COMMISSIONE D'INDAGINE

Seduta 09 - 06 Settembre 2001

Audizione di Luca Casarini, portavoce del movimento denominato «Tute bianche».
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui fatti accaduti un occasione del vertice G8 tenutosi a Genova, l'audizione di Luca Casarini, portavoce del movimento denominato «Tute bianche». Ricordo che l'indagine ha natura meramente conoscitiva e non inquisitoria.
La pubblicità delle sedute del Comitato è realizzata secondo le forme consuete previste dagli articoli 65 e 144 del regolamento della Camera, che prevedono la resocontazione stenografica della seduta.
La pubblicità dei lavori è garantita, salvo obiezioni da parte di componenti il Comitato, anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso che consente alla stampa di seguire lo svolgimento dei lavori in separati locali.
Non essendovi obiezioni, dispongo l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.
LUCA CASARINI, Portavoce del movimento «Tute bianche». La relazione che mi appresto a leggere e a consegnarvi è frutto di una elaborazione collettiva svolta all'interno del movimento delle Tute bianche. È un contributo parziale ma importante


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alla ricostruzione degli eventi di Genova, al loro svolgersi concreto e al clima politico in cui sono potuti accadere. Prima di ogni ragionamento alcune precisazioni:
Luca Casarini, cioè il sottoscritto, è uno dei portavoce delle Tute bianche, non il «leader» o il «capo». Le Tute bianche sono da intendersi come una aggregazione sociale e politica aperta, orizzontale, che si organizza sulla forma di rete e non di partito. Per questo non ha leader, ma portavoce che svolgono le funzioni di comunicazione, divulgazione e dichiarazione a nome di assemblee che decidono.
Le Tute bianche si riconoscono pienamente nel Genoa social forum e nel suo portavoce unico Vittorio Agnoletto; Luca Casarini è membro, come uno dei portavoce delle Tute bianche, del consiglio dei portavoce del Genoa social forum; Luca Casarini e le Tute bianche si riconoscono pienamente nella relazione unitaria presentata dal GSF a questo Comitato ed hanno contribuito alla sua stesura.
Questa memoria verterà in particolare sui fatti a cui io personalmente e le Tute bianche in generale abbiamo assistito e cercherà di fornire ai membri del Comitato quanti più elementi conoscitivi possibile, anche di contesto, su quanto accaduto.
Cercare di fare piena luce su Genova, su come sono andate le cose e sul significato da attribuire a ciò che abbiamo tutti vissuto, è un compito ed una responsabilità, personale e collettiva, che crediamo sia di interesse generale per tutta la società civile e per chiunque abbia a cuore la democrazia e la sua difesa in questo paese.
La discussione su Genova, sull'appuntamento del G8, è iniziata dentro le Tute bianche molti mesi prima del luglio 2001. Ha coinvolto in maniera aperta e pubblica migliaia di giovani, e non in centri sociali, scuole, università, luoghi di


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lavoro, associazioni. Non vi sono e non vi sono stati «livelli occulti» di discussione su cosa fare a Genova: il 90 per cento della discussione ha riguardato il perché andare a Genova, il perché opporsi al G8 e a ciò che rappresentava, il perché nel mondo esiste un movimento che, da Seattle in poi, mette radicalmente in discussione la globalizzazione neoliberista e le sue strutture, dal WTO alla NATO, dal G8 al Fondo monetario internazionale.
Non vi sono e non vi sono stai mai «secondi fini» nascosti, tipo la caduta del Governo Berlusconi attraverso la mobilitazione di piazza, dietro alla mobilitazione di Genova. Certo, sia io che le Tute bianche siamo oppositori politici del Governo Berlusconi e dei progetti neoliberisti e di svolta autoritaria e liberticida che siamo profondamente convinti che esso rappresenti. Ma mai e poi mai abbiamo ridotto l'appuntamento di Genova ad una semplice, per così dire, questione nazionale. Siamo stati, e, in particolare, io personalmente, a Seattle, a Praga, a Nizza, a Quebec City e ovunque questo movimento si sia espresso. Anche se al Governo ci fosse stato l'Ulivo, avremmo fatto ogni sforzo per portare a Genova più gente possibile e per opporci al G8.
È certo che l'ascesa al Governo della destra ci ha molto preoccupati. Chi ci ha sempre combattuto, anche dall'opposizione, con tutti i mezzi e definiti più volte un'accozzaglia di delinquenti o terroristi, non gode della nostra fiducia quando ha in mano gli apparati dello Stato, come la polizia, i servizi, i carabinieri. Credo che sia comprensibile. Chi ha fatto del «pugno di ferro» contro i centri sociali uno dei suoi punti forti del programma in campagna elettorale, non può che destare preoccupazione in noi quando gestisce direttamente anche il «monopolio dell'uso della forza». Sul piano politico l'intera maggioranza, i suoi propositi e programmi politici, ci


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sono apparsi ancora più direttamente legati al sistema di sviluppo e governo globale che contestiamo in tutto il mondo. Quindi queste valutazioni di certo ci sono state e ci sono, ma non abbiamo mai pensato che l'obiettivo potesse essere quello di «usare» il G8 per far cadere Berlusconi. La posta, francamente, ci sembra molto più alta e la partita molto più complessa. Investe le ragioni di un'esistenza basata sul modello neoliberista globale, le scelte politiche e sociali che si fanno su scala planetaria e non si risolve certo con la caduta di una maggioranza e l'avvento di un'altra. Anche perché questo movimento nasce a Seattle con l'era Clinton e si oppone fermamente anche ai progetti neoliberisti del New Labour di Tony Blair, che pure non sono inseriti nel centrodestra. Quindi, certamente la situazione ci ha preoccupato molto con l'avvento al Governo di Berlusconi, Bossi, e Fini, ma lo scopo della mobilitazione di Genova non era semplicemente opporsi al Governo italiano: opporsi al Governo mondiale, quello del G8, ci sembrava e ci sembra enormemente più difficile, ma anche necessario ed importante.
In riferimento ad intercettazioni che qualcuno, non sappiamo chi e come, avrebbe fatto su mie conversazioni o di altri di noi al telefono, sul proposito di far «cadere» Berlusconi o amenità simili, quanto sopra valga come risposta. Sul capitolo intercettazioni, rivelazioni, dossier e attività di spionaggio e controllo segreto vario, tornerò più avanti, poiché esso appare come un fatto assodato e che costituisce nella vicenda di Genova un aspetto a dir poco inquietante.
Sulla dichiarazione di guerra, scegliamo di partire dalla nostra «Dichiarazione di guerra ai potenti dell'ingiustizia e della miseria», pronunciata a Palazzo Ducale il 26 maggio 2001, oggetto di tante attenzioni. La dichiarazione, che allego alla relazione, usava un linguaggio allegorico e fu letta nel


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corso di un vero e proprio rituale che ne rafforzava il carattere simbolico. Con essa si esprimeva la ferma opposizione e contrarietà, ribadita dall'intero GSF, alle politiche neoliberiste del G8. Come è noto, le riunioni degli otto grandi non si fondano su alcuna normativa o trattato internazionale: si tratta di un organo informale che impone e dispone scelte di politica economica, scavalcando gli spazi del confronto e della mediazione. La guerra è un'allegoria nefasta, ma tali politiche sono nefaste, fomentano la guerra e lo fanno fuor di metafora.
La nostra figura retorica era anche atta a evocare il processo di militarizzazione della città di Genova: è del 25 maggio la notizia che a Genova sarebbero stati impiegati corpi militari a difesa del vertice. In quei giorni lo stesso generale Angioni, ex-comandante del contingente di pace in Libano, sottolineava la sproporzione delle misure di sicurezza: «A Genova verranno impiegati 2.700 militari, io in Libano ne avevo 2.300».
Entrando nel merito della dichiarazione, noi specificammo la composizione del nostro «esercito» - fatto di sognatori, poveri e bambini, indios del mondo, donne e uomini, gay, lesbiche, artisti e operai -, di che armi era dotato e di come le avrebbe impiegate. Ci saremmo trovati di fronte ad un esercito vero e avremmo utilizzato i corpi come uniche armi, nelle forme della disobbedienza civile, che le Tute bianche praticano da prima della «battaglia di Seattle». Al termine del rituale, il nostro portavoce, cioè il sottoscritto, si avvicinò a due funzionari della DIGOS di Genova, per consegnargli questa dichiarazione.
Anche in risposta a fraintendimenti più o meno interessati, alla dichiarazione di guerra facemmo seguire quella di pace. L'allegato «Patto con la città e i cittadini di Genova», consegnato pubblicamente al sindaco Pericu e ai giornalisti il


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3 giugno 2001, chiariva in modo inequivocabile che la nostra disobbedienza non implicava alcun attacco alla città, ai suoi beni pubblici o alle persone fisiche, anche quelle in divisa, posizione ribadita e approfondita dal Genoa social forum nella sua totalità. Sarebbe stato per noi un errore politico causare danni a una città, non solo duramente provata dai preparativi per il G8, ma anche interessata ai contenuti e alle proposte del movimento. Consideravamo Genova «territorio amico», come lo era stata Quebec City durante la contestazione al vertice panamericano sul libero commercio dell'aprile 2001. Proprio come era successo nella città canadese, decidemmo di ignorare gli stessi simboli e marchi delle multinazionali che avversiamo, concentrando la nostra azione sul muro della vergogna che delimitava la cosiddetta zona rossa.
Riguardo al tema dell'«Impero e chi lo assedia», poiché il summit del G8 era la riunione di quello che noi chiamiamo l'Impero, adottammo un linguaggio evocativo, ricco di riferimenti all'immaginario medievale (la fortezza, il castello dei signori e, soprattutto, l'assedio). Il concetto di Impero non ha nulla a che vedere con il vecchio stereotipo dell'imperialismo yankee, come abbiamo più volte specificato. Non ci troviamo più di fronte a Stati-nazione che estendono i propri mercati e la propria influenza geopolitica e militare. A fare il bello e il cattivo tempo sono enti sovranazionali, spesso sganciati da qualunque vincolo giuridico e legame con la Carta delle Nazioni Unite, ed enormi corporations non più ancorate alla legislazione di un singolo Stato. Talvolta, come nel caso delle ultime presidenziali americane, sono esse stesse a influenzare direttamente elezioni e composizioni dei governi nazionali, degradati a vassalli con funzioni esecutive. I cittadini diventano sudditi che non sanno nemmeno chi siede sul trono. Sovente, dell'Impero vedono solo i lanzichenecchi. Talvolta, si ribellano.


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Dal punto di vista comunicativo, il testo più emblematico, anch'esso in allegato, fu «Dalle moltitudini d'Europa in marcia contro l'Impero e verso Genova», diffuso per vie telematiche, recitato nelle piazze e favorevolmente recensito dallo storico Franco Cardini, su l'Espresso del 22 giugno 2001. Con questo testo si avviava un'operazione mitopoietica che scavalcava a pie' pari il XX secolo ripercorrendo i sentieri di rivolte più antiche.
Per dare corpo e tangibilità a tutte queste allegorie, si immaginò anche una pratica di piazza ispirata a certi dipinti e stampe d'epoca: ci figurammo l'uso di carri allegorici muniti di arieti con cui abbattere il muro della vergogna; si parlò anche di catapulte. Va ricordato che durante la succitata mobilitazione di Quebec City, i dimostranti avevano utilizzato una catapulta per lanciare orsacchiotti di peluche oltre le recinzioni. Nel «Patto con la città di Genova» parlammo di «una guerra... combattuta con i corpi, con le parole e con diavolerie e strumenti meccanici congegnati nelle nostre pacifiche officine della fantasia».
Seguendo l'insegnamento zapatista, pensavamo di munirci di «armi» che servissero a parlare e non, come dovrebbe essere evidente, a conseguire obiettivi militari. Nel corso del dibattito in seno al GSF sull'opportunità di evitare comportamenti percepibili come aggressivi e offensivi, decidemmo di rinunciare ad arieti e catapulte: avremmo messo in gioco «soltanto» i nostri corpi. Su questo punto non c'è mai stata, né può esserci imputata, alcuna ambiguità o reticenza. Lo confermano i training pubblici ripresi dai telegiornali, la costruzione, sempre in pubblico, di scudi e protezioni corporali, le notizie riportate dai media, addirittura gli schemini pubblicati dai giornali che dissezionavano pezzo per pezzo l'abbigliamento delle tute bianche. Tra le tantissime zone


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d'ombra delle settimane precedenti il G8 (riguardo alla funzione che avrebbero avuto i militari, ai tentennamenti sulle autorizzazioni dei cortei e la fruibilità dei trasporti, agli spazi dati a veline di dubbia origine finalizzate ad alzare la tensione), non c'è certamente la pratica di piazza che le Tute bianche e i disobbedienti avevano scelto.
Abbiamo tenuto riunioni ed assemblee con le finestre aperte, incuranti di essere intercettati, registrati ed ascoltati. Non solo non abbiamo mai avuto niente da nascondere, ma l'essere pubblici è un'altra delle nostre armi, la più preziosa. La pubblicità e la trasparenza prevengono la criminalizzazione, e permettono il confronto con persone ed esperienze diverse. Su tali fondamenta, si è costruito il Genoa social forum. Al suo interno, c'erano pratiche e politiche diverse, valutazioni contrastanti, come quelle riguardanti la «dichiarazione di guerra», riferimenti culturali talvolta lontanissimi (dall'enciclica Solicitudo rei socialis, ai grundrisse di Karl Marx, da Martin Luther King a Luther Blissett, da José Martì a José Bové, da Gandhi al subcomandante Marcos) ma un confronto franco e trasparente non ha mai portato a fratture o distinzioni tra presunti buoni e presunti cattivi.
Veniamo ora al conflitto e al consenso. Riteniamo necessario ricapitolare il percorso della disobbedienza civile «protetta», dal primo esperimento fino alle giornate di Genova.
Per quasi tre anni, dall'autunno 1998, è stata sperimentata una pratica inedita di piazza, un modo innovativo di partecipazione politica e sociale, che non evita il conflitto ma lo lega indissolubilmente al consenso, al progetto, alla comunicazione.
La strategia del dire cosa si farà e fare ciò che si è detto è stata visibile e verificabile in occasione di diverse mobilitazioni: a Trieste per permettere l'ingresso di una delegazione di giornalisti e parlamentari che verificassero le condizioni di


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invivibilità del CPT, centro di detenzione per migranti «clandestini » (ottobre 1998); ad Aviano durante la guerra del Kosovo (aprile 1999); a Milano per la chiusura del CPT di via Corelli (gennaio 2000); a Bologna per impedire lo svolgimento di un raduno neofascista (maggio 2000); a Genova, in occasione del convegno-mostra Tebio sulle biotecnologie, per imporre il principio di precauzione a tutela della salute dei cittadini (maggio 2000); ancora a Bologna, per contestare un incontro dell'OCSE (giugno 2000); a Praga, per contestare il vertice del Fondo monetario internazionale (settembre 2000); a Ventimiglia, per opporci alla sospensione della libera circolazione dei cittadini dell'Unione europea in occasione del vertice di Nizza (dicembre 2000); a Roma ed in Veneto contro Haider; in Messico, quando accompagnammo i comandanti dell'EZLN dal Chiapas a Città del Messico, disobbedendo alla legge messicana che impedisce agli stranieri di fare politica (febbraio-marzo 2001); a Trieste, in occasione del G8 sull'ambiente, per contestare la mancata sottoscrizione del Protocollo di Kyoto da parte degli Stati Uniti (marzo 2001).
Come si vede, la disobbedienza civile si è posta volta per volta obiettivi tanto simbolici quanto concreti. Essa ha attirato l'attenzione su violazioni delle Carte costituzionali, delle dichiarazioni dei diritti umani e del diritto internazionale: ipotesi di violazione dell'articolo 13 della Costituzione per quanto riguarda i CPT; ipotesi di violazione dell'articolo 11 per quanto riguarda la partecipazione italiana all'intervento in Kosovo; violazione delle norme transitorie della Costituzione in materia di ricostituzione del partito fascista, eccetera.
Oltre a ciò, è orientata a estendere i confini della legalità e a conquistare nuovi spazi di agibilità democratica e nuovi


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diritti (vedi la lotta per il «principio di precauzione» o le osservazioni sui limiti della Carta dei diritti dei cittadini europei presentata a Nizza).
In ogni caso viene posto il problema del diritto al dissenso sancito da tutte le Costituzioni post-weimariane e il superamento delle restrizioni alla libertà di manifestare.
Infine, ci permettiamo di osservare che in diversi casi la disobbedienza civile si è dimostrata efficace: tanto a Trieste quanto a Milano, l'ingresso nel CPT di giornalisti e parlamentari consentì una verifica delle condizioni in cui versavano i reclusi. Tale verifica portò, in entrambi i casi, alla chiusura - definitiva o temporanea - dei centri. In Messico riuscimmo ad ottenere la revoca delle espulsioni dal paese e il diritto per tutti di partecipare alla Marcia della dignità.
Per quanto riguarda la disobbedienza civile e le sue pratiche, esse non si configurano in alcun modo come una simulazione o, addirittura, come la proposta di uno scenario bellico. Al contrario, esaltano la dimensione politica del conflitto, ancorché radicale, tra le controparti. Dichiarare la volontà di superare una linea invalicabile e farlo senza utilizzare alcuno strumento atto ad offendere, ma solo il proprio corpo equipaggiato di protezioni corporali (imbottiture, caschi, scudi), non può in alcun modo essere associato a intenti bellico-militari.
Preparazione, generosità e determinazione non aprono la strada a pulsioni militariste. Dovrebbe far riflettere che forse grazie a ciò, come ci piace pensare, l'esempio delle Tute bianche ha contagiato i movimenti in diverse parti del mondo, da Madrid a Città del Messico, da Londra a New York, da Atene a Helsinki. Indossare caschi e bardature non significa, quindi, salire il primo gradino di una escalation della violenza di piazza. Per noi è stato esattamente l'opposto: l'impatto con


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le forze dell'ordine è messo in conto, ma l'utilizzo degli strumenti di cui sopra ha permesso di attenuare la paura, limitare i danni fisici e tenere compatto il gruppo che pratica la disobbedienza. Il training compiuto in preparazione degli eventi ha aiutato molti e molte di noi a mantenere la lucidità, evitando così il fuggi fuggi, i comportamenti irrazionali e l'atomizzazione incontrollabile dello scontro.
Il corpo è un bene prezioso. Il corpo siamo noi, è ciascuno di noi. Ne abbiamo uno solo e ci chiediamo cosa gli sarebbe successo se negli ultimi tre anni non ci fossimo preoccupati di proteggerlo. I referti medici degli ospedali genovesi parlano chiaro: ferite lacero-contuse alla testa, traumi cranici, due codici rossi dovuti a situazioni di incoscienza e coma vigile o grave, fratture agli arti e alle mani per il tentativo di proteggere la testa... Un casco allacciato non può nuocere a nessuno. Protegge chi lo indossa. Non a caso, lo prescrive anche il codice della strada, uno dei pochi ai quali non disobbediamo.
Dopo i fatti di Trieste dell'ottobre 1998, nel corso di un incontro al Viminale - cui partecipai personalmente - con l'allora ministro dell'interno Jervolino, avemmo modo di illustrare e denunciare la pratica poliziesca di impugnare i manganelli al contrario in modo da colpire con il gancio d'acciaio che serve ad assicurarli in cintura, o addirittura di «personalizzarli» appesantendoli con biglie d'acciaio, cuscinetti a sfera, eccetera. A Genova questa pratica fu tristemente superata dall'adozione dei famigerati Tonfa tutti in alluminio, già in dotazione alla polizia americana, equiparabili a spranghe di ferro.
Ieri lo stesso Gratteri, direttore generale del servizio centrale operativo, nella sua deposizione di fronte a questo Comitato, ha ammesso la novità delle nostre pratiche, accusandole


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però di rappresentare un innalzamento del livello dello scontro. Al contrario, è parere di molti che la disobbedienza civile protetta abbia contribuito a traghettare ampi settori di movimento da forme di protesta nichiliste e distruttive a una pratica non meno radicale ma eminentemente politica.
Peraltro, preannunciare tutto ciò che verrà fatto apre già di per sé lo spazio alla mediazione politica «sul campo», se ve ne è la volontà da parte dei responsabili dell'ordine pubblico.
Non a caso i cortei della disobbedienza civile sono sempre aperti da un «gruppo di contatto» composto da avvocati, parlamentari, portavoce delle associazioni e centri sociali che partecipano alla manifestazione, con lo scopo di dichiarare apertamente le proprie intenzioni e obiettivi.
A questo proposito, in merito a quanto riferito dal questore Colucci, smentisco assolutamente di averlo mai incontrato, di avere in qualche modo interloquito con lui, o che qualche funzionario si sia mai presentato a me asserendo di parlare per conto di Colucci. Di funzionari di polizia che si dichiaravano tali o che conoscevo (altri sicuramente si saranno dichiarati giornalisti, panettieri o spazzini, non posso saperlo, ma ne sono sicuro) ne ho incontrati o sentiti per giorni e giorni a decine. Non solo, tutti noi, in particolare i più conosciuti, abbiamo ricevuto decine di telefonate dai dirigenti della DIGOS che ci chiedevano cosa avevamo intenzione di fare o magari quanta gente doveva arrivare o che treni stavamo aspettando eccetera.
Nessun mistero o segreto: noi abbiamo sempre detto a tutti ciò che intendevamo fare, come lo dicevamo a centinaia di operatori dell'informazione. Abbiamo definito con il GSF e pubblicizzato ovunque quali strade avremmo percorso, come


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lo avremmo fatto, il punto esatto dove avremmo tentato la disobbedienza, cioè via XX Settembre. Abbiamo definito e pubblicizzato questo giorni prima, altro che accordi segreti. Ovviamente auspicavamo - e lo abbiamo fatto presente tramite il GSF anche a De Gennaro (si veda l'incontro del 30 giugno a cui non ho partecipato) - che chi disobbediva non venisse massacrato, che non vi fossero comportamenti della polizia e dei carabinieri che violassero i diritti umani, anche se in presenza di qualche violazione della norma, che i fermati fossero rispettati, che non vi fossero pestaggi nelle caserme.
A questo proposito ricordavamo sempre i fatti di Napoli, oggetto anche di un'inchiesta di Amnesty International per gravissime violazioni (pestaggi e torture operate da carabinieri e PS in piazza e in caserma nei confronti di fermati durante la manifestazione contro il vertice OCSE di marzo). Una cosa abbiamo sempre richiesto con forza: che non usassero le armi da fuoco. Quelle uccidono di sicuro. L'abbiamo fatto personalmente e collettivamente, a chiunque avevamo occasione di incontrare e con cui discutevamo di cosa sarebbe successo nei giorni di Genova, pubblicamente. In particolare, la richiesta che le forze dell'ordine fossero in piazza disarmate è stata fatta ufficialmente e direttamente al ministro Scajola.
I responsabili dell'ordine pubblico, che detengono il monopolio della forza militare, devono di conseguenza assumersi la responsabilità di dosare questa forza per contenere e bloccare l'azione di disobbedienza civile, che non costituisce una minaccia per cose o persone. In questo modo, la scelta tra una strategia di «alleggerimento» - con cariche di polizia volte a fermare l'avanzamento dei disobbedienti - o una strategia di «annientamento» - volta a punire i partecipanti, oltre che contrastarli, con ricorso a blindati lanciati dentro i cortei, caccia all'uomo, pestaggi dei fermati, uso di armi da


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fuoco o di lacrimogeni esplosi in faccia, oltre ad esprimere un vero e proprio tentato omicidio - diventa una scelta politica. La scelta tra due modi diametralmente opposti di affrontare la manifestazione pubblica del dissenso. A Genova, in via Tolemaide e nelle altre piazze tematiche, la scelta è stata chiara.
Per quanto riguarda i container, Colucci asserisce che questi sono stati posti lungo il percorso del nostro corteo per dividerci da altri manifestanti: niente di più falso. I container - e su questo possiamo produrre prove documentali - sono stati piazzati nella notte tra il 19 e il 20 attorno a piazza Verdi-Brignole. Il percorso del nostro corteo era completamente libero ai lati, utilizzati da vari contingenti di polizia nella seconda parte, dopo l'uccisione di Carlo Giuliani, per attaccarci nel mezzo e tentare di imbottigliarci. I container - questo abbiamo pensato quando li abbiamo visti collocare in quel modo, a semicerchio davanti alla zona off-limits - servivano per impedirci in ogni modo di arrivare a contatto con la rete. Quale sceneggiata avremmo potuto fare, visto che Colucci parla di questo, invadendo di qualche metro, se vi era un muro di container?
Va precisato che, al contrario di quanto ripetutamente affermato dai dirigenti e funzionari di pubblica sicurezza, il corteo partito dallo stadio Carlini era autorizzato. Alle ore 18,45 del giorno 19 luglio, fu revocata l'autorizzazione per il tratto finale, che andava da piazza delle Americhe a piazza De Ferrari. Prima della partenza del corteo, venerdì 20, nei pressi di piazza delle Americhe furono avvistati alcuni reparti di polizia ed un folto gruppo di funzionari. Sostavano davanti ai container che delimitavano la piazza. Tutto questo faceva presumere che fosse quello il luogo dove ci avrebbero caricato, esattamente al limite del corteo autorizzato. Ma in piazza delle


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Americhe il corteo dei disobbedienti non ha mai messo piede. I carabinieri lo aggredirono più di 300 metri prima, nella strettoia di via Tolemaide, quindi ancora nel tratto autorizzato del suo percorso. Il gruppo di contatto fu travolto. La reazione fu un immediato arretramento della testa del corteo, travolta dalle cariche e dai lacrimogeni, con abbandono di alcune protezioni. L'arretramento non convinse i carabinieri a fermarsi, le cariche proseguirono con brutalità. Alleghiamo un documento video in cui si vedono chiaramente dieci carabinieri avventarsi su una ragazza inerme stesa a terra, infierendo con calci e manganellate. I volti di alcuni carabinieri sono ben visibili. Ci chiediamo come mai, a tutt'oggi, nessun carabiniere risulti indagato per le violenze.
In quel frangente migliaia di persone si sentirono in pericolo di vita, ci si urtava e calpestava a vicenda, si annaspava per via della calca, del caldo e dei lacrimogeni. Molti furono picchiati e feriti pur non avendo fatto niente e «in un paese democratico non sono rischi accettabili. Neanche avere paura lo è.» (Franco Bassanini, intervista su l'Unità del 30 agosto).
Una parte del corteo, nel disperato tentativo di tenere lontani i reparti, improvvisò un lancio di oggetti trovati per strada, e solo a quel punto i carabinieri sospesero le cariche per un breve lasso di tempo. Mentre il corteo cercava di defluire, i carabinieri cercarono di spazzarlo via avanzando con autoblindo e jeep a grande velocità, precedendo i reparti a piedi, investendo a più riprese alcuni manifestanti, poi risultati feriti. Dai finestrini di un veicolo un carabiniere puntava la pistola ad altezza d'uomo (si veda la foto di Tano D'Amico pubblicata su diversi giornali e riviste). In quel frangente un veicolo si fermò in pieno corteo provocando la reazione di dimostranti esasperati e spaventati. Da qui in


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avanti fu chiaro che le ripetute cariche non avevano finalità di alleggerimento, bensì punitive. Lo dimostra il fatto che il corteo fu caricato alle spalle fino a poche centinaia di metri dallo stadio Carlini, verso il quale si stava ritirando.
A circa tre ore dalla prima carica, gruppi sparsi di dimostranti cercavano ancora di allontanare i carabinieri e proteggere la ritirata del corteo, ancora bloccato tra via Tolemaide e corso Gastaldi. Uno di questi gruppi fu coinvolto in uno scontro in piazza Alimonda, durante il quale un carabiniere di leva puntò la pistola e sparò in faccia a Carlo Giuliani. Da allora la scena è stata ricostruita istante dopo istante. I filmati mostrano chiaramente come il carabiniere avesse la pistola puntata ben prima che Carlo Giuliani raggiungesse la camionetta e sollevasse quel maledetto estintore. Si vede anche che 15 metri più in là altri carabinieri erano schierati. Ci siamo chiesti mille volte come mai essi non intervennero, non lanciarono lacrimogeni, non cercarono di disperdere lo sparuto gruppo di dimostranti. Non smettiamo di chiederci come mai un carabiniere di leva si trovasse, armato, in una situazione del genere, quando migliaia di poliziotti erano stati sottoposti al famoso addestramento di Ponte Galeria. Non occorre essere un esperto di antisommossa o controguerriglia per dire che la situazione poteva essere risolta senza sparare in faccia a nessuno.
Sapevamo che a Genova ci saremmo trovati al fianco di una moltitudine di persone, che ci sarebbero state migliaia di poliziotti e agenti e che il contesto era più complesso di quello affrontato in altre situazioni. Sapevamo di andare incontro a molte manganellate; mettevamo in conto di essere esposti a fermi ed arresti. Ma nessuno pensava ad un massacro: completa assenza di funzionari di piazza con cui parlare, centinaia di lacrimogeni a freddo, cariche con i blindati, uso


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massiccio di idranti, addirittura il ricorso ad armi da fuoco, nonostante le assicurazioni del ministro Scajola, il tutto non motivato da alcuna provocazione da parte del corteo ed a considerevole distanza dalla zona rossa. Non si potevano nemmeno mettere in conto l'attacco poliziesco a un corteo di 300 mila persone, senza precedenti per questa Repubblica, le modalità dell'irruzione di sabato notte e le sevizie di Bolzaneto e S. Giuliano. Certamente mettevamo in conto la paura, ma non quella di morire.
Ai nostri cortei abbiamo sempre invitato a partecipare parlamentari o esponenti delle istituzioni, non solo per esprimere condivisione o solidarietà con gli obiettivi politici della protesta, ma anche per assolvere la funzione di «gruppo di contatto». Il gruppo di contatto, sempre previsto durante le iniziative di disobbedienza, ha il compito di stabilire appunto un contatto appunto con chi gestisce l'ordine pubblico in piazza e chi lo governa politicamente. Serve a tentare di creare quello spazio pratico e politico per mediare la situazione, per informare la polizia delle richieste dei manifestanti ed i manifestanti sulle intenzioni della polizia. In particolare, al corteo del 20 luglio partito dal Carlini, i deputati Mauro Bulgarelli, Paolo Cento, Luana Zanella dei Verdi e Ramon Mantovani di Rifondazione comunista dovevano assolvere a questa funzione con altri, come il prosindaco di Mestre, il consigliere regionale veneto Gianfranco Bettin, e l'assessore di Venezia Beppe Caccia. Altro che libro nero dell'Inquisizione, come qualcuno ha tentato di orchestrare! Io li ringrazio pubblicamente per essere stati lì con noi, per averci aiutato in momenti drammatici. D'altronde è ridicolo parlare di grande scoop: lo avevamo annunciato a tutti i giornali. Anche io facevo parte del gruppo di contatto.


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Ci è stato impedito di praticare la disobbedienza civile. Qualcuno ha deciso di determinare uno scenario completamente diverso. Anche l'Arma dei carabinieri è stata uno degli strumenti fondamentali di tale forzatura. Ci domandiamo quali responsabilità abbiano quegli esponenti del Parlamento che, nelle ore più calde, stavano nelle caserme.
Ricordiamo ancora che, dopo i tragici fatti di Göteborg, il Genoa social forum aveva richiesto che durante il G8 le forze dell'ordine non avessero armi da fuoco. Il ministro Scajola assicurò che non c'era bisogno di un tale provvedimento: finché al Viminale ci fosse stato lui nessun agente avrebbe sparato. Ci risulta che a Genova alcuni dirigenti della Polizia di Stato abbiano, di loro spontanea volontà, fatto scaricare le armi da fuoco ai loro uomini. Purtroppo non è stata una scelta di tutti.
Consegno a questo Comitato un video sui fatti di Genova e chiedo che le violenze qui documentate, operate in gruppo da polizia e carabinieri, vengano prese in esame. Alcuni di loro sono riconoscibili ed identificabili. In particolare segnalo: al minuto 09 il pestaggio operato dagli agenti di PS a persone singole inermi; al minuto 10-11 il pestaggio di carabinieri in gruppo a un manifestante inerme, eseguito a viso scoperto; al minuto 12 il pestaggio fuori da corteo a persone con mani alzate operato da PS; ai minuti 13-15 le cure mediche in strada operate da personale volontario a persone ferite gravemente; al minuto 19 i lacrimogeni a pioggia lanciati dall'elicottero sui manifestanti; al minuto 20 le cariche a manifestanti a mani alzate; al minuto 22 l'irruzione alla scuola Diaz; al minuto 24 la testimonianza di una ragazza che era alla Diaz; al minuto 34 la testimonianza della dottoressa Lella Trotta sulla presenza di polizia all'ospedale San Martino.


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Voglio ribadire qui la mia solidarietà nei confronti di tutti coloro che sono stati feriti, aggrediti, violentati, minacciati da polizia e carabinieri in quei drammatici giorni. Voglio ribadire che chi ha tentato di difendersi da una furia omicida, chi ha cercato, anche inconsultamente, di far fronte ad una enorme violenza, in un caso è stato ucciso e in un altro è oggi detenuto con accuse gravissime come il tentato omicidio. Come può accadere che reagire ad un tentato omicidio o linciaggio per un manifestante diventi un'accusa contro di lui e per chi ha ucciso si parli solo di legittima difesa?
Chiudo questa memoria, che spero possa essere utile, con un unico pensiero: Carlo Giuliani, un giovane stroncato nel fiore della sua vita, da una violenza inutile. C'è chi ritiene in questo paese che sia stato più importante che il G8 non abbia subito interruzioni, anche a costo di uccidere. Io penso che Carlo, ed ogni essere umano, sia più importante di qualsiasi vertice. È questa la differenza di Carlo, mia, di noi tutti. Continuerò finché posso a gridarla anche per lui, con lui. Ciao Carlo, sei mio fratello.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare sull'ordine dei lavori l'onorevole Mancuso. Ne ha facoltà.
FILIPPO MANCUSO. Signor presidente, mi compiaccio per la riuscita del suo sforzo di pazienza (rappresentativo anche del nostro) nell'ascoltare questo tripudio, da parte mia veramente inatteso. Però, ciò detto, devo segnalare, come oggetto della nostra comune riflessione, questa circostanza. Il nostro Comitato - come lei sistematicamente ribadisce - ha fini di accertamento e non inquisitori. Però, ciò non significa che noi stessi siamo (com'è avvenuto testé) oggetto di inquisizione e, persino, che componenti del Parlamento vengano indicate come responsabili di questa impropria inquisizione. Infatti


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quello che è avvenuto è stato da tutti percepito nell'enorme gravità, politica, istituzionale ed umana; ciò, tuttavia, non basta, se non risolviamo questo problema; se, l'assalto che
abbiamo offensivamente tollerato, attraverso l'intervento del signor Casarini, non muti l'oggetto del nostro compito, e cioè che vada eliminato come funzione e come risultato di questa funzione, il termine inquisitorio. Noi inquisiti, secondo me, ingiustamente ed impropriamente, ma tutto sommato utilmente, non abbiamo a mutare la destinazione della nostra attività, includendo, almeno nel momento conclusivo, il compito inquisitorio, a cominciare dalla relazione del signor Casarini, che presenta, in parte, un carattere confessorio. Valuti lei e la ringrazio.
PRESIDENTE. La ringrazio, presidente Mancuso.
Sospendo brevemente la seduta. Invito tutti ad essere puntualmente presenti alla ripresa, in modo da mantenere il ritmo dei nostri lavori.
La seduta, sospesa alle 16, è ripresa alle 16,35.
PRESIDENTE. Comunico che abbiamo acquisito una cassetta che il signor Casarini ha ritenuto di consegnare al Comitato per la verifica dei tempi e dei fatti occorsi.
Non essendovi obiezioni, ricordo di aver già disposto l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.
GRAZIELLA MASCIA. Poiché questo Comitato di indagine deve conoscere i fatti e ricostruire le ragioni e le cause che li hanno determinati e siccome i documenti che abbiamo letto nel corso di queste settimane ricostruiscono anche i precedenti di Genova e tutti gli appuntamenti da Seattle in poi, vorrei chiedere a Casarini se mi può rappresentare nei pochi minuti


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che abbiamo a disposizione, che cosa è successo a Praga. Anche in quel luogo si sono verificati degli incidenti, ma mi pare che il corteo dei cosiddetti disobbedienti non sia stato coinvolto. Come mai lì non è successo nulla? In pochi minuti, mi può ricostruire quell'esperienza?
LUCA CASARINI, Portavoce del movimento «Tute bianche». A Praga il vertice del Fondo monetario internazionale era organizzato all'interno di un complesso, di cui non ricordo il nome, che aveva diverse entrate. Il corteo della disobbedienza civile, delle tute bianche e degli altri che avevano deciso di proporre come iniziativa simbolica e concreta il tentativo di valicamento di quella linea di «stop» - rappresentata dagli ingressi di questo complesso alberghiero sul quale si teneva il vertice - ha raggiunto uno degli ingressi, con le protezioni corporali (perché l'invasione doveva essere un'iniziativa di disobbedienza civile) in gomma poste alla testa del corteo per attutire i colpi e ha tentato di valicare questa linea.
All'interno di quest'ultima erano schierati dei carrarmati - credo per la prima volta dopo tantissimi anni - e davanti a loro tre-quattro file di agenti antisommossa. La cosa che mi ha colpito di più è che a Praga gli agenti innalzavano diversi striscioni in molte lingue, in particolare in italiano, e c'era un dirigente degli agenti che si rivolgeva a noi in italiano perché, conoscendo la nostra nazionalità, ci spiegava quali violazioni della normativa stavamo compiendo; in effetti, ci ha riferito che stavamo violando un certo articolo del loro codice e che questo avrebbe avuto come conseguenza il respingimento da parte loro del corteo della disobbedienza.
Mi ricordo perfettamente che lo stesso funzionario lo chiamava corteo della disobbedienza; questo fatto mi ha colpito, come pure sono rimasto colpito che avessero degli striscioni in varie lingue. Anche a Genova c'erano manifestanti


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di varie nazionalità, ma io non ho visto scritto nulla in inglese da parte di chi doveva gestire l'ordine pubblico.
Dopodiché abbiamo avanzato verso la linea della Polizia e la stessa ha caricato per alleggerimento, cioè ha tenuto la sua posizione; del resto, avremmo potuto fare ben poco, perché vi erano dei carrarmati, a meno che non ci innalzavamo sugli stessi. Un altro pezzo di corteo, i famosi pink, sono riusciti addirittura ad entrare all'interno del recinto, perché con il tipo di meccanismo visto anche a Genova - quello del corteo festoso - sono riusciti a superare la linea - contro di loro non avevano schierato i reparti antisommossa -, sono entrati e hanno occupato quello spazio.
Il nostro tentativo era di interrompere o, comunque, di contestare l'avvenimento. Tutto ciò è successo a Praga: noi abbiamo scelto di muoverci in questo modo, mentre da altre parti sono state organizzate altre iniziative.
GIANNICOLA SINISI. Vorrei chiederle se durante gli incidenti di via Tolemaide lei ha potuto constatare la presenza di un funzionario di polizia che dirigesse in qualche modo l'aliquota dei responsabili delle forze dell'ordine presenti; ci consta che era stata impartita una direttiva affinché funzionari di pubblica sicurezza indossassero la fascia tricolore: avete avuto un contatto o ha notato questa presenza?
LUCA CASARINI, Portavoce del movimento «Tute bianche». Io non ho notato alcun funzionario. Ero davanti perché facevo parte del gruppo di contatto e fino alla prima carica sono rimasto davanti, poi mi sono rifugiato dietro i primi scudi e successivamente c'è stato, ovviamente, un susseguirsi di cariche. Questo gruppo di contatto non ha potuto fare praticamente nulla, anche perché, al di là delle cariche, dall'altra parte mancava l'interlocutore. Non potevamo andare


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da quelli con il casco a scusarci e convincerli a fermarsi per poter discutere: di solito questo è preposto a chi dirige. Lì non c'era nessuno, tant'è vero che noi siamo tra i pochi che sono riusciti a vedere oltre l'angolo di via Tolemaide-corso Torino, perché la carica è avvenuta a freddo e moltissimi manifestanti non hanno neanche visto la fine di via Tolemaide.
Io ero davanti e non c'era alcun funzionario, ma semplicemente reparti che caricavano e lanciavano lacrimogeni.
ANTONIO SODA. Signor Casarini, lei ha svolto una serie di considerazioni sulle quali non esprimo in questa sede alcun giudizio. Nella relazione del Genoa social forum vi è in più passaggi una ferma condanna della violenza dei black bloc, vi è anzi un rilievo, un'accusa alle forze di polizia per non avere efficacemente isolato e contrastato queste forme di guerriglia urbana, nell'ottica che hanno nociuto, in primo luogo, allo stesso movimento. Sono indicati anche esempi ed episodi di collaborazione con le forze di polizia per l'individuazione di questi violenti, ma nella sua relazione non c'è nulla di tutto questo.
Lei, però, ha sostenuto di condividere la relazione del dottor Agnoletto: può essere chiaro su questo punto? Qual è questa cosiddetta filosofia della non violenza qui espressa? Che rapporti ha con la stessa e come si esprime nei confronti di essa e del suo contrasto?
La seconda domanda riguarda un particolare che emerge da alcuni video che noi abbiano acquisito.
La mattina del 20, ad un certo punto, si vede - all'altezza di corso Gastaldi - che dal corpo del corteo delle Tute bianche fuoriesce un gruppo di manifestanti che saccheggia e distrugge un'agenzia di service. Voi avevate consapevolezza, timore, che vi fossero, già dal mattino, infiltrazioni all'interno del corteo di questi gruppi o non ne avevate contezza?


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Terza domanda. Voi sapevate che il questore della provincia di Genova, con il provvedimento del 19 luglio, aveva reso illegale il corteo a partire da piazza Verdi, piazza della Vittoria, via XX Settembre, piazza De Ferrari e che ciò vi consentiva di proseguire lungo tutto corso Gastaldi e lungo tutta via Tolemaide. Le cariche, come si vede nel video, avvengono in via Tolemaide, dopo un primo scontro con una quarantina, una cinquantina di persone che si trovano prima degli scudi che costituiscono la testa del corteo e successivamente con il lancio di lacrimogeni alla testa del corteo. A fronte di questa ordinanza del questore, avete assunto la decisione di proseguire anche per piazza Verdi, piazza della Vittoria, via XX Settembre, piazza De Ferrari o avete deciso di fermarvi in fondo a via Tolemaide?
LUCA CASARINI, Portavoce del movimento «Tute bianche ». Per quanto riguarda la questione del black bloc e la violenza, credo di essere stato chiarissimo, anche se non vi ho fatto riferimento, in quanto mi sembra molto più importante - ve lo confesso - discutere di cosa ho visto e di cosa hanno visto centinaia di migliaia di persone in termini di violenza, diciamo così, legale. Mi sembra una cosa molto più inquietante. Non vi ho fatto riferimento, ma ho fatto riferimento, invece, ad una decisione politica e ad una differenza politica fondamentale. Intanto, il riconoscimento all'interno del Genoa social forum, che proclamava e si accordava su forme di azione non violente, pacifiche e di disobbedienza (è scritto sempre in tutti i documenti). Inoltre, ho fatto riferimento, in particolare, all'errore politico e culturale che noi individuavamo nel fatto di distruggere simboli o cose del genere.
Mi sembra che questo sia chiarissimo e inequivocabile - e lo risottolineo, se non lo fosse stato - e mi sembra che sia anche chiaro il fatto che chi non si riconosceva in questo tipo


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di percorso evidentemente non condivideva nemmeno il percorso dell'intero Genoa social forum, altrimenti non si capisce come mai...
Insisto su questo aspetto, perché il Genoa social forum è un grande punto di riferimento, ma non è tutto il mondo. Il Genoa social forum è un grandissimo punto di riferimento, ma è ovvio pensare che ci sono anche tanti che non sono d'accordo con il Genoa social forum, con le nostre posizioni e anche con la disobbedienza civile.
Per quanto riguarda noi, era chiarissimo: stava con noi chi voleva fare quel tipo di azione e l'avrebbe fatta nella maniera che ho descritto, per scelta e condivisione politica. Io posso discutere politicamente e spiegare perché non sono d'accordo con un altro, ma non posso continuare a parlare di questo fantomatico black bloc, quando io ho visto, invece, un'altra cosa che rispetto a queste mi sembra enormemente più grave. Ragionando su ciò, cito un autorevole esponente del suo partito; infatti, dire che c'è un'enorme violenza nel comportamento tenuto a Genova da Polizia e carabinieri non significa essere d'accordo con il black bloc, significa semplicemente dire che mi sembra inquietante che, mentre io non conosco i componenti il cosiddetto black bloc - e coloro che si sono comportati così hanno le loro convinzioni - so chi è e so cosa sta facendo chi ha la divisa dei carabinieri o della Polizia si sa a nome e per conto di chi agisce. Dunque, questo è il motivo per cui ho incentrato la mia relazione su tali aspetti.
Con riferimento alla seconda questione, io non ho visto quello che lei mi segnala, in quanto mi trovavo in testa al corteo e non so se ciò si sia verificato dietro al corteo. Certamente, se ci fosse stata una cosa del genere, i manifestanti che potevano, avrebbero contrastato o mandato via tali soggetti, in quanto era contrario agli obiettivi del nostro corteo


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distruggere non solo questa o quella agenzia, ma qualsiasi cosa. Se avessimo fatto una cosa del genere, saremmo andati contro le nostre convinzioni e chi la faceva nei nostri confronti aveva quale obiettivo quello di screditarci e non di compiere un'azione simbolica o cose del genere.
Per quanto riguarda la terza questione, vale a dire il contenuto dell'ordinanza del questore del 19 luglio, avremmo disubbidito nella maniera in cui abbiamo spiegato, ma forti di una consapevolezza. Esiste, infatti, un codice penale e un modo di procedere democratico - fino a prima dei fatti accaduti a Genova ero assolutamente convinto di ciò - in base al quale se, ad esempio, io rompo una vetrina - non è il mio caso, ma lo faccio appositamente in quanto è il caso più indicativo - commetto un reato, nei paesi democratici non c'è la pena di morte per questo, anche se è un errore. Se io violo una norma amministrativa che mi vieta di oltrepassare una strada e lo faccio, so che compio un illecito e che sarò punito per questo illecito, ma non è previsto il pestaggio quale sanzione di questo illecito. Questo è ciò che muove un ragionamento, anche di disobbedienza, che non significa portare all'escalation della violenza. Un picchetto davanti ad una fabbrica è una forma di violenza? L'occupazione di una casa è una forma di comportamento da black bloc? Si tratta di forme di espressione, anche di violazione delle norme costituite, che vanno discusse e su cui si può ragionate, ma che devono trovare - per quanto mi riguarda - in un paese democratico, una risposta che, ovviamente, deve essere commisurata a ciò che si compie. Che paese sarebbe questo se ad ogni violazione del codice della strada ci fosse una sparatoria? Non lo so.
MARCO BOATO. Più che una domanda a Luca Casarini, vorrei utilizzare il tempo a mia disposizione per una breve


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dichiarazione che faccio anche a nome del senatore Sauro Turroni, al fine di ridurre i tempi.
Dunque, anche a nome del senatore Sauro Turroni, ringrazio il signor Luca Casarini per la sua relazione, per la parte in cui dà il proprio contributo di protagonista alla ricostruzione dei fatti avvenuti in occasione del G8 e anche per il quadro internazionale che ha fornito.
Per quanto riguarda le valutazioni politiche, di carattere più generale, esse costituiscono oggetto e contributo per un dibattito politico utile, anche nei suoi riflessi istituzionali, che appartiene anche al Parlamento oltre che alla società civile, ma che non costituisce oggetto specifico di questo Comitato di indagine, costituito con l'esclusiva finalità dell'accertamento dei fatti connessi al G8 di Genova.
Non condividiamo il giudizio espresso, in sede di anomalo intervento sull'ordine dei lavori, dall'onorevole Mancuso, il quale più che sull'ordine dei lavori si è pronunciato sul piano politico e istituzionale in termini - a nostro parere - assai discutibili.
Poiché Luca Casarini ha consegnato due documenti (allegati alla relazione) utili alla ricostruzione dei fatti e un filmato (citato dal presidente) che esamineremo con attenzione, lo invito - se lo riterrà - a fornire al Comitato ulteriore materiale di documentazione che ritenesse utile all'indagine conoscitiva dello stesso Comitato.
Dal momento che, per tutti gli altri aspetti, Luca Casarini ha dichiarato di far parte di un movimento aderente al GSF e di riconoscersi nella relazione del dottor Agnoletto e degli altri rappresentanti che abbiamo oggi ascoltato, il collega Turroni ed io non riteniamo necessario rivolgere, ora, ulteriori specifiche domande.


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L'audizione specifica di Luca Casarini è stata richiesta dall'onorevole Fontanini della Lega e sostenuta in ufficio di presidenza dagli altri capigruppo del centrodestra. Richiesta del tutto legittima, ma da noi non condivisa, ritenendo esaustiva per le esigenze del Comitato la decisione di ascoltare nel loro insieme i rappresentanti del Genoa social forum, di cui lo stesso Luca Casarini fa parte, essendo membro del consiglio dei portavoce nominato in previsione delle iniziative dello stesso GSF per il G8. Essendo stata, quindi, questa audizione richiesta specificatamente in ufficio di presidenza dal rappresentante della Lega e sostenuta dagli altri capigruppo del centrodestra, confermiamo l'opinione da noi espressa in quella sede, pur ringraziando Luca Casarini per l'autonomo contributo che ha ritenuto di dare a questo Comitato, che abbiamo ascoltato con attenzione e che utilizzeremo nel quadro degli altri contributi e documenti via acquisiti.
MICHELE SAPONARA. Attesi i contenuti della relazione del signor Casarini, i parlamentari dei gruppi della Casa delle libertà in seno al presente Comitato ritengono doveroso, per il rispetto dovuto al Parlamento e alle pubbliche istituzioni, non porre alcuna domanda al signor Casarini, sulla base delle considerazioni esposte dall'onorevole Mancuso e, comunque, nella consapevolezza che nessun contributo obiettivo possa derivare dalle sue risposte.
PRESIDENTE. Mi pare che nessun altro voglia intervenire, pertanto vi ringrazio e ringrazio il signor Casarini, anche con riferimento alla sua eventuale disponibilità ad evadere la richiesta formulata dall'onorevole Boato. Ricordo che alle 18 il Comitato è convocato per l'audizione del ministro della giustizia.
Sospendo la seduta.


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La seduta, sospesa alle 16,55, è ripresa alle 18.