RASSEGNA STAMPA

LIBERAZIONE - «Mettete in prigione il capo dell’antiterrorismo»

Genova, 18 luglio 2008

Richieste del Pm per il massacro alla Diaz Condanne per 28 poliziotti tra cui molti dirigenti
«Mettete in prigione il capo dell’antiterrorismo»
Chiesti 109 anni e 9 mesi di carcere per 28 dei protagonisti della notte cilena. Tra loro il capo dell'antiterrorismo e alti dirigenti
Diaz, i pm: la polizia che non rispetta regole è più pericolosa delle molotov lanciate

Checchino Antonini
Genova (nostro inviato)

«Speriamo che la Vostra sentenza riporti alla luce il principio che la polizia rispetti le regole». E ancora: le violazioni alle regole «minacciano la democrazia più delle molotov lanciate», dice il pm genovese Enrico Zucca in fondo alla lunghissima requisitoria e un istante prima di pronunciare la richiesta di condanna per 28, su 29, dei funzionari di polizia imputati per le violenze e gli abusi nella notte cilena alla scuola Diaz. Tra loro l'attuale capo dell'antiterrorismo e quello dei servizi segreti promossi, come molti dei colleghi "genovesi" nonostante la gravità delle accuse per quelle giornate di «sospensione del diritto», formula ricorrente nei discorsi di giudici e politici su quelle vicende.
Quella alla scuola Diaz, dormitorio per decine di manifestanti altermondialisti nei tre giorni del G8 2001, fu dunque un'«operazione degenerata», secondo la pubblica accusa che ha voluto spiegare i possibili moventi prima di elencare le richieste di condanna. Le botte, gli arresti arbitrari, la fabbricazione di prove false, la compilazioni di verbali fantasiosi non avvennero per «errore», né per «disordine» e nemmeno per «la tensione dei giorni precedenti». «Non è una vicenda da mano pesante, non ci furono solo le lesioni». Per Zucca si verificarono «episodi di devianza commessi da singoli in una realtà di diffusa violazione di norme considerate un impaccio». E se tutto ciò, per i pubblici ministeri, non configura la premeditazione, risponde comunque a un principio «inquietante», quello della «corruzione per nobile causa». Una sottocultura che allignerebbe nella polizia sintetizzabile nella formula: "Dio è dalla nostra parte soprattutto quando dall'altra parte ci sono gli infedeli, gli antagonisti". D'altra parte, il 3 luglio, iniziando la lunghissima requisitoria, lo stesso Zucca aveva ricordato quato fosse difficile processare un poliziotto. Difficile come in un processo per stupro, perché si tende a screditare la vittima. Difficile come un processo a un boss mafioso per la mole di omertà e coperture offerte dall'apparato. Più volte, nelle sette puntate di requisitoria, i pm (con Zucca ha lavorato Francesco Cardona Albini) hanno ripetuto la loro incredulità di fronte alle evidenze di una perquisizione violentissima e infruttuosa seguita dalla fabbricazione di contromisure per bilanciare quel flop sanguinolento. Ancora ieri, nella premessa alle richieste finali, è stato ricordato che i crismi per operare c'erano ma lo scempio fu il frutto di «un operato fallimentare». E, «in quel faticoso contesto», i funzionari agirono ritenendo «in una logica perversa di fare il loro dovere».
Centonove anni e nove mesi il monte pene su cui, in autunno, si pronuncerà il tribunale presieduto da Gabrio Barone. Un calcolo che ha tenuto conto delle attenuanti generiche rispecchiando la personalità degli imputati, «tutti hanno una carriera prestigiosa, incarichi difficili e godono della stima generale». Così, a prendersi la richiesta più alta sarà Pietro Troiani, accusato di aver portato le due molotov nella scuola. Il suo legale, l'ex guardasigilli Biondi, si stupisce che la condanna più alta sia stata chiesta per «un fattorino, per il "cireneo" che portò la croce, che solo si sgravò di un peso». Quattro anni e mezzo, per falso, calunnia e arresto illegale, sono stati chiesti per Francesco Gratteri, attuale capo dell'antiterrorismo, e per Giovanni Luperi, capo dell'ex Sisde. Loro i più alti in grado, quella notte, «generali sul campo», che hanno provato a sminuire il loro ruolo, smentiti, stando all'accusa, tanto dall'allora vicario di De Gennaro, Andreassi, tanto dal prefetto Micalizio che svolse l'indagine amministrativa all'indomani delle giornate del luglio 2001, oltre che dai video e da alcune relazioni di servizio. Le condotte delittuose furono commesse «con il concorso di questi comandanti. 4 anni e 6 mesi pure per Vincenzo Canterini, all'epoca comandante del I Reparto Mobile di Roma, il primo a mettere piede nella Diaz e a compiere misfatti. Un anno di meno per i Canterini boys, dal suo vice Fournier (quello che avrebbe gridato di smetterla ma tardivamente, secondo i pm, quello che avrebbe parlato di macelleria messicana ma scaricando su altri reparti la responsabilità) agli otto capisquadra Basili, Tucci, Lucaroni, Zaccaria, Cenni, Ledoti, Stranieri e Compagnone responsabili di non aver impedito i pestaggi.
4 anni e mezzo per gli altri componenti del «direttorio»: Gilberto Caldarozzi, all'epoca vice direttore dello Sco, per Filippo Ferri, dirigente della squadra mobile della Spezia, Massimiliano Di Bernardini, romano, vice questore aggiunto, Fabio Ciccimarra, vice questore aggiunto, napoletano, Nando Dominici, capo della squadra mobile di Genova, Spartaco Mortola, dirigente all'epoca della Digos di Genova e Carlo Di Sarro vice questore aggiunto presso la Digos di Genova. Sei mesi in meno per l'agente Nucera che simulò di aver subito una coltellata e per il suo capo Maurizio Panzieri che lo avallò nel verbale. Quattro anni anche per il commissario Gava che fece irruzione nella scuola di fronte, un «errore» a cui i pm non credono, ma che firmò i verbali della Diaz dove non era entrato. Stessa richiesta per Massimo Mazzoni dello Sco, il sovrintendente Renzo Cerchi, l'ispettore superiore Davide Di Novi e anche per Michele Burgio, autista di Troiani, il poliziotto che portò le molotov alla scuola Diaz a bordo del Magnum della polizia. Tre mesi a Luigi Fazio, accusato di percosse e assoluzione di Fabbrocini, estraneo ai reati commessi nel media center.
Nina, 30 anni, videoattivista spagnola, vittima della Diaz e di Bolzaneto dice a Liberazione che tutto ciò «è difficile da capire» nell'italiano fluente che ha imparato venendo a Genova per i processi. Lorenzo Guadagnucci, suo compagno di sventura, giornalista fiorentino, dice di essere stato colpito più dalle premesse che dalla richiesta di condanna: «C'è un messaggio per tutti, indipendentemente dall'esito di questo processo: la lesione alla democrazia c'è stata e la sentenza fornirà solo un pezzetto della risposta. La domanda è: da che parte sta lo Stato? Da quella delle vittime o da quella dei carnefici? «Decenza vorrebbe che i principali imputati, ora, fossero almeno sospesi in via cautelativa dai loro incarichi fino al pronunciamento della sentenza. La nostra sicurezza non può essere affidata a chi è accusato di reati talmente vergognosi», dice Vittorio Agnoletto, eurodeputato del Prc, all'epoca portavoce del Genoa social forum, chiedendo che sia Napolitano a esprimere a nome di tutti le scuse alle vittime di tali violenze. Resta il nodo della premeditazione, del disegno politico da cui è scaturita la «normale perquisizione», come la fece definire il capo della polizia dell'epoca, De Gennaro. Ora è il coordinatore di tutti i servizi segreti.