RASSEGNA STAMPA
SECOLO D'ITALIA -
Ripensare il G8:
legalità è garantismo
Genova, 4 novembre 2010
L'unica parte "da cui stare" è quella della ricerca della verità
Ripensare il G8:
legalità è garantismo
di Filippo Rossi
Serve un po' di coraggio per riaprire vecchie ferite. Soprattutto se si sa che a riaprirle faranno di nuovo male, e forse ne apriranno a loro volta di nuove. Ma ci sono fatti, storie, eventi che non si possono consegnare al dimenticatoio, né si possono lasciare in pasto alle retoriche incrociate, alle strumentalizzazioni postume. Ci sono episodi da "ripensare", insomma. E proprio per "ripensare" i fatti del G8 di Genova, che nove anni fa traumatizzarono l'Italia e che rientrano pienamente nella categoria delle "storie da non gettare nell'oblio", con Caffeina Magazine in collaborazione con Current tv (che trasmetterà l'appuntamento nei prossimi giorni) abbiamo deciso di organizzare - domani a Viterbo presso Libreria del Teatro - un incontro tra il direttore del Secolo Luciano Lanna, Carlo Bonini di Repubblica e Peter Gomez del Fatto.
Un'occasione di confronto "a freddo", in vista del decennale del prossimo anno, per ragionare sulle responsabilità e sulle colpe, sulla "legge" e sulla legittimità della forza, sul diritto e sul rispetto della persona. Per "ripensare", insomma, e non per "riscrivere". Quel che interessa è ragionare sui giudizi espressi e non solo raccontare i fatti. Perché di questo si deve parlare, quando si affronta il caso G8: al centro della discussione su quel "dramma nazionale" non può che esserci un'idea possibile (e autentica) di legalità.
È quello il tema al centro, è quella la parola da declinare. Perché ci sono cose che non si "contestualizzano", che non si misurano, che non si pesano col bilancino. E la legalità è una di queste. È per questo che è essenziale ripensare il G8 "da destra": per declinare la legalità in tutte le sue sfaccettature senza farne solo una parola buona per una qualsiasi campagna elettorale.
Parlare di Genova, a quasi dieci anni di distanza, dunque, è parlare di legalità. E significa farlo per davvero, senza slogan consolatori, né propaganda; senza ipocrisie. Perché la legalità non è e non può essere uno slogan, perché la legalità non è e non può essere una "parola magica" astratta e inconsistente. Un contenitore vuoto da usare con disinvoltura e, con altrettanta disinvoltura, da gettare via. Utile per qualche polemica, per qualche battaglia "contingente". E poi, arrivederci. Legalità che diventa "legge e ordine", che diventa "forza", che diventa "difesa". È anche quello, ci mancherebbe. Ma la legalità è innanzitutto un abito mentale, un modo di pensare lo Stato. Ed è un abito mentale che si declina insieme alla libertà. Perché la legalità significa, in profondità, libertà. Perché è la colonna vertebrale di uno stato di diritto, è il dna che rende una democrazia tale. Sì, legalità è libertà, a pensarci bene. Ed è anche garantismo. Non può esistere vera legalità senza la garanzia dei diritti dell'individuo, di ogni individuo, di qualsiasi individuo: anche il peggiore dei criminali. Non esiste legalità che non stia (anche) dalla parte di Caino. Dei diritti assoluti di Caino.
Legalità è rispetto delle regole ma soprattutto della dignità della persona; è rispetto della legge, da parte di tutti. E soprattutto da parte di chi ha il ruolo di far rispettare le regole del vivere civile. Insomma, senza legalità non c'è convivenza civile possibile. Forse - come ha detto una volta Carlo Bonini, parlando del suo Acab, All cops are bastards - «lo Stato per ragioni diverse preferisce, con un pizzico di cinismo e di rimozione, che nel paese le responsabilità vengano scaricate in quella che si chiama la "parabola del fusibile": il celerino, per esempio. Però lo Stato non può "esaurirsi" nelle spalle piccole ed esili di chi è in prima linea». E dunque parlare di questo, di tutto questo, è parlare di legalità. E farlo non è mai comodo. Perché significa anche scardinare alcuni dei pilastri della retorica che dà forma e sostanza a un certo modo di "stare a destra", che prevede la scelta di "una parte" a prescindere. Ma non ci deve essere per forza una parte dove stare. Piuttosto, serve riscoprire il gusto della verità. Come nel caso del G8 e dei fatti della Diaz, appunto.
La memoria corre a quel che scriveva Annalisa Terranova sul Secolo d'Italia a G8 di Genova ancora "caldo": «Personalmente, la morte di Giuliani mi ricorda quella di Stefano Recchioni, ucciso nel '78 da un capitano dei carabinieri, fuori dalla sezione missina di via Acca Larenzia... Non ho simpatia, e chi ha la mia stessa storia non può avere simpatia, per questo tipo di "circolari" non scritte, non può che nutrire un salutare sospetto per queste forme di tutela dell'ordine pubblico». Anche da destra - ci viene da dire, soprattutto da destra - devono nascere questi dubbi: proprio perché sicurezza e legalità sono parole fondamentali devono essere declinate con il massimo del garantismo possibile. Come nel caso di Gabriele Sandri, per fare un altro esempio. O, ancora, come nella storia tragica di Stefano Cucchi che, per fortuna, ha visto il Secolo e Ffwebmagazine in prima linea per difendere i diritti di un ragazzo e di una famiglia che voleva, che vuole conoscere la verità di un sopruso. Un'attenzione legalitaria e garantista, da destra, confermata dal fatto che Gianfranco Fini presenterà il libro della sorella di Stefano Cucchi, Ilaria.
Sulla chat raccontata da Bonini nel suo libro, per tornare al caso di Genova, in molti se la presero col "traditore" Michelangelo Fournier, il vicequestore aggiunto del primo Reparto mobile di Roma che durante il processo raccontò come erano andate le cose. Che parlò di "macelleria messicana". Solo uno, anche lui, come tutti, anonimo, lo difende snocciolando domande che vale la pena di rileggere: «Non capisco perché non vogliate parlare degli errori commessi. Qui si tratta di dire chiaramente: i colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no? I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no? I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no? La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di "uno a zero" dimostra di essere intelligente? Su queste cose non ci può essere ambiguità!!!». Ecco, queste domande, una destra legalitaria, costituzionale e libertaria non può non farsele. E non può non rispondere. Senza zone grigie.
Perché uno Stato democratico non può nascondersi dietro la reticenza degli apparati burocratici. Perché verità e legalità devono essere "uguali per tutti", come la legge. Perché non è possibile che, in uno Stato di diritto, ci sia qualcuno per cui questa regola non valga: fosse anche un poliziotto, un carabiniere, un militare, un agente carcerario o chiunque voi vogliate. Non può esistere una "terra di mezzo" in cui si consente quello che non è consentito, in cui si difende l'indifendibile, in cui la responsabilità individuale va a farsi friggere in nome di un "codice" non scritto che sa tanto, troppo, di omertà tribale. Di quell'omertà da casta militare e militarizzata raccontata magistralmente nel film - appunto - Codice d'onore. No, non è questa la legalità che serve al paese. Anzi, non è questa la legalità, punto e basta.
E allora "ripensare" il G8 può e deve essere un passo importante, per una destra (ma diciamo pure per un paese) che si merita di risvegliarsi, finalmente, per quello che essa è. Senza bava alla bocca, dunque, senza trincee, senza "buoni o cattivi", senza doversi chiedere ossessivamente "da che parte si deve stare". Perché l'unica parte giusta è quella della ricerca della verità.