RASSEGNA STAMPA
LA REPUBBLICA - Beck. Ma un´altra protesta è possibile
Seattle, 29 novembre 2009
Beck. Ma un´altra protesta è possibile
RICCARDO STAGLIANÒ
Il no global è morto? Viva il no global. Ulrich Beck, sociologo e teorico della «società del rischio», diffida chiunque voglia azzardare un de profundis per i contestatori che invasero Seattle. Quel grido solitario è diventato un mugugno condiviso. E non è detto che, nel derubricamento dalle avanguardie alla massa, non riesca così a sortire maggiori conseguenze. Che ne è del movimento a dieci anni dalla sua comparsa sulla scena internazionale?
«Lei vuol sapere se il movimento di protesta no global - che in realtà era un movimento globale di protesta alternativa - che ha lottato anche nelle strade di Genova, contestando radicalmente il sistema capitalistico e lo squilibrio tra Nord e Sud, abbia oggi perso il suo impeto. Non ne sarei così sicuro».
«Anzi, potrebbe anche essere vero il contrario. Larghe fette della popolazione, inclusa la classe media e gli intellettuali, sono diventate simpatizzanti della loro critica radicale. Da questo punto di vista potrebbe trattarsi di una vittoria a scoppio ritardato».
Ci spieghi meglio...
«Il fatto è che esiste un piccolo sporco segreto, ed è il seguente: tutte le cose che mettono a rischio il mondo, tipo il cambiamento climatico e la crisi finanziaria, sono legali! Sono stati i governi, d´accordo con diversi gruppi di specialisti e la benedizione della democrazia, ad aver prodotto i rischi globali. Per questo i movimenti sociali non hanno perso il loro potere ma piuttosto il monopolio sulla critica radicale al fondamentalismo del mercato neoliberale. Voglio dire che quando la domanda "ci potremo fidare di nuovo del mercato?" si trasforma in una preoccupazione di quasi tutti, a quel punto i movimenti sociali diventano invisibili».
Lei sta dicendo dunque che le loro istanze si sono spostate dalle frange al mainstream, sono state interiorizzate nel discorso pubblico più moderato?
«Sì. Ma c´è anche un secondo punto che dobbiamo affrontare. Dove e quando le idee basilari di nazionalismo, comunismo, socialismo e neoliberalismo falliscono e la gente se ne accorge, allora scatta la domanda: "Qual è l´alternativa?". E qui si evidenzia una debolezza essenziale non solo dei movimenti di protesta ma ancor più dei partiti politici, degli economisti e degli scienziati sociali».
Questo non ci tranquillizza però. Ci sarà pure qualcuno al quale rivolgerci per avere risposte nuove?
«La domanda giusta da farci è: cosa è stato messo in pratica? Da una parte bisogna chiedersi fino a che punto esiste un nuovo tipo di coalizione tra i gruppi non governativi e i governi per tentare di far applicare nuovi regolamenti e norme transnazionali che sovrintendano al sistema finanziario o a un cambiamento in direzione ecologica della produzione. E dall´altra se ci sono coalizioni possibili tra i movimenti sociali e il capitale tali da rendere la visione di una globalizzazione alternativa parte delle politiche delle compagnie transnazionali».
Se questi sono i criteri, i risultati sembrano per il momento scarsi. E quindi, forse, ai no global resta ancora un ruolo. O no?
«Ci sono molti luoghi e strategie per la "protesta no global": non solo le strade ma anche internet, non esclusivamente i vertici del G8 ma anche l´azione diretta e la cooperazione con i governi nazionali, le organizzazioni internazionali tipo Wto e Fondo monetario internazionale, così come nella relazione con soggetti cosmopoliti e frazioni del capitale globalizzato».
È ottimista sul fatto che queste «coalizioni» possano davvero formarsi? E che un cambiamento reale possa prodursi?
«Se mi chiede se stiamo già assistendo a un cambiamento reale e sostenibile nella politica, la risposta è ovviamente no. C´è invece un cambiamento semantico. In tempi di crisi esistenziale i movimenti sociali perdono sostegno non perché la gente ignora i problemi ma perché conoscendoli alza i muri della propria nazione per ripararsi dietro di loro. Io credo quindi che la situazione sia aperta: non c´è dubbio che i movimenti di protesta abbiano perso un po´ del loro potere definitorio del discorso pubblico e della politica. Ma d´altra parte, dal momento che hanno vinto - almeno dal punto di vista "semantico", facendo interiorizzare il tema - un movimento di protesta più grande, sostenuto da parti maggioritarie della popolazione, è ancora possibile».