giuliani con l’estintore in mano alle ore 17.27, e che in quel momento preciso è stato raggiunto dal colpo mortale (paragrafo 31 supra). In queste circostanze, la Corte ritiene che l’appello al soccorso lanciato dal poliziotto presente sul posto non possa essere considerato tardivo.
242. L'ora in cui l'ambulanza è giunta sul posto non compare nel fascicolo. Tuttavia, tenuto conto del fatto che la morte di Carlo Giuliani è avvenuta in pochi minuti solamente, vista la gravità della ferita causata dal proiettile (paragrafo 63 supra), la Corte ritiene che nulla indichi che l'ambulanza è arrivata oltre un termine ragionevole tenuto conto delle circostanze.
243. Considerato quanto precede, la Corte ritiene che non è accertato che le autorità italiane siano venute meno al loro obbligo di proteggere la vita di Carlo Giuliani.
244. Pertanto, non vi è stata violazione dell’elemento materiale dell’articolo 2 della Convenzione a questo riguardo.
c) Sull’osservanza degli obblighi processuali derivanti dall’articolo 2 della Convenzione
245. Varie anomalie nelle indagini sono state segnalate dai ricorrenti. La Corte non ritiene di dover procedere ad un’analisi di tutte le questioni sollevate, poiché, come ha ricordato in precedenza, qualsiasi lacuna nelle indagini che riduca la sua capacità di stabilire la causa o le persone responsabili del decesso rischia di far concludere che essa non soddisfa all’obbligo processuale derivante dall’articolo 2 (Aktaş già cit., § 300).
246. La corte sottolinea gli aspetti seguenti.
247. La Corte rileva in primo luogo che è stata effettuata un'autopsia il giorno successivo al decesso di Carlo Giuliani da parte di due medici nominati dalla procura. Questi hanno constatato che la vittima era stata colpita da un solo proiettile che ne aveva causato la morte. Benché lo scanner “total body” effettuato sul cadavere avesse rilevato la presenza di un frammento metallico conficcato nella testa, i due periti non l'hanno menzionato nella loro relazione tecnica e non hanno estratto il frammento in questione. Nella sua deposizione fatta nel corso del "processo ai 25", Salvi ha dichiarato di aver tentato di estrarre il frammento di cui si tratta. Inoltre, i proiettili sparati da M.P. non sono stati ritrovati e, peraltro, non vi è alcuna prova che siano stati fatti dei tentativi per ritrovarli. L'analisi di questo frammento metallico sarebbe dunque stata importante ai fini di una valutazione balistica e per la ricostruzione dei fatti. Quanto alla traiettoria seguita dal proiettile di cui si tratta, i medici hanno indicato che andava dall'alto verso il basso, da davanti a dietro e da destra a sinistra, e che la distanza dello sparo era stata superiore a 50 centimetri. Tuttavia, non è stato espressamente precisato se il tiro era stato diretto.
248. Condividendo pertanto i dubbi della procura (paragrafo 82 supra) relativi al carattere superficiale delle informazioni raccolte durante l'esame, la Corte reputa inoltre deplorevole che l’intervallo di sole tre ore lasciato ai ricorrenti tra la notifica dell'avviso di autopsia e l'autopsia stessa abbia con ogni probabilità impedito loro di nominare un perito di parte.
249. Non si può sostenere che l'autopsia svolta o le constatazioni contenute nel rapporto di autopsia fossero tali da costituire un punto di partenza per una ulteriore indagine efficace o che fossero tali da soddisfare le esigenze minime di un'indagine su un caso di omicidio manifesto, e ciò in quanto hanno lasciato troppe questioni cruciali senza risposta. Queste lacune appaiono ancora più gravi se si considera che il cadavere è stato in seguito consegnato ai ricorrenti e che è stata data autorizzazione per la sua cremazione, il che ha impedito qualsiasi ulteriore indagine, in particolare per quanto concerne il frammento metallico che si trovava nel corpo.
250. La Corte reputa increscioso che la procura abbia autorizzato la cremazione del cadavere il 23 luglio 2001, ben prima di conoscere i risultati dell'autopsia, mentre il giorno prima aveva concesso ai consulenti tecnici un termine di sessanta giorni per consegnare la loro relazione, tanto più che la stessa procura ha giudicato "superficiale" il rapporto d'autopsia. Che la mancata conservazione del corpo abbia costituito un ostacolo enorme per le indagini è peraltro confermato dai quattro consulenti tecnici d'ufficio (paragrafo 71 supra), che non hanno potuto ricostruire i fatti e, conseguentemente, non sono riusciti a determinare la traiettoria precisa dello sparo mortale.
251. Tenuto conto delle lacune nell'esame medico-legale e della mancata conservazione del corpo, non sorprende che il procedimento penale si sia concluso con l'archiviazione. La Corte conclude che le autorità non hanno condotto un'adeguata indagine sulle circostanze del decesso di Carlo Giuliani.
252. In secondo luogo, la Corte osserva che le indagini a livello nazionale si sono limitate all'esame della responsabilità di F.C. e M.P. Per la Corte tale approccio non può essere considerato conforme alle esigenze dell'articolo 2 della Convenzione poiché, come ha ricordato prima (paragrafo 206 supra), le indagini devono essere approfondite, imparziali e rigorose, e devono riguardare tutte le circostanze che hanno accompagnato la morte.
In nessun momento è stata posta la questione di esaminare il contesto generale e verificare se le autorità avevano pianificato e gestito le operazioni di mantenimento dell'ordine pubblico in modo da evitare il tipo di incidente che ha causato il decesso di Carlo Giuliani. In particolare, le indagini non sono state in alcun modo volte a determinare le ragioni per le quali M.P. - che era stato giudicato incapace dai suoi superiori di continuare il suo servizio in ragione delle sue condizioni fisiche e psichiche (paragrafi 47 e 54 supra) - non fosse stato immediatamente condotto all'ospedale, fosse stato lasciato in possesso di una pistola carica e messo a bordo di una jeep priva di protezioni e ritrovatasi isolata rispetto al plotone che aveva seguito.
253. La Corte reputa che le indagini avrebbero dovuto concernere almeno questi aspetti dell'organizzazione e della gestione delle operazioni di mantenimento dell'ordine pubblico, poiché vede uno stretto legame tra lo sparo mortale e la situazione nella quale M.P. e F.C. si sono ritrovati. In altre parole, le indagini non sono state adeguate nella misura in cui non hanno ricercato quali fossero le persone responsabili di detta situazione.
254. Pertanto, vi è stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione sotto l’aspetto procedurale.
255. Essendo giunta a questa conclusione, la Corte non ritiene di dover esaminare le altre lacune nelle indagini addotte dei ricorrenti, in particolare la mancanza di indipendenza degli inquirenti e dei consulenti.
II. SULL’ADDOTTA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 3 DELLA CONVENZIONE
256. Sotto il profilo dell’articolo 3 della Convenzione, i ricorrenti adducono che l’assenza di soccorsi immediati dopo lo stramazzo a terra di Carlo Giuliani e il passaggio della jeep sul suo corpo hanno contribuito al suo decesso e costituito un trattamento inumano.
257. L’articolo 3 della Convenzione dispone:
« Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti ».
258. Il Governo sostiene che questo motivo di ricorso è manifestamente infondato, dal momento che, secondo il rapporto di autopsia, il passaggio del veicolo sul corpo di Carlo Giuliani era stato senza gravi conseguenze per quest’ultimo e i tentativi di soccorrere la vittima immediati.
259. I ricorrenti contestano tale tesi e rinviano ai succitati principi nn. 5 e 8 dell’ONU.
260. La Corte ritiene che il comportamento delle forze dell’ordine non sia tale da consentire di dedurne l’intento di infliggere dolori o sofferenze a Carlo Giuliani (Makaratzis, succitata, § 53). Tenuto conto delle circostanze del presente caso, essa ritiene che i fatti addotti richiedano un esame sotto il profilo dell’articolo 2 della Convenzione, esame al quale si è dedicata poc’anzi (precedenti paragrafi 214-244).
261. Pertanto, non è necessario esaminare il caso sotto il profilo dell’articolo 3 della Convenzione.
III. SULL’ADDOTTA VIOLAZIONE DEGLI ARTICOLI 6 E 13 DELLA CONVENZIONE
262. I ricorrenti lamentano di non avere beneficiato di un’inchiesta conforme alle esigenze procedurali derivanti dagli articoli 6 e 13 della Convenzione.
Il brano pertinente dell’articolo 6 della Convenzione dispone:
« Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole, da un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge, il quale si pronuncerà sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile (…) »
L’articolo 13 della Convenzione recita:
« Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella (…) Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali. »
263. I ricorrenti sostengono che, alla luce dei risultati contraddittori ed incompleti dell’inchiesta, il caso richiedeva approfondimenti, nell’ambito di un vero e proprio dibattimento in contraddittorio. Ora, essi non hanno disposto di alcuna via giuridica in grado di far loro ottenere una tale inchiesta.
264. Il Governo chiede alla Corte di affermare che nessuna questione distinta si pone sotto il profilo degli articoli 6 e 13 della Convenzione o che tali disposizioni non sono state violate, tenuto conto della conduzione dell’inchiesta e della partecipazione dei ricorrenti alla stessa.
265. La Corte osserva che il motivo di ricorso relativo all’articolo 6 § 1 della Convenzione è legato indissolubilmente alla doglianza dei ricorrenti relativa alle modalità di trattamento del decesso di Carlo Giuliani da parte delle autorità incaricate dell’inchiesta e alle ripercussioni di tali modalità sull’accesso a ricorsi effettivi che avrebbero consentito ai ricorrenti di fare riparare il danno causato loro dalla tragedia. E’ quindi opportuno esaminare il motivo di ricorso relativo all’articolo 6 in relazione con l’obbligo più generale derivante per gli Stati contraenti dall’articolo 13 della Convenzione, secondo il quale essi devono offrire un ricorso effettivo per le violazioni della Convenzione, ivi compreso dell’articolo 2 (si veda, mutatis mutandis, Aksoy c/Turchia, 18 dicembre 1996, §§ 93-94, Raccolta 1996‑VI).
266. Tenuto conto delle circostanze del presente caso e del ragionamento che l’ha portata a constatare una violazione dell’articolo 2 della Convenzione sul piano procedurale (precedente paragrafo 254), la Corte ritiene che il caso non vada esaminato sotto il profilo dell’articolo 13.
IV. SULL’ADDOTTA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 38 DELLA CONVENZIONE
267. I ricorrenti criticano l’atteggiamento del Governo durante il procedimento dinanzi alla Corte e lo accusano di non avere cooperato sufficientemente ai sensi dell’articolo 38 della Convenzione. Da un lato, il Governo avrebbe fornito risposte false o incomplete (ad esempio, in merito all’esperienza professionale dei carabinieri presenti a bordo della jeep o alla presenza di uno scudo nel veicolo), dall’altro, esso avrebbe omesso di precisare alcune circostanze fondamentali (in particolare non fornendo l’elenco della struttura di comando del servizio d’ordine fino al vertice; non precisando i criteri di selezione degli agenti che potevano essere dispiegati durante operazioni di mantenimento e ristabilimento dell’ordine pubblico; non producendo i fogli matricolari dei carabinieri interessati; omettendo di presentare gli ordini che il funzionario di polizia Lauro e gli ufficiali responsabili della compagnia avevano ricevuto dai superiori; non fornendo alcuna indicazione sull’identità della persona che aveva ordinato l’attacco al corteo dei manifestanti « Tute bianche », attacco che ha preceduto i fatti accaduti in piazza Alimonda; omettendo di produrre le trascrizioni delle comunicazioni radio pertinenti).
268. Il Governo osserva di avere il « sacrosanto » diritto di difendersi e di avere comunque messo a disposizione della Corte tutte le informazioni utili. Quanto alle informazioni relative all’assalto contro il corteo delle « Tute bianche », va osservato che l’episodio non è in relazione con gli avvenimenti al centro del ricorso.
269. La Corte rammenta che, per il buon funzionamento del sistema di ricorso individuale previsto dall’articolo 34 della Convenzione, è fondamentale che gli Stati forniscano tutto l’aiuto necessario a consentire un esame effettivo dei ricorsi (Tanrıkulu, succitata, § 70). La mancata messa a disposizione della Corte, senza una valida spiegazione, delle informazioni pertinenti di cui dispone uno Stato espone quest’ultimo non solo a conseguenze quanto alla fondatezza delle accuse della parte ricorrente, ma anche alla constatazione d’inosservanza dell’articolo 38 § 1 a) della Convenzione. Le stesse conseguenze si applicano ad uno Stato che fornisca informazioni in ritardo (Bazorkina c/Russia, n. 69481/01, § 171, 27 luglio 2006).
270. Nella fattispecie, anche se le informazioni fornite dal Governo in merito ai punti sopra elencati non sono esaurienti, la Corte ritiene che l’incompletezza di tali informazioni non le abbia impedito di esaminare il caso di specie.
271. Pertanto, essa conclude che lo Stato convenuto non ha contravvenuto agli obblighi derivanti dall’articolo 38 della Convenzione.
V. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
272. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,
« Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente permette di riparare solo in parte alle conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa. »
A. Danni
273. I ricorrenti chiedono alla Corte di concedere loro una somma equa per il danno morale subito. Si rimettono alla saggezza della Corte e precisano che la somma sarà devoluta ad una fondazione per la difesa dei diritti umani che intendono creare in memoria di Carlo Giuliani.
274. Il Governo ritiene che ai ricorrenti non sia dovuta alcuna somma in quanto essi non hanno quantificato le loro richieste a titolo di equa soddisfazione.
275. Deliberando secondo equità, la Corte concede 15.000 euro (EUR) al sig. Giuliano Giuliani, 15.000 EUR alla sig.ra Adelaide Gaggio (coniugata Giuliani) e 10.000 EUR alla sig.ra Elena Giuliani.
B. Spese
276. I ricorrenti chiedono alla Corte di deliberare secondo equità per concedere loro una somma a titolo di rimborso delle spese sostenute nell’ambito del procedimento a Strasburgo. Precisano che anche tale somma sarà devoluta alla fondazione per la difesa dei diritti umani.
277. Il Governo ritiene che ai ricorrenti non sia dovuta alcuna somma in quanto essi non hanno quantificato le loro richieste a titolo di rimborso delle spese.
278. In assenza di giustificativi pertinenti, la Corte rigetta la domanda di rimborso delle spese relative al procedimento a Strasburgo.
C. Interessi moratori
279. La Corte ritiene appropriato basare il tasso degli interessi moratori sul tasso d’interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE
1. Dichiara, all’unanimità, che non vi è stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione sul piano materiale per quanto riguarda l’uso eccessivo della forza;
2. Dichiara, con cinque voti contro due, che non vi è stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione sul piano materiale per quanto riguarda gli obblighi positivi di tutelare la vita;
3. Dichiara, con quattro voti contro tre, che vi è stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione sul piano procedurale;
4. Dichiara, all’unanimità, non doversi esaminare il caso sotto il profilo dell’articolo 3 della Convenzione;
5. Dichiara, all’unanimità, non doversi esaminare il caso sotto il profilo degli articoli 6 e 13 della Convenzione;
6. Dichiara, all’unanimità, che non vi è stata violazione dell’articolo 38 della Convenzione;
7. Dichiara, all’unanimità,
a) che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro tre mesi a partire dal giorno in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, le seguenti somme:
i. per i ricorrenti Giuliano Giuliani e Adelaide Gaggio:
– a ciascuno 15.000 EUR (quindicimila euro), oltre ad ogni importo che possa essere dovuto a titolo d’imposta, per il danno morale, e
ii. per la ricorrente Elena Giuliani:
– 10.000 EUR (diecimila euro), oltre ad ogni importo che possa essere dovuto a titolo d’imposta, per il danno morale;
b) che, a partire dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice ad un tasso uguale a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;
8. Rigetta, all’unanimità, la domanda di equa soddisfazione nel resto.
Redatta in francese e in inglese, poi comunicata per iscritto il 25 agosto 2009, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.
Lawrence Early Nicolas Bratza
Cancelliere Presidente
Alla presente sentenza è allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, l’esposizione delle seguenti opinioni dissenzienti:
- opinione parzialmente dissenziente del giudice Bratza alla quale aderisce il giudice Šikuta;
- opinione parzialmente dissenziente comune dei giudici Casadevall e Garlicki;
- opinione parzialmente dissenziente del giudice Zagrebelsky.
N.B.
T.L.E.
OPINIONE PARZIALMENTE DISSENZIENTE DEL GIUDICE BRATZA ALLA QUALE ADERISCE IL GIUDICE ŠIKUTA
(Traduzione )
1. Condivido il parere della maggioranza della camera secondo il quale, nel caso di specie, vi è stata violazione degli obblighi procedurali dello Stato convenuto derivanti dall’articolo 2 della Convenzione, per i motivi esposti in sentenza. Tuttavia, non posso condividere il parere della maggioranza secondo il quale non vi è stata violazione degli obblighi materiali dello Stato risultanti dalla stessa disposizione. A mio parere, il decesso di Carlo Giuliani è conseguenza dell’inadempimento da parte delle autorità nazionali dell’obbligo di tutelare il suo diritto alla vita conformemente alle esigenze dell’articolo in questione.
i. L’obbligo materiale derivante dall’articolo 2
2. I principi generali che reggono l’interpretazione e l’applicazione dell’articolo 2 sono esposti fedelmente nei paragrafi 205-214 della sentenza della camera. Completerò il riepilogo sottolineando due punti. In primo luogo, l’articolo 2 contiene, oltre al divieto del ricorso alla forza che non sia assolutamente necessario per raggiungere uno degli scopi di cui alle lettere a), b) e c) del paragrafo 2 dell’articolo, un obbligo positivo per lo Stato, in virtù della prima frase di tale articolo, di tutelare la vita. In caso di forza letale usata nell’ambito di un’operazione di polizia o militare, è necessario accertare non solo se il ricorso ad una tale forza fosse legittimo, ma anche se l’operazione controversa fosse delimitata da regole ed organizzata in modo da ridurre il più possibile il rischio di privare della vita le persone interessate (si veda, ad esempio, Şimşek e altri c/Turchia, nn. 35072/97 e 37194/97, § 106, 26 luglio 2005). In secondo luogo, la Corte è consapevole della sussidiarietà del suo ruolo e deve mostrarsi prudente nell’assumere quello di giudice di primo grado chiamato a conoscere dei fatti, quando le circostanze di un determinato caso non glielo impongano. Se vi è stato un procedimento interno, non compete alla Corte di sostituire la sua visione dei fatti a quella delle corti e dei tribunali nazionali, ai quali spetta, in linea di principio, di valutare gli elementi da loro stessi raccolti. Anche se non è vincolata dalle loro constatazioni di fatto, normalmente la Corte deve essere in possesso di elementi convincenti per potersene discostare. Tuttavia, essa deve mostrarsi particolarmente vigile quando siano addotte violazioni degli articoli 2 e 3 della Convenzione, anche se a livello interno i procedimenti e le inchieste hanno avuto già luogo (Şimşek e altri, succitata, § 102).
3. Basandosi sulle conclusioni fattuali del pubblico ministero e del giudice per le indagini preliminari, il Governo ritiene che non sia stata accertata alcuna violazione materiale dell’articolo 2. Argomenta innanzitutto che non esiste alcun nesso di causalità tra il colpo sparato da M.P. e il decesso di Carlo Giuliani. Ritiene infatti che la pallottola abbia colpito la vittima solo per un caso del tutto eccezionale ed imprevedibile. A suo dire, il decesso non è il risultato di un ricorso intenzionale e diretto di M.P. ad una forza potenzialmente letale. M.P. avrebbe infatti sparato in aria e il nesso di causalità tra la sua azione e gli effetti di tale azione sarebbe stato interrotto dalla collisione imprevedibile ed incontrollabile tra la pallottola ed una pietra, collisione che avrebbe modificato la traiettoria del proiettile. Il Governo afferma poi che, anche qualora esistesse un nesso di causalità e una conseguente responsabilità dello Stato, il ricorso alla forza letale per tutelare i passeggeri della jeep da una violenza illegale era « assolutamente necessario » e « proporzionato ». Infine, il Governo sostiene che non vi è stato da parte delle autorità nazionali alcun inadempimento dell’obbligo di tutelare il diritto alla vita di Carlo Giuliani in conseguenza di una cattiva pianificazione delle operazioni che hanno portato al decesso, dal momento che le autorità hanno fatto tutto quanto era in loro potere per impedire che una manifestazione pacifica degenerasse in violenza.
4. Il pubblico ministero ha esaminato espressamente l’ipotesi dell’interruzione della catena di causalità ed ha rigettato esplicitamente tale teoria, ritenendo che la collisione tra la pallottola e la pietra non fosse tale da interrompere il nesso di causalità tra l’atto di M.P. e il decesso di Carlo Giuliani. Per lui, la questione fondamentale era sapere se M.P. avesse agito per legittima difesa (paragrafo 83 della sentenza). Il giudice per le indagini preliminari non ha preso in esame tale teoria. Anche se nella sua decisione ha parlato della deviazione della pallottola come di un « fattore assolutamente imprevedibile » e del decesso di Carlo Giuliani come del risultato di una « tragica fatalità », dal contesto emerge chiaramente che il giudice non insinuava che vi fosse stata un’interruzione del nesso di causalità ma si chiedeva se fossero soddisfatte le condizioni dell’articolo 53 del codice penale e se, nelle circostanze del caso, l’uso da parte di M.P. della sua arma da fuoco avesse costituito una reazione necessaria e proporzionata.
5. Indipendentemente dal fatto che la tesi del Governo sia suffragata dal ragionamento del giudice per le indagini preliminari o meno, non posso assolutamente condividere l’argomentazione secondo la quale la deviazione della traiettoria della pallottola dopo la collisione con una pietra o un altro oggetto solido era tale da interrompere il nesso di causalità e quindi liberare lo Stato dalla sua responsabilità quanto al decesso. Per interrompere una catena di causalità, la causa nuova deve, a mio parere, essere sufficientemente potente ed inattesa da far sì che la condotta della persona interessata non possa in nessun caso essere considerata come una causa, bensì tutt’al più come un elemento del complesso delle circostanze del caso. Il fattore in questione poteva essere ragionevolmente previsto. Pertanto, esso non può di per sé essere considerato come un novus actus interveniens – un evento nuovo – che interrompe il nesso di causalità ed isola l’atto iniziale dal risultato finale.
6. Le circostanze del caso sono a mio parere molto lontane da quelle di un vero e proprio novus actus. L’atto di M.P., vale a dire il fatto di impugnare una pistola carica e sparare, era fondamentalmente pericoloso. M.P. era acquattato sul fondo della jeep. La jeep era accerchiata da una folla di manifestanti che la bombardavano di sassi ed altri oggetti ed erano così vicini da poter conficcare un’asse di legno e un estintore nel lunotto in frantumi e ferire M.P. La visibilità di M.P. dalla parte posteriore della jeep era offuscata (stando al suo racconto, egli sapeva che « centinaia di manifestanti » circondavano la jeep, ma, al momento dello sparo, nessuno era in vista ed egli non aveva notato la presenza di Carlo Giuliani dietro la jeep né prima né dopo lo sparo). Inoltre, le fotografie scattate al momento dei fatti mostrano chiaramente che ad un certo punto M.P. ha puntato la pistola orizzontalmente in direzione dei manifestanti al fine di proteggersi dagli aggressori. Anche se, come hanno valutato i giudici nazionali, l’arma era rivolta verso l’alto quando M.P. ha sparato, è esistito perlomeno – come ritenuto dal giudice per le indagini preliminari – il rischio che la pallottola colpisse una delle persone presenti. A mio avviso, era altrettanto chiaramente prevedibile che, se anche non avesse colpito direttamente nessuno dei manifestanti, la pallottola avrebbe tuttavia rischiato di rimbalzare su uno degli oggetti lanciati o branditi dai manifestanti uccidendo o ferendo gravemente qualcuno. I ricorrenti sostengono che la pallottola non ha mai impattato con una pietra e che, stando agli elementi fotografici e ad altri elementi, lungi dallo sparare in aria, M.P. ha sparato direttamente verso Carlo Giuliani mirando dall’alto verso il basso. Tuttavia, anche ammettendo i fatti quali accertati dal pubblico ministero e dal giudice, la deviazione della pallottola dopo la collisione con una pietra non può, viste le circostanze, essere considerata un elemento straordinario ed imprevedibile tale da interrompere il nesso di causalità.
7. Il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto non soltanto che l’uso di un’arma da parte di M.P. fosse stato giustificato rispetto all’articolo 53 del codice penale, in quanto necessario per respingere un atto di violenza, ma anche che la morte di Carlo Giuliani fosse risultata dall’atto legittimo di una persona che aveva voluto difendersi e difendere altri, ai sensi dell’articolo 52 del codice, essendo stato lo sparo al tempo stesso « necessario » e « proporzionato » alla minaccia. Stando ai ricorrenti, le conclusioni del giudice non costituiscono una base solida tale da consentire di concludere che le esigenze dell’articolo 2 § 2 della Convenzione sono state soddisfatte. A loro parere, infatti, i criteri relativi all’uso delle armi da fuoco posti dall’articolo 53 del codice penale – disposizione risalente agli anni ‘30 – non corrispondono alle moderne norme internazionali riconosciute, in particolare ai Principi di base dell’ONU sul ricorso alla forza e all’impiego delle armi da fuoco da parte dei responsabili dell’applicazione delle leggi, già evocati nella giurisprudenza della Corte; inoltre, i concetti di « necessità » e « proporzionalità » contenuti nell’articolo 52 del codice penale non equivarrebbero alla formula « assolutamente necessario » che figura all’articolo 2 § 2 o ai termini « assolutamente inevitabile per tutelare vite umane » o « strettamente proporzionato [alle circostanze] », utilizzati nella giurisprudenza della Corte relativa a questo articolo. I ricorrenti si basano anche sulle lacune della stessa inchiesta, esaminate nel quadro degli obblighi procedurali dello Stato derivanti dall’articolo 2. Inoltre, essi contestano in ogni caso la conclusione del giudice secondo la quale M.P. ha agito per legittima difesa, argomentando che, viste le circostanze del caso, gli occupanti della jeep non erano in una situazione di pericolo tale da giustificare il ricorso alla forza letale. Essi si trovavano infatti a bordo di un veicolo solido ed erano protetti da uno scudo, da giubbotti antiproiettile e da caschi; i manifestanti erano relativamente poco numerosi e privi di armi letali; le ferite di M.P. e D.R. non erano gravi; numerosi altri agenti di polizia e carabinieri si trovavano nelle immediate vicinanze della jeep e sarebbero potuti andare in loro soccorso, se necessario.
8. Non sono sicuro che la Corte debba rigettare o considerare con circospezione le conclusioni del giudice per le indagini preliminari per l’uno o l’altro dei motivi invocati dai ricorrenti. Come detto precedentemente dalla Corte, la Convenzione non obbliga le Parti contraenti ad inserire le sue disposizioni nel loro ordinamento nazionale, e il ruolo della Corte non consiste nell’esaminare in astratto la compatibilità delle disposizioni legislative o costituzionali interne con le esigenze della Convenzione (McCann e altri c/Regno Unito, 27 settembre 1995, § 153, serie A n. 324). Sebbene il criterio pertinente della « necessità assoluta », relativo all’articolo 2 § 2 della Convenzione, sembri a prima vista più stretto di quello previsto nel diritto interno, trovo che la differenza tra i due non sia enorme nel caso di specie. Oggettivamente, dalla decisione del giudice emerge che è stato applicato un criterio stretto di necessità. Il giudice ha infatti concluso non solo che l’uso dell’arma da fuoco era stato nella fattispecie « assolutamente indispensabile », ma anche che il fatto di sparare aveva costituito un atto proporzionato tenuto conto delle circostanze del caso – in quanto era il solo modo di cui disponeva M.P. per proteggersi e proteggere il suo collega dagli atti estremamente violenti rivolti contro di loro -, e che, sparando in aria, M.P. aveva cercato di ridurre il più possibile i rischi per gli aggressori.
9. E’ vero che nelle misure d’indagine vi sono state lacune che hanno portato alla decisione di chiudere l’inchiesta penale relativa a M.P. e F.C., lacune che la maggioranza della Corte ha giudicato tali da avere determinato la violazione degli obblighi procedurali dello Stato in virtù dell’articolo 2. Nonostante tali lacune, il pubblico ministero e il giudice per le indagini preliminari sembrano avere studiato approfonditamente le circostanze in cui M.P. ha fatto fuoco. In particolare, sia il pubblico ministero sia il giudice hanno esaminato accuratamente gli elementi di prova a loro disposizione – testimonianze oculari e perizie – prima di concludere che M.P. aveva agito per legittima difesa. Inoltre, il giudice ha motivato pienamente la decisione di scartare la diversa versione dei ricorrenti sul modo in cui la pallottola aveva colpito Carlo Giuliani così come la loro domanda di supplemento d’inchiesta.
10. Rimane da sapere se la conclusione delle autorità giudiziarie nazionali secondo la quale M.P. ha agito per legittima difesa possa giustificarsi alla luce degli elementi a disposizione della Corte. Argomentare, come hanno fatto i ricorrenti, che non è stato dimostrato oggettivamente che i manifestanti minacciavano la vita degli occupanti della jeep e che pertanto non si può affermare che M.P. ha agito per legittima difesa equivale, a mio avviso, ad imporre un criterio troppo stretto. La giurisprudenza della Corte ha stabilito che la questione se l’uso della forza fosse assolutamente necessario per assicurare la difesa di una persona contro una violenza illegale deve essere valutata alla luce non solo della situazione considerata nel suo complesso, ma anche della percezione soggettiva della persona che ha fatto ricorso alla forza letale in un determinato momento. Così, per raggiungere uno degli obiettivi enunciati all’articolo 2 § 2 della Convenzione, il ricorso alla forza può giustificarsi rispetto a tale disposizione quando sia basato su un convincimento onesto ritenuto, per buoni motivi, valido all’epoca dei fatti, ma in seguito rivelatosi erroneo. Affermare il contrario « imporrebbe allo Stato e ai suoi agenti incaricati dell’applicazione delle leggi un onere irrealistico che rischierebbe di essere esercitato a spese della loro vita e di quella altrui » (McCann e altri, succitata,§ 200; Bubbins c/Regno Unito, n. 50196/99, §§ 138-140, CEDU 2005‑II). Nello stesso ordine di idee, la Corte ha dichiarato di non potere sostituire la sua valutazione della situazione a quella di un agente incaricato dell’applicazione delle leggi che ha dovuto reagire, nel fuoco dell’azione, ad un pericolo per la sua vita e per quella altrui.
11. Nonostante i diversi elementi che secondo i ricorrenti fanno dubitare della realtà e della gravità del pericolo corso dai passeggeri della jeep, non vedo motivi per rimettere in discussione le conclusioni delle autorità giudiziarie nazionali, secondo le quali l’impressione di M.P. che la sua vita e quella di D.R. fossero in pericolo si fondava su buoni motivi, e lo sparo di per sé non ha dato luogo ad una violazione dell’articolo 2. Inoltre condivido il parere del pubblico ministero e del giudice per le indagini preliminari –basato sugli elementi di cui disponevano, in particolare sul rapporto di autopsia – secondo il quale la retromarcia di F.C. sul corpo di Carlo Giuliani non ha causato lesioni interne e non ha contribuito al decesso, il quale si deve esclusivamente alla ferita alla testa causata dalla pallottola.
12. Rimane tuttavia da stabilire se le misure di organizzazione e controllo delle operazioni all’origine della situazione di crisi in cui M.P. si è venuto a trovare ed ha fatto ricorso alla forza letale abbiano osservato l’obbligo imposto dall’articolo 2 di tutelare il diritto alla vita (McCann e altri, succitata,§§ 200 e 201). E’ su questo aspetto che mi discosto dal punto di vista della maggioranza della Corte. Del resto, le inchieste del pubblico ministero e del giudice per le indagini preliminari, limitatesi all’esame della responsabilità penale di M.P. e di F.C., non aiutano a chiarire la questione. Né il pubblico ministero né il giudice hanno studiato realmente la pianificazione generale delle operazioni di sicurezza e l’operazione particolare che ha portato più direttamente al « naufragio » della jeep a bordo della quale si trovava M.P., in piazza Alimonda, e alla morte di Carlo Giuliani. I ricorrenti criticano duramente questi due aspetti. Quanto alla pianificazione generale, le critiche riguardano più precisamente alcuni elementi: la modifica dei piani, il 19 luglio 2001 - vigilia degli avvenimenti -, che sembra avere attribuito ai carabinieri una funzione dinamica mentre in precedenza essi avrebbero avuto fondamentalmente un ruolo statico, cambiamento comunicato solo verbalmente ai capi, tra i quali Lauro, il quale ne è venuto a conoscenza solo la mattina del 20 luglio; il fatto che i carabinieri non siano stati informati adeguatamente di un altro cambiamento nell’ordine di servizio del 19 luglio 2001, vale a dire la decisione di autorizzare il corteo delle « Tute bianche »; la selezione e la formazione degli effettivi, spiegata argomentando che i carabinieri erano agli ordini di persone con esperienza nel campo delle missioni di polizia militare internazionale all’estero ma prive di esperienza in materia di mantenimento e ristabilimento dell’ordine pubblico; la scelta delle armi affidate ai carabinieri, vale a dire armi da fuoco dotate di pallottole di piombo e non di gomma; infine, il sistema di comunicazione scelto, che consentiva unicamente gli scambi con i centri di comando della polizia e dei carabinieri, ma non i contatti radio tra agenti di polizia e carabinieri. Il Governo ritiene che eventuali errori o disfunzioni nella pianificazione, direzione e conduzione delle operazioni di sicurezza non possano essere considerati come causa diretta della tragedia accaduta in piazza Alimonda. Dubito fortemente che ciò sia vero, almeno per quanto riguarda l’inadempimento del dovere di informare adeguatamente i carabinieri che il corteo delle « Tute bianche » era stato autorizzato. Anche ammettendo di potere affermare che la pianificazione generale del complesso delle operazioni di sicurezza non ha avuto conseguenze dirette sui fatti che hanno portato al decesso di Carlo Giuliani, altrettanto non può affermarsi, a mio avviso, della gestione e del controllo degli avvenimenti accaduti subito prima che la jeep si ritrovasse bloccata in piazza.
13. Su tali avvenimenti si è potuto fare luce grazie alle testimonianze rese nel corso del « processo dei 25 » e alla sentenza pronunciata all’esito di tale processo dal tribunale di Genova il 13 marzo 2008. In sintesi, gli elementi a disposizione della Corte, in particolare la suddetta sentenza, fanno emergere i seguenti fatti:
i. Verso le ore 14.50, il corteo delle « Tute bianche » arrivò in via Tolemaide. Poco dopo, i carabinieri del battaglione Lombardia lo attaccarono con lacrimogeni e sfollagente, a quanto pare ignorando che il corteo era stato autorizzato dall’ordine di servizio modificato il giorno prima. Come reazione, i manifestanti cominciarono a lanciare bottiglie di vetro e contenitori dei rifiuti all’indirizzo delle forze dell’ordine. Alcuni veicoli blindati guidati da carabinieri arrivarono a gran velocità e sfondarono le barricate innalzate dai manifestanti. Poco prima delle ore 15.30, la centrale operativa ordinò ai carabinieri di ritirarsi e di lasciare passare il corteo delle « Tute bianche ». Alcuni manifestanti organizzarono una risposta violenta, incendiando uno dei blindati. Il tribunale di Genova ha giudicato che, fino alle ore 15.30, la condotta dei carabinieri era stata illegale ed arbitraria ed aveva giustificato la resistenza dei manifestanti. Esso ha ritenuto tuttavia che il comportamento di questi ultimi dopo il ritiro dei carabinieri non fosse più giustificato dal momento che i carabinieri avevano posto fine all’assalto illegale ed arbitrario; pertanto, anche se i manifestanti avevano continuato ad avere la sensazione di essere stati vittime di abusi ed ingiustizie, la loro condotta in quella fase non poteva più essere ritenuta difensiva, ma piuttosto motivata da un desiderio di vendetta.
ii. Durante questi avvenimenti, e dopo uno scontro con i manifestanti, un contingente della compagnia ECHO, di cui faceva parte M.P., si ritirò nella calma relativa di piazza Alimonda e si riorganizzò. Ad un certo punto, il contingente fu raggiunto dalle due jeep Defender, una assegnata alla compagnia ECHO e l’altra al tenente colonnello Truglio. Nessuno dei due veicoli era blindato né munito di griglie di protezione sui finestrini laterali posteriori e sul lunotto. Stando al Governo, la jeep della compagnia ECHO guidata da F.C. non era utilizzata nelle operazioni di mantenimento dell’ordine – per le quali si utilizzavano veicoli blindati di altro tipo –, ma serviva unicamente al sostegno logistico; sempre secondo il Governo, la jeep era stata mandata in piazza Alimonda per recuperare M.P. e D.R., sofferenti a causa dell’esposizione prolungata al gas lacrimogeno. Il capitano Cappello autorizzò M.P. e D.R. a salire sul veicolo. Stando agli elementi di prova non contestati, M.P. era giovane e inesperto – in servizio come carabiniere ausiliario da circa dieci mesi –, per giunta risentiva degli effetti del gas lacrimogeno, mostrava segni d’intolleranza alla maschera antigas, aveva problemi di respirazione ed era estremamente nervoso. Stando al capitano Cappello, egli era inidoneo a proseguire il servizio, psicologicamente « a terra » ed « esausto ». Cappello aveva ritirato a M.P. il lancialacrimogeni e la borsa portalacrimogeni, non l’arma né le munizioni. Nonostante le difficoltà respiratorie e il nervosismo, M.P. non aveva ricevuto cure mediche. Secondo il Governo, era quello il motivo dichiarato dell’invio della jeep in piazza Alimonda. Lo stesso M.P. ha affermato di non avere compreso perché non lo avessero portato in ospedale. Invece di ricevere soccorso, egli era rimasto nella parte posteriore della jeep insieme a D.R., anche lui sofferente di tensione nervosa e degli effetti del gas lacrimogeno.
iii. Verso le ore 17.20, il contingente della compagnia ECHO, costituito da cinquanta-cento uomini, ricevette da Lauro l’ordine di risalire via Caffa in direzione di via Tolemaide, per aiutare ad affrontare alcuni manifestanti che avevano adottato un atteggiamento molto aggressivo e collocato dei cassonetti all’incrocio con via Caffa. Il capitano Cappello ha dichiarato più tardi di essere rimasto perplesso di fronte a quell’ordine, essendo a conoscenza del numero e della stanchezza dei suoi uomini nonché della totale assenza di veicoli blindati a loro protezione. Come sottolineato dai ricorrenti, queste dichiarazioni non collimano con l’affermazione di Lauro secondo la quale, prima di avanzare verso via Tolemaide, egli avrebbe chiesto al capitano Cappello se i suoi uomini fossero in grado di far fronte alla situazione ed avrebbe ricevuto una risposta affermativa.
iv. Le due jeep Defender, una delle quali aveva ancora a bordo M.P. e D.R., seguirono i membri dell’unità che risalivano a piedi via Caffa, muniti di maschere antigas e di scudi. Nessuno sa esattamente chi, eventualmente, abbia dato l’ordine. F.C., il conducente della jeep assegnata alla compagnia ECHO, ha dichiarato nel corso del « processo dei 25 » di essere stato incaricato di « chiudere la marcia dei colleghi a piedi ». Il sottotenente Zappia, vice del capitano Cappello, ha assicurato che le due jeep si erano mosse insieme per evitare di ritrovarsi isolate e che le istruzioni erano state impartite dal capitano Cappello e da Lauro, i quali erano in testa al contingente. Ora, Lauro e Cappello hanno entrambi negato di essersi mai accorti che le jeep seguivano l’unità. Lauro ha affermato che le jeep non avrebbero dovuto trovarsi là. Quanto al capitano Cappello, egli ha affermato che se avesse saputo che esse li seguivano, le avrebbe « rimandate direttamente indietro ». A suo dire, i veicoli non avevano ricevuto da lui alcuna istruzione di seguire il contingente in marcia in quanto sarebbe stato « un suicidio », ogni veicolo che si sposta con un contingente deve infatti essere blindato per potere fornire il necessario sostegno. Lo stesso M.P. ha dichiarato di non avere compreso come mai la jeep avesse seguito il contingente della compagnia ECHO invece di portarlo in ospedale.
v. In via Tolemaide, il contingente fu oggetto di una forte risposta da parte dei manifestanti i quali, al riparo dietro una barricata di cassonetti, lanciavano sui carabinieri pietre ed altri oggetti. Il contingente fu costretto a ripiegare in ordine sparso in direzione di piazza Alimonda, lasciando dietro di sé le due jeep esposte e non protette. I veicoli fecero retromarcia. Cercando di fare dietro front per battere in ritirata, la jeep guidata da F.C. urtò contro un cassonetto rovesciato e rimase incastrata; il motore si spense. Subito il veicolo fu raggiunto ed accerchiato dai manifestanti i quali, armati di pietre, bastoni, spranghe di ferro ed altri oggetti, attaccarono i due passeggeri che si trovavano nella parte posteriore. E’ difficile stabilire dove fossero gli altri membri del contingente durante l’assalto alla jeep che ha portato al decesso di Carlo Giuliani. Il Governo ha affermato che al momento dei fatti vi erano all’incirca cinquanta carabinieri a un 150 metri dalla jeep e una squadra volante della Polizia di Stato posizionata in piazza Tommaseo, a circa 250 metri. E’ stato inoltre affermato che la centrale operativa non aveva ricevuto alcuna richiesta di aiuto. Queste informazioni sono contestate dai ricorrenti secondo i quali, stando ai documenti fotografici e al rapporto sommario, il tenente Truglio era a circa 10 metri da piazza Alimonda e il resto della compagnia ECHO – vale a dire un centinaio di uomini – poco più distante. Ciò è confermato dalle testimonianze rese nel corso del « processo dei 25 » dall’ufficiale Mirante e dal sottotenente Zappia, secondo i quali le jeep si trovavano rispettivamente a 30 e 20 metri da loro. Quel che è chiaro ed incontestato è che i membri della compagnia ECHO e la polizia non hanno fatto niente per soccorrere la jeep Defender, che era fatta oggetto di un violento assalto ed aveva a bordo due persone debilitate e vulnerabili, rannicchiate nella parte posteriore, situazione in cui era reale il pericolo di morte non solo per gli stessi carabinieri, ma anche per i manifestanti qualora i carabinieri fossero stati costretti ad utilizzare le loro armi per difendersi.
14. La maggioranza della camera ammette che la gestione delle operazioni da parte delle autorità nazionali solleva un certo numero di interrogativi, ai quali né l’inchiesta condotta a livello interno né gli altri elementi a disposizione della Corte hanno consentito di rispondere. La maggioranza ritiene tuttavia che sia necessario tenere conto del fatto che gli avvenimenti in questione si sono verificati in un breve lasso di tempo e al termine di una lunga giornata di operazioni di mantenimento dell’ordine, giornata durante la quale i servizi incaricati dell’applicazione delle leggi sono stati messi a dura prova da situazioni pericolose in cui tutto precipitava. La maggioranza dichiara inoltre che la carica contro i manifestanti ordinata da Lauro era il risultato di una decisione operativa giustificata e legata alla percezione dei rischi, in funzione dell’evoluzione della situazione, e che era impossibile prevedere gli avvenimenti di piazza Alimonda. Più in generale, la maggioranza ritiene che, stante l’assenza di un’inchiesta nazionale in merito, la Corte sia impossibilitata ad accertare l’esistenza di un nesso diretto ed immediato tra le lacune che possono avere viziato la preparazione e la conduzione dell’operazione di mantenimento dell’ordine e la morte di Carlo Giuliani.
15. Non contesto che la decisione di ricorrere alla compagnia ECHO per caricare i manifestanti fosse giustificata sul piano operativo. Quel che invece solleva gravi interrogativi è il fatto che le due jeep – una delle quali aveva a bordo un carabiniere armato e debilitato fisicamente e psicologicamente – fossero state autorizzate a seguire l’unità e a partecipare ad un operazione per la quale palesemente non erano attrezzate. Se, da un lato, i fatti precisi verificatisi in piazza Alimonda non erano prevedibili, dall’altro, a mio avviso era invece assolutamente prevedibile che, in una situazione di estrema tensione quale quella che si viveva in quel momento e in quel luogo, la vita degli occupanti della jeep e quella dei manifestanti fossero in pericolo. Per lo stesso motivo, e anche se la Corte è stata, ahimé, privata del beneficio delle conclusioni di un’inchiesta interna effettiva sui fatti all’origine del decesso, non posso accettare che sia impossibile stabilire alcun nesso tra, da un lato, le lacune nel controllo e nella gestione dei fatti verificatisi subito prima della disavventura della jeep Defender e, dall’altro, la morte di Carlo Giuliani.
16. In merito al primo elemento di valutazione invocato dalla maggioranza della Corte, tengo a dire che sono ben consapevole delle grandi difficoltà incontrate dalle autorità nazionali nella pianificazione e conduzione di una vasta operazione di sicurezza in occasione del vertice del G8, trasformatosi in teatro di gravi disordini e di atti estremamente violenti. Ho anche ben presente l’esortazione del Governo ad evitare di sostituire il proprio parere sul modo migliore di gestire le operazioni a quello dei responsabili presenti sul posto, e non dimentico quanto sia rischioso affidarsi alla saggezza retrospettiva. Tuttavia, anche tenendo conto dei problemi che le autorità hanno dovuto affrontare, le circostanze descritte rivelano, a mio parere, una grave e preoccupante mancanza di coordinamento e di controllo effettivo sulle operazioni di sicurezza del pomeriggio del 20 luglio, lacune che sono direttamente all’origine della situazione in cui M.P., giovane carabiniere inesperto, ferito, non protetto e in preda al panico, ha fatto ricorso ad una forza letale che ha causato un tragico decesso. A mio giudizio, queste mancanze da parte delle persone responsabili della pianificazione e del controllo delle operazioni costituiscono un inadempimento dell’obbligo di tutelare il diritto alla vita di Carlo Giuliani, quindi una violazione dell’articolo 2 della Convenzione sul piano materiale.
ii. L’obbligo procedurale derivante dall’articolo 2
17. Il Governo insiste sul fatto che, stante l’assenza di un effetto diretto sull’origine degli avvenimenti di piazza Alimonda di eventuali errori o lacune nella pianificazione e conduzione delle operazioni, fosse superfluo ed estraneo alla competenza delle autorità giudiziarie italiane che hanno esaminato la responsabilità penale di M.P. e F.C. estendere le indagini alle autorità superiori di polizia o valutare la responsabilità di altre persone. Per i motivi esposti in precedenza, non sono convinto che gli errori e le mancanze nella conduzione delle operazioni non siano strettamente correlati con gli eventi che hanno portato al decesso di Carlo Giuliani. Gli obblighi procedurali imposti allo Stato dall’articolo 2 esigono che le azioni dello Stato che hanno condotto all’impiego della forza letale siano sottoposte ad una forma d’inchiesta indipendente e pubblica idonea a stabilire se il ricorso alla forza fosse giustificato nelle particolari circostanze di una causa. Se necessario, l’inchiesta deve anche consentire di esaminare ogni lacuna del sistema eventualmente all’origine di un decesso, ad esempio nella pianificazione di operazioni di polizia (McCann e altri e Şimşek e altri, sentenze succitate). Nel contesto proprio di questo caso, ritengo che l’articolo 2 esigesse un’inchiesta effettiva riguardante non solo l’eventuale responsabilità penale di M.P. e F.C., ma anche la pianificazione e la conduzione delle operazioni all’origine del decesso, così da far entrare pienamente in gioco l’obbligo degli agenti dello Stato di rendere conto delle circostanze che hanno portato al decesso. Una tale inchiesta non è stata condotta, pertanto, come giudicato dalla maggioranza, vi è stata violazione delle esigenze procedurali dell’articolo 2, anche per questo motivo.
18. Giunto a tali conclusioni, ho ritenuto che non fosse necessario esaminare separatamente la doglianza dei ricorrenti relativa agli articoli 6 e 13 della Convenzione. Inoltre, condivido totalmente il parere della camera secondo il quale non vi è stato da parte dello Stato convenuto inadempimento degli obblighi derivanti dall’articolo 38 della Convenzione.
OPINIONE PARZIALMENTE DISSENZIENTE COMUNE AI GIUICI CASADEVALL E GARLICKI
1. In questo caso, certo deplorevole, la maggioranza ha concluso per la violazione dell’articolo 2 della Convenzione sul piano procedurale. Non possiamo condividere tale conclusione.
2. Innanzitutto, teniamo ad esprimere il nostro accordo parziale con l’osservazione di carattere generale del giudice Zagrebelsky, nostro collega, riguardante l’esposizione dei fatti di cui in sentenza. Essa è eccessivamente lunga e contiene precedenti non necessari, se non inutili, per la risoluzione delle questioni fondamentali del caso di specie.
3. Aderiamo peraltro all’esposizione dei fatti e alle conclusioni del giudice per le indagini preliminari in data 5 maggio 2003, in particolare sui punti relativi al nesso di causalità tra lo sparo di M.P. e la morte di Carlo Giuliani, nonché sulla situazione di estrema violenza nei confronti dei carabinieri prevalsa nei luoghi e nelle circostanze del caso e tale da escludere la responsabilità penale di M.P. Questi ha fatto un uso legittimo delle armi per respingere una violenza o vincere una resistenza all’autorità (casi previsti dall’articolo 53 del codice penale) e, comunque, di fronte ad una situazione di estrema violenza che poneva direttamente in pericolo la sua integrità fisica, ha agito in situazione di legittima difesa (paragrafo 2 a) dell’articolo 2 della Convenzione).
4. Una volta ammesso che non vi è stato impiego sproporzionato della forza (paragrafo 227) né inadempimento dell’obbligo positivo di tutelare la vita di Carlo Giuliani (paragrafo 243 della sentenza), non resta altro che la questione degli obblighi procedurali. La maggioranza conclude per la violazione dell’articolo 2 sul piano procedurale basandosi fondamentalmente sui seguenti due punti:
a) la presunta « superficialità » del rapporto di autopsia, alla quale si accompagna l’individuazione di un frammento metallico conficcato nella testa della vittima e la restituzione del corpo alla famiglia per la cremazione (paragrafi 247-251) e
b) l’assenza di un esame del contesto generale – inchiesta a livello nazionale – che avrebbe consentito di stabilire se le operazioni di mantenimento dell’ordine fossero state pianificate in modo da evitare l’incidente (paragrafi 252 e 253).
5. Sul primo punto, riteniamo che, una volta constatati il nesso di causalità tra l’azione dello sparatore e l’effetto prodotto e la realtà della morte della vittima, nessun’altra autopsia fosse veramente necessaria per accertare la verità (se non per i fini medico-legali e della scientifica). Infatti, Carlo Giuliani è stato ucciso da M.P., il quale ha confessato di avere sparato due colpi, in condizioni che sono il risultato dei fatti.
Per risolvere la questione che ci si presenta, poco rilevano le eventuali informazioni supplementari che si sarebbero potute ottenere sul frammento metallico, la distanza, la traiettoria, l’angolo di tiro o l’eventuale impatto della pallottola con una pietra o con un altro oggetto intermedio. A nostro avviso, tali informazioni non avrebbero modificato in alcun modo gli elementi fondamentali della tragedia, vale a dire: l’autore degli spari, la vittima e la causa del decesso. Il corpo del defunto è stato consegnato ai familiari solo dopo l’autopsia ed è su loro richiesta che il pubblico ministero, in assenza di motivi imperiosi, presenti o prevedibili ostativi all’accoglimento della richiesta, ha autorizzato la cremazione. I familiari del defunto sapevano che la cremazione è una modalità di distruzione irreversibile e che qualsiasi altra autopsia sarebbe stata ormai impossibile.
6. Sul secondo punto, non vediamo alcun rapporto tra un’inchiesta a « livello nazionale » riguardante l’esame dell’organizzazione e della gestione del complesso delle operazioni di mantenimento dell’ordine per il vertice del G8 di Genova, e l’incidente concreto, puntuale e di breve durata verificatosi in piazza Alimonda il 20 luglio 2001. La maggioranza riconosce che la carica ordinata dal funzionario di polizia Lauro « era il risultato di una decisione operativa giustificata e legata alla percezione dei rischi, in funzione dell’evoluzione della situazione » e aggiunge che « era quindi impossibile prevedere in anticipo gli avvenimenti che si sono verificati (...). Infine, è opportuno ricordare che l’incidente che ha portato alla morte di Carlo Giuliani è stato relativamente breve » (paragrafo 238); infatti, esso si è svolto tra le ore 17 e le ore 17.27 (paragrafi 17 e 29) e « le circostanze che hanno circondato la morte » (paragrafo 252) non lasciano alcun dubbio.
7. Pertanto, con il senno di poi, riteniamo che l’inchiesta condotta dalle autorità italiane in questo caso increscioso sia stata sufficiente, effettiva e in contraddittorio, conformemente agli obblighi positivi che incombono sullo Stato, e che nessuna violazione procedurale dell’articolo 2 della Convenzione sia imputabile allo Stato convenuto.
OPINIONE PARZIALMENTE DISSENZIENTE
DEL GIUDICE ZAGREBELSKY
Sono spiacente di non potere sottoscrivere l’opinione della maggioranza della camera, che ha concluso per la violazione dell’articolo 2 della Convenzione sul piano procedurale.
1. Spiegherò tra poco la mia opinione dissenziente, prima però ritengo necessario fare una premessa generale riguardante la sentenza nel suo complesso e, più in particolare, la parte in fatto. A mio parere, l’esposizione dei fatti si estende alla narrazione di precedenti della cui inutilità ai fini della risoluzione delle questioni è consapevole la Corte stessa (si veda il paragrafo 235). Si tratta della descrizione e della valutazione di avvenimenti estremamente controversi a livello nazionale e non ancora oggetto di sentenze definitive da parte dei giudici interni. Il rischio di una lettura partigiana della sentenza al fine di acuire le tensioni che sempre suscitano in Italia gli eventi in questione non solo non è escluso, ma è addirittura aggravato dal ritardo con il quale arriva la decisione della Corte (sette anni dopo la presentazione del ricorso).
2. Condivido l’opinione della maggioranza della camera, che non ha rilevato alcuna violazione dell’articolo 2 della Convenzione sul piano materiale. A mio avviso, non vi è motivo per discostarsi dalle conclusioni della sentenza pronunciata all’esito di un’inchiesta che ha fatto luce, per quanto possibile, sugli eventi in questione.
Basandosi sul rapporto collegiale dei periti e sulle altre prove (video, testimonianze) a sua disposizione, il giudice ha ammesso che lo sparo era diretto verso l’alto e che la traiettoria della pallottola era stata deviata dall’impatto con una pietra o un oggetto simile.
Mi sembra che, nel contesto dell’aggressione violenta subita da lui e dai suoi colleghi, lo sparatore ha avuto una reazione giustificata ai sensi del paragrafo 2 a) dell’articolo 2 della Convenzione.
L’aggressione era indubbiamente gravissima e tale deve essere stata percepita dagli occupanti della jeep, accerchiata da diversi manifestanti armati di bastoni, assi di legno e pietre, che avevano rotto i finestrini del veicolo. Uno degli assalitori ha introdotto un’asse di legno nella jeep e ferito un carabiniere che si trovava a fianco dell’autore degli spari. Gli occupanti non potevano muoversi all’interno della jeep. Poco prima, un blindato dei carabinieri era stato incendiato dai manifestanti. Date le circostanze, il timore di un linciaggio era più che fondato.
In quella situazione specifica – improvvisa e gravissima –, la reazione del carabiniere è consistita nello sparare due colpi verso l’alto; solo un caso eccezionale ed improbabile ha deviato la pallottola. Si deve certamente prendere in considerazione l’anomalia imprevedibile della traiettoria della pallottola (e le conseguenze mortali dello sparo che, di rimbalzo, ha colpito la vittima), anche se si ammette che tale anomalia non esclude il nesso di causalità.
Gli spari intimidatori possono essere assimilati all’uso della forza ai sensi dell’articolo 2 § 2 a) della Convenzione? E’ chiaro comunque che è necessario valutarne la natura, sotto il profilo della loro necessità e dello scopo legittimo perseguito.
Nella sentenza Bakan c/Turchia (n. 50939/99, §§ 55-56, 12 giugno 2007), la Corte ha escluso la violazione dell’articolo 2 della Convenzione tenendo conto del fatto che la morte della vittima, uccisa da una pallottola sparata da un gendarme, « [era] dovuta ad una disgrazia, infatti la pallottola che aveva causato la ferita mortale aveva colpito la vittima di rimbalzo » (si veda anche, mutatis mutandis, Kathleen Stewart c/Regno Unito, n. 10044/82, decisione della Commissione del 10 luglio 1984, Decisione e rapporti 39).
Normalmente saggezza e prudenza consigliano alla Corte di adottare un criterio realistico e di dichiarare che la legittimità dell’uso della forza deve essere valutata rispetto alla situazione presentatasi agli occhi dei protagonisti degli avvenimenti, i quali agiscono nel fuoco dell’azione e nell’onesta percezione di un pericolo per la loro vita e quella altrui, anche se in seguito la situazione può essere valutata in modo differente. Un atteggiamento diverso da parte della Corte imporrebbe allo Stato e ai suoi agenti incaricati dell’applicazione delle leggi un onere irrealistico che rischierebbe di essere esercitato a spese della loro vita e di quella altrui (Bubbins c/Regno Unito, n. 50196/99, §§ 138-140, CEDU 2005‑II ; McCann e altri c/Regno Unito, 27 settembre 1995, § 200, serie A n. 324 ; Makaratzis c/Grecia [GC], n. 50385/99, § 66, CEDU 2004‑XI ; Huohvanainen c/Finlandia, n. 57389/00, §§ 96-97, 13 marzo 2007).
3. Il G8 di Genova ha visto svolgersi, da un lato, un’imponente manifestazione di opposizione pacifica e legale e, dall’altro, atti di violenza estrema contro proprietà e persone, organizzati da gruppi numerosi, armati di ogni sorta di oggetti. Intrecciandosi, manifestazioni ed atti di violenza hanno reso estremamente difficile, se non impossibile, una gestione dell’ordine pubblico ordinata e pianificata in anticipo.
La stessa maggioranza riconosce che « la carica ordinata dal funzionario di polizia Lauro era il risultato di una decisione operativa giustificata e legata alla percezione dei rischi, in funzione dell’evoluzione della situazione », che « le forze dell’ordine avevano dovuto fare fronte a situazioni di pericolo che si evolvevano nel giro di pochissimo tempo e adottare decisioni operative cruciali », che « era (…) impossibile prevedere in anticipo gli avvenimenti verificatisi in piazza Alimonda » e che « l’incidente che ha portato alla morte di Carlo Giuliani è stato relativamente breve » (paragrafo 238 della sentenza). Pertanto, non si vede la pertinenza delle questioni riguardanti l’organizzazione, la pianificazione e la gestione delle operazioni di mantenimento dell’ordine pubblico precedenti ai fatti controversi (paragrafo 235). E ciò, in particolare, se si tiene conto, come va fatto, della situazione di congestione e di violenza esistente nella zona, delle priorità che avevano i responsabili delle operazioni e dell’imprevedibilità dell’incidente improvviso.
Per quanto riguarda gli avvenimenti quali si sono verificati, quel che è pertinente è l’azione dello sparatore nel contesto del momento.
Inoltre, la Corte ha dichiarato in più occasioni che « tenuto conto della difficoltà del compito della polizia nelle società contemporanee, dell’imprevedibilità del comportamento umano e dell’inevitabilità di scelte operative in termini di priorità e di risorse, l’ampiezza dell’obbligo positivo posto a carico delle autorità interne va interpretata nel senso di non imporre loro un onere insopportabile » (si veda, tra le altre, Makaratzis succitata, § 69).
La giurisprudenza della Corte offre molti esempi in cui la Corte ha rilevato mancanze o errori nella pianificazione e direzione dell’azione delle forze dell’ordine ed ha dichiarato, per tale solo motivo, che vi era stata violazione dell’articolo 2. Da tale giurisprudenza emerge che la responsabilità dello Stato può essere chiamata in causa anche quando l’azione estrema dell’agente che ha causato la perdita di una vita non possa essere censurata in alcun modo. Ciò premesso, è del tutto evidente che le circostanze proprie di ogni caso sono diverse e che la giurisprudenza in questione deve essere usata con discernimento. E’ sufficiente confrontare il presente caso con quelli esaminati dalla Corte nelle sentenze McCann e altri (succitata), Andronicou e Constantinou c/Cipro (9 ottobre 1997, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997‑VI), Makaratzis (succitata), Natchova e altri c/Bulgaria ([GC], nn. 43577/98 e 43579/98, CEDU 2005‑VII), Şimşek e altri c/Turchia (nn. 35072/97 e 37194/97, 26 luglio 2005) e Erdoğan e altri c/Turchia (n. 19807/92, 25 aprile 2006).
Nel caso di specie, il contesto e la causa degli spari del carabiniere sono rappresentati esclusivamente dall’aggressione da parte del gruppo di manifestanti, di cui faceva parte la stessa vittima. Ciò mi porta a dire che sarebbe ingiustificato basare una conclusione di violazione materiale dell’articolo 2 sulla valutazione critica della condotta delle autorità in questo o quel momento degli avvenimenti che hanno contraddistinto le manifestazioni contro il vertice del G8 di Genova. Alla luce di quanto ammesso dalla maggioranza (paragrafo 238), nel presente caso, mi sembrano pertinenti solo il contesto della violenta aggressione, l’azione dello sparatore e le conseguenze di quest’ultima.
4. La posizione a mio avviso corretta ai fini dell’esame del motivo di ricorso relativo all’articolo 2 sul piano materiale comporta una discussione parallela sulla questione dell’insufficienza dell’inchiesta nazionale, che la maggioranza deduce dal fatto che « in nessun momento si è provveduto ad esaminare il contesto generale e ad accertare se le autorità avessero pianificato e gestito le operazioni di mantenimento dell’ordine in modo da evitare incidenti del tipo di quello all’origine del decesso di Carlo Giuliani ». In particolare, l’inchiesta non avrebbe « affatto mirato a stabilire il motivo per cui M.P. – ritenuto incapace dai suoi superiori di proseguire il servizio a causa del suo stato fisico e psichico (…) – non fosse stato portato subito in ospedale, fosse stato lasciato in possesso di una pistola carica e fatto salire su una jeep priva di protezione ritrovatasi isolata dal plotone che aveva seguito » (paragrafo 252 della sentenza).
Da un lato, a mio parere, l’inchiesta condotta dalla procura di Genova ha esaminato bene i fatti precedenti agli spari in questione. Di conseguenza, l’inchiesta è andata ben oltre il solo fatto materiale dei colpi di pistola e del contesto immediato in cui sono stati sparati (la documentazione raccolta durante l’inchiesta, il contenuto delle testimonianze, l’esposizione dei fatti nella requisitoria del pubblico ministero e nella decisione del giudice ne sono la prova). E ciò è ancor più vero per quanto riguarda il « processo dei 25 ».
Dall’altro lato, per i motivi già esposti nell’ambito dell’esame della parte materiale dell’articolo 2, l’efficacia dell’inchiesta sul decesso in questione non ne ha affatto risentito. I fatti indicati nel paragrafo 252 della sentenza non riguardano infatti la domanda se, nel caso di specie, la morte data alla vittima fosse giustificata rispetto al paragrafo 2 dell’articolo 2 della Convenzione. La maggioranza risponde a tale domanda nel paragrafo 238.
5. Nel ragionamento della maggioranza, un’altra lacuna dell’inchiesta giustificherebbe la conclusione secondo la quale vi è stata violazione dell’articolo 2 sul piano procedurale. Si tratta della « superficialità » dell’autopsia, dell’inopportuna cremazione del cadavere, del troppo breve periodo di tempo lasciato ai ricorrenti per intervenire nelle operazioni di autopsia.
Quanto a quest’ultima osservazione (paragrafo 248), a mio parere, essa non tiene conto del fatto che l’autopsia, di per se stessa urgente, lascia pochissimo tempo alla procura, all’accusato e alle parti lese per la scelta dei loro periti. Ad ogni modo, niente impedisce ai ricorrenti di nominare un perito, di contattare i periti della procura e di vedere il corpo nelle ore successive prima di far procedere alla cremazione (autorizzata il 23 luglio, vale a dire due giorni dopo l’autopsia). Di conseguenza, la partecipazione alle operazioni dei periti non è stata resa troppo ardua, né tanto meno impossibile.
Dopo l’autopsia, il corpo è stato restituito ai familiari e, su loro richiesta, il pubblico ministero ne ha autorizzato la cremazione. La maggioranza ritiene che il pubblico ministero non avrebbe dovuto dare l’autorizzazione « molto prima di conoscere l’esito dell’autopsia e avendo concesso, il giorno prima, ai periti una proroga di sessanta giorni per consegnare la loro relazione, tanto più che lo stesso pubblico ministero ha ritenuto « superficiale » il rapporto dell’autopsia » (paragrafo 250).
Nel momento in cui il pubblico ministero ha autorizzato i familiari della vittima a disporre del cadavere e farlo cremare, nessuno dei motivi rivelatisi in seguito era presente né prevedibile (di certo non la « superficialità » del rapporto dei periti, ancora da redigere); inoltre, se i periti non comunicano di avere ancora bisogno del cadavere, la prassi costante e ragionevole vuole che si risparmi alla famiglia l’ulteriore onere di un’attesa prolungata.
Tutto ciò di cui ci si può rammaricare a posteriori non consente, a mio parere, di chiamare in causa chi, all’epoca, ha ragionevolmente creduto di potere e dovere accogliere la richiesta dei familiari. Per la valutazione dei fatti materiali oggetto d’inchiesta, ma anche per quanto riguarda le decisioni giudiziarie di natura procedurale, il momento e contesto da prendere in considerazione è quello in cui la decisione è stata (ha dovuto essere) adottata (si veda, mutatis mutandis, R.K. e A.K. c/Regno Unito, n. 38000/05, § 36, 30 settembre 2008).
Vengo alla questione della « superficialità » dell’autopsia e del rapporto di autopsia. Menzionata dal pubblico ministero nella sua requisitoria, senza precisazioni, per giustificare il tempo richiesto dall’inchiesta (il pubblico ministero ha infatti dovuto disporre un’altra perizia collegiale), essa rimanda evidentemente al fatto che i periti non hanno recuperato il pezzetto di camiciatura della pallottola che la tac aveva evidenziato, conficcato nella testa della vittima. Il perito Salvi ha fornito spiegazioni al riguardo e la sentenza del tribunale di Genova nel « processo dei 25 » ne dà atto (pagina 389). Il perito ha visto il frammento metallico nelle riproduzioni tratte dalla tac ed ha ritenuto che non si trattasse della pallottola, bensì di un frammento piccolissimo, giudicandolo difficilissimo da recuperare nella massa cerebrale ed inutile ai fini degli esami balistici. La spiegazione può sembrare insufficiente a posteriori, vista l’importanza del fatto che la camiciatura della pallottola si era spezzata e che alcuni frammenti della camiciatura, rinvenuti nel passamontagna della vittima, recavano le tracce di un impatto con un oggetto intermedio, inducendo così l’ipotesi di una deviazione della traiettoria dello sparo. E’ comprensibile che i periti successivi abbiano potuto, per prudenza, rimpiangere l’indisponibilità del cadavere ai fini dei loro esami, ma ciò non significa che tale elemento abbia viziato l’inchiesta nel suo complesso. Infatti, il pezzetto di camiciatura non recuperato poteva solo confermare l’ipotesi di un impatto con un oggetto intermedio (in caso di presenza di tracce dell’impatto), ma non poteva affatto infirmarla (in caso di assenza di tracce).
Tutti gli elementi pertinenti ed utili per valutare lo svolgimento dei fatti e le eventuali responsabilità quanto alla morte della vittima sono stati ricercati ed esaminati, per quanto possibile, durante l’inchiesta. Questa deve quindi, a mio parere, essere ritenuta sufficiente nel complesso rispetto agli obblighi procedurali derivanti dall’articolo 2 della Convenzione.
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La traduzione è stata curata dagli esperti linguistici Rita Pucci (dall’inizio al paragrafo 90, dal paragrafo 256 alla fine della sentenza e opinioni separate), Martina Scantamburlo (dal paragrafo 91 al paragrafo 141 e dal paragrafo 214 al paragrafo 255), Rita Carnevali (dal paragrafo 142 al paragrafo 213).