RASSEGNA STAMPA
IL MANIFESTO - Oggi, a Genova
Genova, 13 novembre 2008
OGGI, A GENOVA
GABRIELE POLO
Quelle immagini sono già un giudizio, ciò che manca ora è una sentenza. L'ultimo fotogramma, rimandatoci dalla Bbc, immortala un poliziotto mentre introduce - la notte del 21 luglio 2001 - nella scuola Diaz le due famose molotov poi esibite per giustificare un massacro di ragazzi inermi. E, aggiungendosi ad altre sequenze, chiarisce tutto. Se ce ne fosse stato ancora bisogno.
Scopre il velo di una mattanza messa in atto contro una generazione, per convincerla a starsene a casa per sempre, a lasciar perdere l'impegno pubblico e le passioni comuni - cioè la politica nel senso più alto del termine. Spiega un modo d'intendere il potere e le istituzioni come delega definitiva a una casta di «eletti» indisponibile a ogni messa in discussione e persino a ogni critica. Illumina sulla falsità della polizia e dei suoi vertici che nel corso degli anni si sono sempre più concepiti come apparato indipendente da ogni controllo, braccio armato e giudiziario allo stesso momento. E ci racconta - quell'immagine -, secondo i canoni della banalità del male, cosa abbia significato davvero la messa in mora dello stato di diritto di quelle giornate genovesi. Annuncio estremo di un processo che arriva fino ai nostri giorni.
Oggi, su quei fatti criminosi, si pronuncia un tribunale della Repubblica. Una sentenza impegnativa e difficile, perché sul banco degli imputati ci sono anche alcune figure di vertice della polizia di stato - da Luperi a Gratteri a Calderozzi - accusate di falso, proprio per aver avallato (se non diretto) il tragitto di quelle molotov. E, fuori dall'aula, alle loro spalle la sentenza chiamerà in causa l'operato dell'ex capo della polizia, Giovanni De Gennaro, oggi assurto all'altissimo rango di surpercapo dei servizi segreti. Logica vorrebbe - quell'immagine vorrebbe - che gli imputati fossero condannati e con quella sentenza «condannato» anche il loro ex capo. Non per spirito di vendetta, ma per dovere di razionalità. Per non ridurre il tutto ai soliti capri espiatori da trovare nella «manovalanza» (seppur in divisa). Perché così vorrebbero giustizia e verità. Per rovesciare il parere dell'avvocatura dello stato (cioè di questo governo, che era poi lo stesso di allora) che nonostante tutto li vorrebbe innocenti. Ma soprattutto perché le istituzioni della Repubblica acquisirebbero un minimo di credibilità, sanando - almeno in parte - gli abusi commessi contro persone inermi e, attraverso esse, contro la stessa Costituzione.
In gioco non c'è «solo» il giudizio sui crimini commessi: per quello basterebbero i fatti. Ma c'è anche il futuro di questo paese, se qui da noi sia o meno possibile prendere la parola, essere protagonisti del proprio futuro, agire pubblicamente senza che tutto questo sia sottoposto a un'autorità assoluta e incontrollabile. Insomma la libertà e i suoi diritti, quella democrazia di cui tutti parlano e che in troppi violentano ogni giorno.