RASSEGNA STAMPA
IL MANIFESTO - Cossigheide, dal caso Moro a Berlusconi
Roma, 18 agosto 2010
Cossigheide, dal caso Moro a Berlusconi
di Ida Dominijanni
L'ombra di Moro accompagna la vita di Francesco Cossiga come un'impronta indelebile: «Se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle è per questo: perché mentre lasciavamo uccidere Moro, me ne rendevo conto». Sono parole sue, confermate da successive, ripetute ammissioni, questa del 2001 ad esempio: «Io ho concorso a uccidere o a lasciar uccidere Moro quando scelsi di non trattare con le Br, e lo accetto come una mia responsabilità, a differenza di molte anime belle della Dc. Altri si sono scoperti trattativisti in seguito, ma io ero e resto convinto che lo Stato sia un valore».
Capelli bianchi, macchie sulla pelle: tecnicamente si chiama «incorporazione del lutto», e capita quando un lutto accompagnato da sensi di colpa si trasforma in un fantasma persecutorio. Non c'è notizia invece di tracce corporee imputabili ad altri lutti della democrazia italiana, cui il ministro degli interni dei cosiddetti anni di piombo, il famoso Kossiga con la K, non fu estraneo: Giorgiana Masi, Roma 1976, Francesco Lorusso, Bologna 1977. Anche a questo proposito non mancheranno però successive e puntuali rivendicazioni, come l'orazione in Senato del 2 agosto 2001 contro la sfiducia a Scajola per i fatti di Genova: «Anni fa un ministro dell'interno sgombrò Bologna con i carri cingolati dell'Arma dei carabinieri, e nessuno ne chiese le dimissioni. Anni fa in un violento attacco a reparti di carabinieri cadde un giovane autonomo, e nessuno chiese le dimissioni del ministro. Anni fa in eventi ancora oscuri Giorgiana Masi cadde dall'altra parte di un ponte, e nessuno chiese le dimissioni del ministro».
Ancora nel 2008 del resto non furono da meno i consigli a Bobo Maroni su come affrontare le manifestazioni dell'Onda: «Faccia quello che feci io, ritiri le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltri il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasci che per una decina di giorni i manifestanti mettano a ferro e fuoco le città; poi, le forze dell'ordine dovrebbero mandarli tutti in ospedale senza pietà».
Questo era stato il Cossiga della Prima Repubblica, ministro degli Interni ai tempi non solo dei fatti suddetti ma anche di Ustica, e della strage di Bologna che a un certo punto attribuì alla «resistenza palestinese»: era l'uomo convinto che lo Stato sia un valore, e che questo valore si difenda con questi metodi. Poi venne l'inquilino del Quirinale convinto che lo Stato di valore non ne avesse più alcuno, e che la prima Repubblica dovesse dissolversi nella seconda. Nessuno meglio di lui, del resto, sapeva che la prima era finita con Moro nel '78. E nessuno più di lui si convinse che l'89 chiudeva definitivamente, col bipolarismo mondiale, la ragion d'essere di una politica nazionale finalizzata, dal '48 in poi, all'obiettivo primario dell'esclusione dei comunisti dal governo.
Furono gli anni del Grande Picconatore, delle "rivelazioni"sul passato nazionale fatte col contagocce o vomitate fluvialmente secondo l'occorrenza, e culminate nelle ammissioni del '92 su Gladio, la struttura paramilitare atlantica istituita in Italia nel dopoguerra per neutralizzare il pericolo rosso: fu la prova che la nostra era sempre stata una repubblica a sovranità limitata, ma fu anche il lasciapassare, alquanto sinistro, dell'allora presidente della Repubblica a un cambio di regime.
Non solo per questo, del resto, Cossiga può essere considerato il traghettatore dalla prima alla seconda Repubblica: si deve a lui, ad esempio, l'inizio della pratica delle esternazioni e dell'uso politico dei media che con Berlusconi sarebbe diventata corrente. E si deve a lui e alle sue picconate, più in profondità, la rottura del regime del vero e del falso che nel bene e nel male aveva caratterizzato la vita istituzionale del primo quarantennio repubblicano, e che con lui, prima che con Berlusconi, si trasforma in un regime in cui tutto è dicibile perché nulla è verificabile: una trasformazione che intacca l'aura stessa del Sovrano e la sua credibilità.
Del resto: «Io non sono matto, faccio il matto. Sono il finto matto che dice le cose come stanno», così una volta Cossiga su se stesso. Delle molte cose finto-matte dette, anticipate, profetizzate, nonché realizzate da lui stesso in prima persona con il potere non residuale che aveva mantenuto dopo il settennato al Quirinale, almeno due sono da ricordare. La prima è la sua benedizione al governo D'Alema, novembre '98: nove anni dopo l'89, c'era da fare la guerra in Kosovo e un ex- comunista poteva finalmente entrare a palazzo Chigi. La seconda è una sua diagnosi del '97, quando il picconatore decretò che il Polo berlusconiano si avviava a una lenta agonia, e che una volta indebolitosi ulteriormente l'allora Pds, si sarebbero aperte le porte a un centro-destra gollista. Gianfranco Fini, all'epoca, ne fu entusiasta.