RASSEGNA STAMPA
La Repubblica - False prove e pestaggi a sangue "Quella notte la legge fu calpestata"
Genova, 18 luglio 2008
False prove e pestaggi a sangue "Quella notte la legge fu calpestata"
La ricostruzione dell´assalto alla scuola, come un fortino nemico da espugnare
GENOVA - La «sistematica corruzione per una nobile causa», per dirla con le parole dei pm Francesco Cardona Albini ed Enrico Zucca, comincia nel tardo pomeriggio del 21 luglio 2001. Con la presunta aggressione da parte di «un gruppo di giovani vestiti di nero» ad una pattuglia che si trova a passare in via Cesare Battisti, all´altezza della scuola Diaz. E´ l´inizio di «una pagina nera nella storia della Polizia di Stato». L´assalto a pietrate all´auto degli agenti verrà smentito nel corso dell´inchiesta e del dibattimento. Ma intanto – siamo a quella notte di sette anni fa – l´episodio giustifica l´intervento, cui partecipano oltre duecento agenti. Decine di loro non sono mai stati identificati, e questo la dice lunga sullo spirito dei protagonisti. La «macelleria messicana» è quasi esclusivamente opera della "Celere" romana, agli ordini di Canterini. Gli agenti del VII Nucleo giureranno però di essere stati preceduti da altri sconosciuti colleghi. Di aver soprattutto soccorso i feriti. Gli ospiti della scuola alzano le braccia in segno di resa e gridano: «Pace!». Non serve a nulla. Vengono rotte le ossa, spaccate le teste, saltano i denti, qualcuno viene trascinato per i capelli giù dalle scale, una ragazza giace sul pavimento in coma.
La storia delle «ferite pregresse», cui s´appellano fin dall´inizio i poliziotti, verrà facilmente sbugiardata. Comincia la farsa della perquisizione, con l´elenco dell´arsenale sequestrato: decine di coltellini multiuso da campeggio, le sottili stanghe in alluminio sfilate dagli zaini e spacciate per spranghe, alcuni assorbenti intimi. Due mazze da muratore, un piccone ed un rastrello: risulteranno rubati da un vicino cantiere, con ogni probabilità dagli stessi agenti. Ecco un coltello «vero», di tipo militare: gli investigatori sospettano si tratti della lama usata per simulare il tentato omicidio di Massimo Nucera, l´agente che giura di essere stato aggredito da un ragazzo vestito di scuro – prima arrestato, e poi stranamente mischiatosi con gli altri no-global – e viene clamorosamente smentito dalle perizie sul suo giubbotto. Infine, la regina delle prove false. Le bottiglie incendiarie, le "armi da guerra" che per più di un anno sono state la dimostrazione che alla Diaz c´erano dei "terroristi". «Quasi per caso abbiamo scoperto che quelle molotov erano state sequestrate ore prima dalla polizia nel corso degli scontri», dicono i magistrati. Custodite in gran segreto in un furgone, le bottiglie vengono portate poco dopo la mezzanotte alla Diaz dall´autista del blindato, Michele Burgio, insieme al suo superiore, Pietro Troiani. Che adesso rischiano rispettivamente 4 e 5 anni di galera. Infilate in un sacchetto azzurro, finiscono tra le mani dei super-poliziotti che sono nel cortile dell´istituto. «E scatta una decisione comune, un ordine: perché quelle molotov servivano all´operazione, servivano ai dirigenti che dovevano rimediare alla figuraccia». Magicamente un minuto dopo le bottiglie compaiono dentro la scuola. Esposte come un trofeo, insieme agli altri oggetti sequestrati. «Mistero: nessuno dei super-poliziotti fa domande sul ritrovamento di questa "prova" decisiva», ironizzano i pm. «Si prendono i meriti dell´operazione. E zitti». Un anno dopo si scopre il bluff. Salta fuori il filmato di una televisione privata che immortala il conciliabolo tra i funzionari nel cortile. Sono loro: i generali, scesi in campo armati a fianco dei loro soldati. «Hanno fatto bene ad entrare nella Diaz, se temevano la presenza di Black Bloc», dice la procura. «Ma dovevano farlo secondo le regole. Invece, per quei servitori dello Stato là dentro c´era un "nemico" che andava eliminato. Calpestando la legge, se era il caso. "Dio è dalla nostra parte", si sono detti. Pensavano di fare il loro dovere. Ma hanno agito secondo una logica perversa. Fiduciosi che la loro illegalità sarebbe comunque stata tollerata, in tutte le sedi istituzionali. In nome della "nobile" causa».
(m.cal.)