PROCESSO DIAZ - La sentenza
14. Valutazione delle responsabilità
Operazione presso la scuola Diaz Pertini
Valutazione delle responsabilità
Non appare innanzitutto superfluo, attesa la rilevanza mediatica del presente procedimento e le generali aspettative circa le sue conclusioni, ricordare che il compito di questo Collegio è esclusivamente quello di valutare, secondo le regole stabilite dalla normativa vigente, gli elementi probatori acquisiti in giudizio, ed in base a tali elementi accertare quindi le eventuali responsabilità personali dei singoli imputati in ordine ai reati loro specificamente ascritti.
Esula dunque da tale giudizio qualsiasi diversa valutazione complessiva, di natura politica, sociale od anche di semplice opportunità, circa i fatti in oggetto.
Operazione presso la scuola Diaz Pertini
Secondo l’impostazione accusatoria più radicale l’operazione presso la Diaz Pertini avrebbe avuto sin dall’origine la natura di una sorta di “spedizione punitiva”, consapevolmente organizzata da coloro che rivestivano funzioni apicali nella Polizia.
La stessa pubblica accusa, peraltro, non ha fondato le sue valutazioni su tale tesi, coltivata soltanto dalle difese di alcune parti civili, anche se nella sua memoria conclusiva ha affermato che le giustificazioni addotte dagli imputati circa “il contesto di guerra evocato dalle immagini degli atti vandalici operati da gruppi di contestatori” avrebbero reso “esplicita una logica del nemico che ha caratterizzato l’agire delle forze di polizia e che colora di rappresaglia i propositi investigativi e repressivi concepiti alla base della disgraziata operazione, sia pur in astratto legittimi”.
La tesi in esame potrebbe in effetti apparire avvalorata dal fatto che le violenze all’interno ed anche all’esterno della scuola Diaz risultano compiute non da sporadici operatori spinti da attacchi d’ira momentanei, bensì da un gran numero di agenti, appartenenti non solo al VII nucleo di Roma ma anche ad altri reparti (va richiamato in proposito quanto già osservato nella “Ricostruzione dei fatti” circa le divise ed i caschi indossati dagli operatori che colpivano coloro che si trovavano nella scuola, nonché il tipo dei manganelli dai medesimi utilizzati, che, se da un lato indica la prevalenza degli appartenenti al VII Nucleo, non esclude affatto, peraltro, che le violenze siano state poste in essere anche da operatori di diverse provenienze).
A conforto di tale tesi accusatoria si pongono inoltre sia le dichiarazioni di diverse vittime circa la sistematicità delle violenze e dei colpi inferti, sia in particolare quanto riferito dal Pref. Andreassi circa l’intervenuto mutamento della situazione e la volontà di “passare ad una linea più incisiva, con arresti, per cancellare l’immagine di una polizia rimasta inerte di fronte agli episodi di saccheggi e devastazione”.
Va peraltro osservato che la sistematicità nelle violenze poste in essere dagli operatori potrebbe anche essere attribuita alla sensazione riportata dalle vittime che, colpite più volte e con notevole forza, come risulta dalle gravi ferite riportate da alcune di loro, potrebbero in effetti aver avuto la concreta e certamente giustificata percezione di un’attività violenta sistematica, anche nel caso in cui in realtà si fosse trattato invece di sequenze di colpi non programmate con precise finalità e modalità.
Per quanto attiene alle dichiarazioni del Pref. Andreassi deve rilevarsi che le stesse riferiscono in effetti un mutamento nella strategia della polizia, ma certamente legittimo ed anche giustificato. Tenuto conto invero di quanto avvenuto nei giorni precedenti, in cui a fronte delle devastazioni e saccheggi posti in essere in varie parti della città la polizia era rimasta pressoché inerte o comunque non era riuscita a intervenire efficacemente, una volta concluso il vertice e con la partenza dei capi di stato, era possibile dedicare tutte le forze dell’ordine ad individuare ed arrestare i colpevoli di dette devastazioni, come del resto richiesto da gran parte dei cittadini genovesi.
Tali direttive dunque non possono essere interpretate univocamente come volte a disporre o ad autorizzare “spedizioni punitive” o “rappresaglie”, bensì semmai a indurre le forze dell’ordine ad agire nell’ambito delle loro finalità tipiche, per identificare cioè i colpevoli e arrestarli.
La decisione di procedere alla perquisizione della Diaz, scaturita nel corso della prima riunione in Questura, appare in effetti caratterizzata dal mutamento di strategia indicato dal Pref. Andreassi, ma non risulta acquisito, pur nell’approfondita istruttoria compiuta nel corso del dibattimento, alcun elemento concreto che possa far ritenere provato che detta operazione fosse diretta ad organizzare una “spedizione punitiva” contro gli autori delle violenze e delle devastazioni avvenute nei giorni precedenti, ovvero a procedere ad arresti indiscriminati di persone anche estranee a dette devastazioni, al solo fine di dare la sensazione dell’efficienza delle forze dell’ordine.
Per sostenere tale ultima tesi dovrebbe del resto ipotizzarsi l’esistenza di un vero e proprio complotto organizzato in precedenza anche con la preventiva creazione di prove false a carico degli occupanti del complesso scolastico Diaz; ma a parte la carenza di prove concrete in proposito, appare assai difficile che un simile progetto possa essere stato organizzato e portato a compimento con l’accordo di un numero così rilevante di dirigenti, funzionari ed operatori della polizia, per di più provenienti da diversi corpi ed uffici delle forze dell’ordine, di norma tutori del rispetto della legge, e comunque ben consapevoli dei notevoli rischi che avrebbero corso, specialmente in considerazione del numero delle persone che necessariamente avrebbero dovuto esserne al corrente.
E’ certo che lo svolgimento di tutta l’operazione e le violenze poste in essere possono costituire, come già rilevato, un indizio quanto meno del carattere di “rappresaglia” dell’operazione, ma deve anche riconoscersi che un indizio anche grave non può valere quale valida prova di un fatto.
Va anche osservato che dirigenti al vertice della polizia, quali La Barbera, Luperi, Gratteri, ben difficilmente avrebbero avvisato i giornalisti di quanto si stava compiendo e si sarebbero recati sul posto, nonostante la loro presenza fosse del tutto inconsueta e per nulla necessaria, di fronte alle reti televisive nazionali ed estere più diffuse, qualora fossero stati consapevoli che si sarebbe trattato di una “spedizione punitiva”, ovvero di un’operazione creata ad arte con prove false. Appare assai più verosimile che, come si dirà in seguito, fossero invece convinti che l’operazione avrebbe avuto un rilevante successo e si sarebbe conclusa con l’arresto dei responsabili delle violenze e delle devastazioni dei giorni precedenti e quindi con un notevole rilievo positivo da parte dei media.
La stessa pubblica accusa nella sua memoria conclusiva (f. 564) afferma: “… La finalità di riscatto in termini di immagine è esemplarmente provata addirittura dalla originaria programmazione in loco di conferenza stampa e dall’esibizione dei reperti sequestrati ai giornalisti e cineoperatori, la cui presenza era stata assicurata proprio ad opera degli organizzatori del raid …”
Né appare di rilievo la modifica delle dichiarazioni rese dal teste Colucci circa l’iniziativa di avvisare il dr. Sgalla, Direttore dell’Ufficio Pubbliche Relazioni, inizialmente attribuita al dr. De Gennaro, all’epoca Capo della Polizia (cfr. s.i.t. 16/12/2002), e successivamente indicata in dibattimento come propria (ud. 3/5/2007). Si è già osservato infatti che è assai probabile che l’operazione rientrasse nel “mutamento di strategia” indicato dal Pref. Andreassi, ma che non sussiste alcuna prova concreta che con tale “mutamento di strategia” si intendesse autorizzare o disporre “spedizioni punitive”, “rappresaglie” o arresti indiscriminati di innocenti. Anche qualora l’iniziativa di chiamare il dr. Sgalla fosse stata in effetti presa dal dr. De Gennaro, avvisato dal dr. Colucci dell’operazione che si era deciso di compiere, ciò non potrebbe che confermare quanto già rilevato circa la convinta generale aspettativa del suo successo con l’individuazione e l’arresto dei responsabili delle devastazioni e saccheggi dei giorni precedenti e quindi con un notevole rilievo mediatico, ma non certamente valere a provare un disegno criminoso volto ad organizzare spedizioni punitive. Va infine anche osservato in proposito che, attesa l’irrilevanza di tale circostanza in ordine all’accertamento dei fatti e delle responsabilità oggetto del presente procedimento, non appare in alcun modo necessario valutare in questa sede se le diverse indicazioni fornite dal dr. Colucci siano attribuibili ad un erroneo ricordo o alla volontà di lasciare il dr. De Gennaro completamente estraneo ad ogni iniziativa circa l’operazione alla Diaz.
Deve dunque ritenersi del tutto sfornita di prove certe e concrete sia l’esistenza di un preordinato “complotto” in danno degli occupanti della Diaz sia la caratteristica di “spedizione punitiva” dell’operazione.
Occorre comunque valutare la legittimità dell’operazione, accertando cioè se la perquisizione sia stata disposta in presenza dei necessari presupposti di legge.
Come più ampiamente esposto nella “Ricostruzione dei fatti”, a cui si rimanda per quanto qui non ripetuto, già al mattino era stata effettuata un’analoga operazione, con esito positivo, presso la scuola Paul Klee; vi erano inoltre state diverse segnalazioni, non solo di danneggiamenti avvenuti nei pressi del complesso scolastico Diaz Pertini, ma della presenza di giovani vestiti di nero che entravano nella Pertini, di un gruppo sempre di giovani vestiti di nero che il venerdì aveva cercato di entrare nella Pascoli, di giovani sul terrazzo della Pertini che smontavano i ponteggi, recuperando aste di metallo e bulloni, ed era infine avvenuto l’episodio in cui era stata coinvolta la pattuglia che transitava in via Battisti, che, anche qualora si fosse verificato secondo le modalità meno violente descritte dagli stessi manifestanti, integrava pur sempre un’aggressione alla pattuglia, tale da indurre giustificatamente i dirigenti delle forze dell’ordine a ritenere che nella scuola non si trovassero soltanto manifestanti pacifisti, no global, vicini al GSF, ma anche facinorosi e appartenenti al c.d. black block.
Il sopralluogo effettuato dal dr. Mortola, che aveva notato nei pressi della scuola persone vestite di nero e con aspetto “poco raccomandabile ed aggressivo”, la successiva telefonata a Kovac circa le persone presenti alla Diaz, gli avvenimenti della giornata (quale quello del furgone dal quale venivano distribuite mazze e bastoni, nonché la successiva perquisizione con esito positivo alla Paul Klee) e le diverse segnalazioni ricevute dal 113 (tutti eventi già più ampiamente descritti nella “Ricostruzione dei fatti”), inducono in effetti a concludere che del tutto giustificatamente venne ritenuto che nella scuola si potessero trovare appartenenti al black block, responsabili delle devastazioni e saccheggi avvenuti nei giorni precedenti, e quindi le armi, proprie o improprie, dai medesimi utilizzate.
Deve dunque riconoscersi che la perquisizione venne disposta in presenza dei presupposti di legge.
Ciò che invece avvenne non solo al di fuori di ogni regola e di ogni previsione normativa ma anche di ogni principio di umanità e di rispetto delle persone è quanto accadde all’interno della Diaz Pertini.
Ed invero, anche qualora le forze dell’ordine fossero state fondatamente certe che all’interno dell’istituto si trovassero esclusivamente appartenenti al black block o comunque pericolosi terroristi, non sarebbero state per nulla autorizzate, neanche in tale ipotesi, a porre in essere le violenze descritte dalle vittime e a picchiare indiscriminatamente tutti coloro che vi si trovavano, qualora questi non avessero posto in essere atti violenti nei loro confronti.
Come è noto infatti l’uso della forza è consentito soltanto se necessario per superare la resistenza posta in essere da coloro che si oppongono alla legittima attività degli agenti, e deve essere pur sempre proporzionato agli atti compiuti dai resistenti.
Afferma la Suprema Corte in tema di uso delle armi:
“Perché possa riconoscersi la scriminante dell'uso legittimo delle armi, quale prevista dall'art. 53 cod. pen., occorre: che non vi sia altro mezzo possibile; che tra i vari mezzi di coazione venga scelto quello meno lesivo; che l'uso di tale mezzo venga graduato secondo le esigenze specifiche del caso, nel rispetto del fondamentale principio di proporzionalità” (Sez. IV, 15/11/2007 - 10/01/2008, Saliniti, in CED Cass. n. 238335).
Ora, quale tipo di resistenza violenta avrebbero potuto porre in essere ad esempio Elena Zuhlke (che riportò, tra l’altro, la frattura di diverse costole con pneumotorace) di corporatura certamente assai esile, di fronte agli agenti di ben più notevole corporatura ed in divisa antisommossa e, che probabilmente con un solo braccio avrebbero potuto immobilizzarla ? O quale resistenza attiva e violenta avrebbe potuto porre in essere Arnaldo Cestaro (di anni 62) per costringere gli operatori a reagire, provocandogli la frattura dell’ulna e del perone ?
Risulta dunque evidente che, come del resto dichiarato da tutti coloro che si trovavano all’interno della scuola Diaz Pertini e come già più diffusamente osservato nella “Ricostruzione dei fatti”, la violenza posta in essere dalle forze dell’ordine non fosse, almeno nella maggioranza dei casi, diretta a superare specifici atti di resistenza e deve altresì riconoscersi che non vi è in atti alcuna prova di generali e diffusi atti di resistenza violenta posti in essere nei confronti delle forze dell’ordine, ma semmai, soltanto di alcuni isolati episodi, quale quello che vide coinvolto l’agente Nucera o quelli riferiti dai capi squadra e da qualche operatore.
Anche tali singoli atti violenti comunque non avrebbero potuto giustificare l’uso della forza in modo indiscriminato nei confronti di quasi tutti coloro che si trovavano nella scuola, ma, come si è detto, nei soli confronti di coloro che si fossero violentemente opposti alle forze dell’ordine.
Quanto avvenuto in tutti i piani dell’edificio scolastico con numerosi feriti, di cui diversi anche gravi, tale da indurre lo stesso imputato Fournier a paragonare la situazione ad una “macelleria messicana”, appare di notevole gravità sia sotto il profilo umano sia sotto quello legale.
In uno stato di diritto non è invero accettabile che proprio coloro che dovrebbero essere i tutori dell’ordine e della legalità pongano in essere azioni lesive di tale entità, anche se in situazioni di particolare stress.
Afferma in proposito il teste Cestaro nella sua semplicità: “… si è aperta la porta e pensavo io che fossero i cosiddetti black block e ho trovato invece la Polizia, la nostra Polizia … che doveva essere quella che mi doveva sostenere da certe cose, perché la Polizia … è la nostra Polizia che deve vigilare … dovevano fare il suo lavoro, ma quel lavoro lì di battere la gente … andare dentro, aprire le porte e battere la gente e picchiare la gente è una cosa che non sta né in cielo né in terra”.
Non si intende in questa sede in alcun modo sindacare le scelte della pubblica accusa circa la richiesta archiviazione delle imputazioni nei confronti dei possibili esecutori materiali delle violenze, evidentemente determinata dalle difficoltà incontrate nella loro individuazione, ma deve riconoscersi che tale decisione non ha sicuramente favorito l’accertamento delle singole responsabilità.
Va del resto sottolineato in proposito che la polizia, con i mezzi investigativi a sua disposizione, non è neppure riuscita ad individuare colui che è raffigurato nel filmato Rep. 198.2 p. 1 (5.02 - estratto) e nel fotogramma del RIS (f. 25) con una vistosa “coda di cavallo” mentre colpisce più volte con il manganello una persona a terra. Soltanto infatti in sede di repliche il P.M. ha affermato che detto agente sarebbe stato infine identificato, a distanza cioè di oltre sette anni dai fatti e dopo l’intervenuta estinzione per prescrizione degli eventuali reati dal medesimo commessi.
Al fine dunque di una corretta valutazione delle responsabilità in ordine al reato di lesioni di cui al capo d’imputazione sub H), una volta riconosciuta non provata l’esistenza di un preciso disegno preordinato a quanto accaduto, come più sopra osservato, si devono valutare gli elementi probatori acquisiti a carico di ciascun imputato e la sussistenza del concorso di questi ultimi in ordine a tutti i reati di lesioni unificati sotto il vincolo della continuazione.
Appare in primo luogo assai poco plausibile, come del resto già rilevato, che la quasi totalità degli agenti entrati nella scuola, per di più in buona parte appositamente addestrati a non reagire alle provocazioni e a mantenere la calma e la freddezza operativa in ogni situazione, si siano improvvisamente lasciati andare a comportamenti dettati da rancore ed ira, tipici invece, di norma, di reazioni individuali.
Se invero, da un lato, si deve riconoscere che gli operatori delle forze dell’ordine provenivano da giorni di disordini, scontri con manifestanti, frustrazioni nel non essere riusciti ad evitare le devastazioni ed i saccheggi avvenuti, come detto, in diverse parti della città, umiliazioni nella loro immagine, dato che i cittadini li ritenevano responsabili dei mancati interventi a loro tutela, e che pertanto, anche in considerazione della loro stanchezza (alcuni reparti erano in servizio da oltre 24 ore) e della convinzione che all’interno della Diaz si trovassero “pericolosi terroristi” appartenenti al c.d. black block, non sia del tutto incredibile che l’inconsulta esplosione di violenza all’interno della Diaz abbia avuto un’origine spontanea e si sia quindi propagata per un effetto attrattivo e per suggestione, tanto da provocare, anche per il forte rancore sino allora represso, il libero sfogo all’istinto, determinando il superamento di ogni blocco psichico e morale nonché dell’addestra-mento ricevuto, deve d’altra parte anche riconoscersi che una simile violenza, esercitata così diffusamente, sia prima dell’ingresso nell’edificio, come risulta dagli episodi in danno di Covell e di Frieri, sia immediatamente dopo, pressoché contemporaneamente man mano che gli operatori salivano ai diversi piani della scuola, non possa trovare altra giustificazione plausibile se non nella precisa convinzione di poter agire senza alcuna conseguenza e quindi nella certezza dell’impunità.
Se dunque non può escludersi che le violenze abbiano avuto un inizio spontaneo da parte di alcuni, è invece certo che la loro propagazione, così diffusa e pressoché contemporanea, presupponga la consapevolezza da parte degli operatori di agire in accordo con i loro superiori, che comunque non li avrebbero denunciati.
Il fatto che nessuno non solo dei capi squadra, ma anche dei singoli operatori presenti all’interno della Diaz mentre erano in corso le violenze, abbia denunciato quanto avvenuto, pur avendone l’obbligo come espressamente previsto dall’art. 361 c.p., conferma la validità di quanto osservato.
Va inoltre osservato in proposito che le prime relazioni dei capi squadra, nelle quali si accenna ad alcuni atti di violenza commessi dalle forze dell’ordine, sono state redatte soltanto successivamente, quando ormai era divenuto noto ciò che era accaduto.
L’omissione da parte del dr. Canterini, nella sua prima relazione di servizio, di qualsiasi accenno a tali violenze, delle quali, come meglio si dirà in seguito, non poteva non essersi reso conto, ed il fatto che il dr. Fournier a sua volta non abbia neppure pensato di denunciare quanto lo aveva successivamente portato a dire che la situazione richiamava alla mente una “macelleria messicana”, giustificando sostanzialmente tale suo comportamento con l’impossibilità nei servizi di ordine pubblico di denunciare gli operatori che ponevano in essere violenze e con la necessità di tutelare l’onore dell’istituzione di cui fa parte, costituiscono ulteriori precise conferme della sussistenza di una sorta di accordo, tacito o anche espresso, in proposito.
Non si dimentichi che l’obbligo generale di denuncia dei reati, gravante su tutti i pubblici ufficiali, non è limitato ai reati commessi da operatori sotto il loro comando.
Deve dunque ritenersi che proprio tale accordo e quindi la convinzione dell’impunità da parte degli agenti del VII Nucleo abbia determinato e comunque certamente contribuito al diffondersi delle violenze, sia da parte loro sia da parte degli altri operatori entrati nell’edificio, i quali, per il forte rancore sino allora represso, sospinti, come già osservato, da un effetto attrattivo e da suggestione e fidando che anche le loro azioni sarebbero rimaste impunite, davano così libero sfogo all’istinto, superando ogni remora morale e legale.
Il fatto che gli imputati appartenenti al VII Nucleo, per di più nelle loro posizioni di comando, fossero presenti ai vari piani della scuola, mentre gli operatori sia del loro sia di altri reparti ponevano in essere le violenze, e non intervenissero per impedirle, valeva certamente a riaffermare l’esistenza e la validità del citato accordo e a rafforzare quindi in tutti tali operatori la convinzione dell’impunità ed il proposito criminoso.
Non appare superfluo sottolineare che anche i singoli agenti non in posizione di comando avevano lo stesso obbligo di impedire la commissione di reati e comunque di denunciarli, cosicché non intervenendo in alcun modo contribuivano anch’essi, sebbene certamente in misura assai inferiore, a rafforzare il proposito criminoso degli operatori che stavano ponendo in essere le violenze.
A maggior ragione dunque coloro che con responsabilità di comando avessero assistito anche solo ad alcune delle violenze poste in essere dagli agenti, avrebbero dovuto necessariamente essere ben consapevoli che il loro comportamento omissivo non solo consentiva la prosecuzione delle violenze, ma confermando la validità dell’accordo di non denunciare gli eccessi di violenza posti in essere dai loro sottoposti, ne rafforzava la convinzione dell’impunità e di conseguenza il proposito criminoso.
Non va altresì dimenticato che tra gli operatori del VII Nucleo era attivo un collegamento radio mediante un “laringofono”, cosicché tutti ed in particolare i capi squadra, presenti con i loro uomini ad ogni piano, avevano in ogni momento la possibilità di parlare con i colleghi. Il loro silenzio costituiva dunque un’evidente acquiescenza a quanto stava accadendo e veniva certamente percepito come tale da tutti coloro che erano radiofonicamente collegati.
Gli imputati pertanto, che, entrati nell’edificio durante il periodo in cui le violenze vennero poste in essere, ebbero la possibilità di rendersi conto di quanto stava accadendo, vanno ritenuti responsabili in concorso tra loro del reato di lesioni in danno di tutte le vittime di tali violenze, senza alcuna distinzione tra i fatti cui avevano assistito direttamente e quelli avvenuti in altre parti della scuola, dato che sia l’accordo di cui si è detto sia il loro comportamento omissivo valsero certamente a rinforzare il proposito criminoso e ad agevolare il comportamento violento di tutti coloro che operavano all’interno della Diaz.
Non appare infine superfluo osservare che quanto sin qui esposto rende di scarso rilievo accertare se le violenze siano state poste in essere esclusivamente o principalmente dagli appartenenti al VII Nucleo ovvero ad altri reparti.
A parte il fatto che, secondo le dichiarazioni delle vittime, il maggior numero di violenze sarebbe stato posto in essere da poliziotti dotati di divisa antisommossa con cintura scura e di manganello del tipo “tonfa”, di cui erano dotati esclusivamente gli appartenenti al VII Nucleo, come del resto confermato dalle lesioni dalle medesime patite, tipiche di colpi inferti con strumenti rigidi piuttosto che flessibili, deve comunque ribadirsi che la dinamica di quanto accaduto dimostra la partecipazione ed il concorso attivo o omissivo di tutti coloro che, entrati nell’edificio, parteciparono alle violenze o che comunque, avendo la possibilità di rendersi conto di tali violenze, non intervennero immediatamente per farle cessare.
Non appare superfluo ribadire infatti che era obbligo di ciascuno degli operatori entrati nell’edificio, attivarsi per impedire la commissione di reati e denunciare coloro che li commettevano, cosicché la sola presenza all’interno della Diaz, mentre le violenze venivano commesse, costituisce prova della loro responsabilità concorrente, atteso che la diffusione degli atti di violenza in ciascun piano era tale, che nessuno di coloro che si fosse trovato all’interno dell’edificio mentre avvenivano avrebbe potuto non rendersi conto di quanto stava accadendo e di contribuire quindi con il proprio mancato intervento a rafforzare in tutti gli operatori la convinzione dell’impunità e quindi il proposito criminoso.
Non va comunque dimenticato che, per quanto risulta, gli unici graduati all’interno della Diaz mentre avvenivano le violenze erano, oltre ai comandanti Fournier e Canterini, i capi squadra del VII Nucleo, tutti tra loro collegati, come si è già detto, mediante il laringofono.
Secondo la tesi accusatoria, al fine di giustificare quanto accaduto i dirigenti delle forze dell’ordine coinvolte nell’operazione avrebbero riferito circostanze false, quali il lancio di oggetti sugli agenti che si trovavano nel cortile, gli atti di resistenza violenta all’interno della scuola e l’aggressione all’agente Nucera, ed avrebbero altresì anche creato prove false, come il rinvenimento delle due bottiglie molotov, al fine di dimostrare la responsabilità concorrente di tutti coloro che si trovavano all’interno della Diaz in ordine sia al reato di resistenza sia a quello associativo, finalizzato alle devastazioni e saccheggi avvenuti in precedenza.
Il lancio di oggetti, gli atti di resistenza e l’aggressione all’agente Nucera sono già stati ampiamente trattati nella parte relativa alla “Ricostruzione dei fatti”, ove si sono anche già riferiti gli eventi circa l’origine delle bottiglie molotov, rinvenute nei pressi di corso Italia nel pomeriggio del 21 luglio dal dr. Guaglione, ed il loro trasporto alla scuola Diaz ad opera degli imputati Burgio e Troiani.
Secondo l’accusa le incongruenze e le reticenze riscontrate in proposito nelle dichiarazioni degli imputati coinvolti nella vicenda, il fatto che il sacchetto contenente dette bottiglie si trovasse in mano al dr. Luperi, mentre questi era intento a parlare con altri dirigenti della Polizia, il fatto che le molotov si trovassero poi esposte sul telo nero steso vicino al portone della Diaz senza il sacchetto in cui erano originariamente riposte, il mancato riferimento al loro ritrovamento da parte del dr. Sgalla nella sua improvvisata conferenza stampa davanti alla scuola nonché le diverse indicazioni circa il luogo in cui sarebbero state trovate di cui ai verbali di perquisizione (“nella sala d’ingresso ubicata al piano terreno”) e di arresto (“al piano terra dello stabile in prossimità dell’entrata”), rispetto a quello indicato nella notizia di reato (“al primo piano dell’edificio”) dimostrerebbero la predisposizione di tale prova e la piena consapevolezza della sua falsità da parte di Luperi, Gratteri e dei sottoscrittori dei citati verbali.
Va peraltro osservato che sebbene tali elementi possano in effetti indurre a riconoscere una certa reticenza in proposito da parte di detti imputati e quindi a far sorgere il sospetto circa il loro coinvolgimento nella creazione della falsa prova, è anche vero che si tratta pur sempre di semplici indizi per di più non univoci.
Ed infatti se si tiene presente, come già si è osservato, quale fosse la confusione e l’agitazione di quei momenti, con operatori delle forze dell’ordine appartenenti ai più diversi corpi e reparti, senza un preciso riferimento organizzativo cui fare capo, con numerosi feriti da trasportare in ospedale e altrettanto numerosi arrestati da trasferire nei luoghi di custodia senza il necessario numero di veicoli a disposizione, con la contestazione da parte dei manifestanti, parlamentari, giornalisti e operatori televisivi e con le allarmanti notizie circa l’arrivo di altri gruppi di appartenenti al black block, non può certamente escludersi che i ricordi di singoli avvenimenti e dei particolari possano essere imprecisi, confusi e lacunosi. E’ invero possibile che la successione temporale dei fatti non venga ricordata con esattezza, che eventi successivi vengano ricordati come precedenti e che, ad esempio, Gratteri, affermando di aver visto le molotov per le prima volta nel cortile tenute da un operatore in borghese, confonda tale ricordo con quello dell’Ass. Catania che portava via le bottiglie dalla scuola, come disposto dal dr. Pifferi dopo la notizia del possibile arrivo di altri manifestanti, mentre non ricordi invece per nulla le sue caratteristiche fisiche, tanto da non identificarlo.
Va anche osservato che l’eventuale confusione dei ricordi, per di più in ordine a fatti al momento non valutati come particolarmente rilevanti, con il passare del tempo tende a cristallizzarsi ed a perdere quindi la caratteristica dell’incertezza e dell’imprecisione, assumendo invece quella della concretezza e della realtà.
Circa il colloquio avvenuto nel cortile deve d’altra parte riconoscersi che la presenza di alcuni imputati riuniti a parlare con Luperi, mentre quest’ultimo tiene in mano il sacchetto con le bottiglie molotov, non può sicuramente valere a provare con la dovuta certezza che in tale momento si stesse concordando di affermarne il falso ritrovamento all’interno della scuola, pur conoscendone la provenienza da altro luogo.
Va anche osservato che come appare evidente dal filmato Rep. 199 min. 8,55 (estratto) il dr. Gratteri non appare neppure particolarmente partecipe al colloquio e interessato a quanto avveniva, come sarebbe stato naturale qualora si stesse decidendo un’operazione di tale rilievo e rischio.
E’ vero che non sia consueto che ad un funzionario del livello di Luperi venga affidato un reperto quale quello in questione, ma è anche vero che da tale fatto non possa univocamente dedursi che Luperi fosse al corrente della sua artificiosità.
La soddisfazione espressa da detto imputato per il ritrovamento delle molotov, riferita dal teste Fiorentino, appare inoltre del tutto giustificata non tanto perché senza tale reperto “l’esito della perquisizione sarebbe stato insignificante”, ma perché il ritrovamento delle bottiglie costituiva un’ulteriore precisa conferma dell’ipotesi investigativa che aveva condotto a disporre l’operazione e cioè il collegamento di coloro che si trovavano nella Diaz con coloro che avevano nei giorni precedenti incendiato autovetture e negozi con l’uso di bottiglie molotov.
L’omissione di qualsiasi riferimento alle bottiglie molotov nella conferenza stampa del dr. Sgalla, può a sua volta apparire in effetti piuttosto strana, trattandosi di un reperto assai significativo e decisivo, come già rilevato, ma non può evidentemente essere ascritta con certezza alla consapevolezza della sua non genuinità.
Di scarso rilievo infine appare anche la diversa indicazione del luogo del ritrovamento delle molotov: a parte infatti che nella notizia di reato tale circostanza viene indicata soltanto di sfuggita, senza alcuna precisazione e che spesso per “primo piano” si intende il piano terreno, deve anche rilevarsi che il dr. Mortola ha riportato la notizia del ritrovamento fornitagli da altri operatori e che è dunque possibile che tale particolare non sia stato controllato approfonditamente o sia stato riferito senza precise specificazioni.
Se dunque è vero da un lato che gli elementi indicati dall’accusa possano in effetti determinare il sospetto circa la consapevolezza da parte dei citati imputati della falsità del ritrovamento delle bottiglie molotov all’interno della scuola, è anche vero, dall’altro, che non possano valere a provarla con la dovuta certezza, trattandosi di semplici indizi non univoci.
Va d’altra parte osservato che o si ritiene che il falso ritrovamento delle molotov fosse stato organizzato prima dell’irruzione nella scuola, e cioè al momento in cui venne disposta l’operazione, ovvero dovrebbe riconoscersi che sia stato deciso sul posto dopo la conclusione della perquisizione.
La prima ipotesi e cioè l’esistenza di un vero e proprio complotto organizzato in precedenza anche con la creazione di prove false è già stata più sopra esaminata e respinta e non appare il caso di ripeterne qui i motivi; la seconda presupporrebbe che tutti i funzionari presenti al c.d. “colloquio” nel cortile, per di più come già si è osservato appartenenti a diversi servizi, si fossero immediatamente accordati in proposito, con tutti i rischi che ciò poteva comportare, anche tenuto conto del numero delle persone al corrente del fatto e della difficoltà di tenere nascosta la vera provenienza delle bottiglie in questione.
Se, del resto, si fossero volute creare prove false, nulla avrebbe impedito di farlo non presso la Diaz, con tutti i rischi che ciò comportava, ma direttamente in Questura, ove i reperti vennero in effetti mostrati alla stampa la mattina successiva, senza che nessuno pensasse di contestarne la provenienza da detta scuola.
Va anche osservato in proposito che ben difficilmente un funzionario del livello e dell’esperienza di Luperi, qualora avesse partecipato all’ideazione del falso ritrovamento delle molotov, avrebbe tenuto in mano il sacchetto che le conteneva nel cortile della scuola, ove poteva agevolmente essere filmato dai numerosi operatori televisivi presenti, come è avvenuto, e che a loro volta assai difficilmente gli altri funzionari intenti al c.d. “colloquio” si sarebbero riuniti alla vista di tutti per organizzarlo.
Non ci si nasconde infine la difficoltà di attribuire al solo dr. Troiani l’ideazione del falso rinvenimento delle bottiglie molotov, la cui scoperta, senza un accordo con il dr. Guaglione, sarebbe stata se non certa assai probabile, dato che le bottiglie sarebbero state facilmente riconosciute da colui che le aveva rinvenute, come del resto avvenuto.
Deve peraltro riconoscersi che in assenza di qualsiasi diversa concreta prova, non sia consentito avanzare altre ipotesi, che, pur certamente possibili, resterebbero comunque prive di riscontri probatori certi, e debba quindi accettarsi quanto riferito in proposito dallo stesso dr. Troiani.
Circa i reati di falso deve rilevarsi che, secondo la tesi accusatoria, sia nella prima relazione di servizio inviata dal dr. Canterini al Questore sia nei successivi verbali di perquisizione e sequestro e di arresto sia nella comunicazione della notizia di reato, sarebbero stati riferiti fatti evidentemente non corrispondenti al vero e cioè, come specificato nei relativi capi d’imputazione: “di aver incontrato violenta resistenza da parte degli occupanti consistita in un fittissimo lancio di pietre ed oggetti contundenti dalle finestre dell’istituto per impedire l’ingresso delle forze di polizia; di aver incontrato resistenza opposta anche all’interno dell’istituto da parte degli occupanti che ingaggiavano violente colluttazioni con gli agenti di polizia, armati di coltelli ed armi improprie; che quanto rinvenuto all’interno dell’istituto e costituito da mazze, bastoni, picconi, assi, spranghe ed arnesi da cantiere era stato utilizzato come arma impropria dagli stessi occupanti, anche per commettere gli atti di resistenza sopra descritti e comunque indicato nella disponibilità e possesso degli arrestati; di aver rinvenuto due bottiglie incendiarie con innesco al piano terra dell’istituto perquisito, vicino all’ingresso, in luogo visibile ed accessibile a tutti, così attribuendone la disponibilità ed il possesso indistintamente a tutti gli occupanti l’edificio”.
E’ appena il caso in questa sede di richiamare i principi affermati dalla Suprema Corte circa il carattere di atti pubblici fidefacienti delle relazioni di servizio, dei verbali di perquisizione e sequestro ed anche dei verbali dispositivi, quali quello di arresto, qualora gli stessi contengano la descrizione di attività e fatti cui il p.u. ha assistito, nonché circa il valore della regola del "nemo tenetur se detegere":
- “Le relazioni di servizio formate dagli ufficiali od agenti di polizia giudiziaria, poiché destinate ad attestare che il pubblico ufficiale ha espletato una certa attività, o che determinate circostanze sono cadute nella sua diretta percezione, costituiscono agli effetti della legge penale atti pubblici fidefacienti” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 3942 del 11/10/2002 - dep. 28/01/2003, in CED Cass. Rv. 22698);
- “Anche nell'atto dispositivo - che consiste in una manifestazione di volontà e non nella rappresentazione o descrizione di un fatto - è configurabile la falsità ideologica in relazione alla parte "descrittiva" in esso contenuta e, più precisamente, in relazione all'attestazione, non conforme a verità, dell'esistenza di una data situazione di fatto costituente il presupposto indispensabile per il compimento dell'atto, a nulla rilevando che tale attestazione non risulti esplicitamente dal suo tenore formale, poiché, quando una determinata attività del pubblico ufficiale, non menzionata nell'atto, costituisce indefettibile presupposto di fatto o condizione normativa dell'attestazione, deve logicamente farsi riferimento al contenuto o tenore implicito necessario dell'atto stesso, con la conseguente irrilevanza dell'omessa menzione (talora scaltramente preordinata) ai fini della sussistenza della falsità ideologica” (Sez. U, Sentenza n. 1827 del 03/02/1995 – dep. 24/02/1995, in CED Cass. Rv. 200117; Sez. U, Sentenza n. 35488 del 28/06/2007 – dep. 24/09/2007, in CED Cass. Rv. 236867).
- “Posto che la relazione di servizio di un agente di polizia giudiziaria è atto pubblico per il quale si configura, in caso di falsità ideologica, il reato di cui all'art. 479 cod. pen., deve escludersi che la rilevanza penale del fatto possa venir meno in applicazione del principio "nemo tenetur se detegere", posto che la finalità dell'atto pubblico, da individuarsi nella veridicità "erga omnes" di quanto attestato dal pubblico ufficiale, non può essere sacrificata all'interesse del singolo di sottrarsi ai rigori della legge penale” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 22672 del 15/10/2004 – dep. 16/06/2005, in CED Cass. Rv. 231890).
Va altresì richiamato quanto affermato dalla Suprema Corte in ordine all’elemento soggettivo del reato di falso:
- “In tema di falso ideologico in atto pubblico, pur essendo richiesto, sotto il profilo psicologico, per la configurabilità di detto reato, il solo dolo generico, deve tuttavia escludersi che esso possa ritenersi sussistente per il solo fatto che l'atto contenga un asserto obiettivamente non veritiero, dovendosi invece verificare, anche in tal caso, che la falsità non sia dovuta ad una leggerezza dell'agente come pure ad una incompleta conoscenza e/o errata interpretazione di disposizioni normative o, ancora, alla negligente applicazione di una prassi amministrativa” (Sez. 5, Sentenza n. 27770 del 18/05/2004 – dep. 21/06/2004 in CED Cass. Rv. 228711)
- “Il dolo nel delitto di falso in atto pubblico non è "in re ipsa". Esso, al contrario, va sempre rigorosamente provato e va escluso tutte le volte in cui la falsità risulti essere oltre o contro l'intenzione dell'agente, come quando risulti essere semplicemente dovuta ad una leggerezza o ad una negligenza, non essendo previsto nel vigente sistema la figura del falso documentale colposo” (Sez. 5, Sentenza n. 1963 del 10/12/1999 – dep. 21/02/2000, in CED Cass., Rv. 216354).
Tutto ciò premesso, deve rilevarsi che la prima relazione circa i fatti avvenuti presso la scuola Diaz venne inviata dal dr. Canterini al Questore e venne da lui redatta circa due ore dopo il rientro dal servizio su richiesta del dr. Gratteri.
Come riferito dall’imputato nel corso del suo esame, si tratta in effetti di una relazione piuttosto sommaria, probabilmente corrispondente, quanto a contenuto, alle “due righe al Questore” secondo la definizione da lui stesso fornitane, nella quale deve altresì riconoscersi che non siano contenute le espressioni specificamente contestate quali false nel capo d’imputazione: la resistenza incontrata viene definita “vigorosa” e non “violenta”, viene indicato che “dall’alto piovevano oggetti contundenti ed in particolare bottiglie di vetro” e non che vi fu un “fittissimo lancio di pietre e bottiglie”; si afferma che gli operatori salendo ai piani superiori avevano incontrato “ugualmente resistenza” ma non si indicano “violente colluttazioni” da parte degli occupanti con gli agenti di polizia.
Va anche osservato che, come già rilevato nella “Ricostruzione dei fatti”, dagli elementi probatori acquisiti risulta che in effetti, anche se non si trattò di un lancio fittissimo, qualche oggetto dovette essere lanciato sugli agenti e che non può escludersi che episodi di resistenza attiva siano avvenuti all’interno della scuola, così come non può escludersi l’aggressione all’agente Nucera.
Deve peraltro riconoscersi che dalla lettura della relazione e dalla complessiva descrizione dei fatti, quanto avvenuto presso la Diaz appare del tutto differente dalla realtà, ben conosciuta dal dr. Canterini che, non solo si era soffermato al piano terreno durante la prima fase dell’intervento e che non poteva quindi non aver notato le violenze commesse dagli agenti nei confronti di coloro che vi si trovavano, ma che, salito al primo piano, aveva visto le condizioni di Melanie Jonasch, soccorsa dal dr. Fournier ed aveva parlato con quest’ultimo, il quale sicuramente gli aveva riferito l’aggressione cui aveva assistito, esprimendogli poi anche la sua intenzione di “non lavorare più con questa gente” (cfr. esame Canterini ud. 6/6/2007).
Ed invero nella relazione non si fa alcun cenno a violenze ed eccessi posti in essere dagli operatori nel contrastare gli atti di resistenza degli occupanti la Diaz, non si indica la presenza di numerosi feriti anche gravi (quali ad es. la stessa Jonasch) e non si specifica nulla circa gli episodi di resistenza, che, riferiti soltanto genericamente come vigorosi e avvenuti in tutti i piani, appaiono quindi generalizzati, diffusi e posti in essere, se non da tutti, praticamente con il concorso di tutti coloro che si trovavano nella Diaz; ne scaturisce la descrizione di una pressoché normale operazione di perquisizione in cui gli agenti si sarebbero limitati a superare il “forte contrasto opposto dagli occupanti”, sarebbero stati fatti oggetto di aggressioni con “spranghe, bastoni e quant’altro” ed avrebbero reagito esclusivamente nell’ambito di quanto consentito. Qualsiasi lettore di tale relazione avrebbe cioè riportato la convinzione che le forze dell’ordine, per poter portare a termine l’operazione loro affidata, si erano limitate a difendersi e a controbattere i vigorosi atti di resistenza posti in essere in tutti i piani con il concorso di tutti coloro che si trovavano nella Diaz.
Tale descrizione dei fatti è difforme non solo oggettivamente da quanto realmente avvenuto, già ampiamente descritto, ma anche da quanto aveva visto e sentito descrivere l’imputato e di cui quindi doveva essere ben consapevole.
Il dr. Canterini dunque nel redigere la relazione in esame non descrisse quanto realmente avvenuto e comunque a sua conoscenza, ma nell’omettere alcuni fatti e nel riportarne altri in modo generico ed anche sviante per chi la leggeva, forniva una rappresentazione degli eventi del tutto difforme dalla realtà, con l’evidente finalità di favorire gli agenti che avevano commesso gli eccessi e le violenze, cercando di assicurarne l’impunità, secondo l’accordo tra loro esistente, più sopra posto in evidenza, e per un malinteso senso dell’onore dell’istituzione, rafforzando altresì in tal modo l’ipotesi posta a base dell’operazione, del concorso cioè di tutti gli occupanti della Diaz nella resistenza e quindi della loro responsabilità in ordine all’ipotizzato reato associativo.
Non si deve dimenticare in proposito che, come già si è osservato, l’imputato aveva comunque l’obbligo quanto meno di denunciare i reati cui aveva assistito posti in essere non soltanto dai suoi subordinati, ma anche da chiunque altro.
Diversa appare invece la posizione degli imputati che sottoscrissero la notizia di reato ed i verbali di perquisizione e sequestro e di arresto.
Come già osservato nella “Ricostruzione dei fatti” la notizia di reato, materialmente redatta da Gallo e Schettini, venne sottoscritta da Mortola e Dominici; il verbale di perquisizione e sequestro, redatto almeno in parte da Mazzoni, venne sottoscritto, come riferito dal teste Salvemini, da Panzieri, Nucera, Gava, Ferri, Aniceto, Cerchi, Di Novi, Mazzoni e Di Bernardini, i quali, insieme a Mortola, Dominici, Di Sarro, Caldarozzi, Ciccimarra e ad un altro funzionario non identificato, sottoscrissero anche il verbale di arresto, materialmente compilato da Ferri, Gava e Ciccimarra.
La redazione di tali atti, certamente piuttosto complessa, dato il numero degli arrestati ed in particolare degli agenti delle forze dell’ordine coinvolti nell’operazione, appartenenti a corpi e reparti diversi e quindi di difficile identificazione, avvenne sicuramente con una certa concitazione, mentre la Procura ne richiedeva insistentemente l’invio, come riferito dalla dr.ssa Canepa [72], e dovette altresì risentire della frammentarietà delle indicazioni di quanto avvenuto, atteso che a coloro che li dovevano compilare le notizie giungevano da numerosi fonti, assai probabilmente non sempre del tutto conformi.
Si deve in proposito ricordare che, oltre alla pluralità dei reparti impegnati, l’operazione venne compiuta al termine delle giornate del vertice, dopo che gli agenti erano stati impegnati in faticosi compiti di ordine pubblico, con disordini, scontri, lanci di molotov, incendi, devastazioni e saccheggi, e la cui lucidità quindi poteva non essere perfetta.
Anche in ordine a tali atti le specifiche contestazioni di falsità riportate nei relativi capi d’imputazione riguardano in primo luogo la “violenta resistenza” opposta da parte degli occupanti, consistita in un “fittissimo lancio di pietre ed oggetti contundenti dalle finestre dell’istituto”, ed in “violente colluttazioni” anche all’interno dell’istituto, “armati di coltelli ed armi improprie”, nonché l’attribuzione agli stessi occupanti di “quanto rinvenuto all’interno dell’istituto e costituito da mazze, bastoni, picconi, assi, spranghe ed arnesi da cantiere”, dai medesimi utilizzato come arma impropria per commettere gli atti di resistenza e di due bottiglie incendiarie con innesco, “rinvenute al piano terra dell’istituto perquisito, vicino all’ingresso, in luogo visibile ed accessibile a tutti”.
Nella “Ricostruzione dei fatti” si è già ampiamente trattato sia del lancio di oggetti nel cortile, sia di possibili episodi di resistenza attiva avvenuti all’interno della scuola sia degli attrezzi da cantiere rinvenuti e sequestrati, sia della provenienza delle bottiglie molotov.
Ora non risulta in alcun modo provato che gli imputati dei reati di falso e di calunnia, ad eccezione di Canterini, siano entrati nella Diaz durante l’operazione di “messa in sicurezza”, ma soltanto in pratica dopo che Fournier aveva richiamato i suoi uomini per radunarli nel cortile, come risulta dalle dichiarazioni delle stesse vittime delle violenze.
E’ probabile che, come riferito ad esempio dai testi Bruschi [73] e Duman [74], quando i predetti funzionari entrarono nella palestra al piano terreno vi fossero ancora in corso alcune colluttazioni, ma certamente si trattava di episodi isolati, essendo ormai terminata la fase più violenta ed accesa.
Non può dunque escludersi, e comunque non risultano acquisite prove certe di diverso tenore, che i citati imputati non si siano resi conto di quanto in effetti era accaduto.
E’ certo che il numero dei feriti e la gravità di alcuni di loro, tra cui giovani donne di corporatura esile, che ben difficilmente dunque avrebbero potuto opporre una violenta resistenza tale da giustificare una reazione che potesse cagionare le ferite da loro riportate, avrebbe dovuto almeno suscitare qualche perplessità circa quanto accaduto ed indurre ad approfondire i fatti, ma è anche vero che la situazione che si era determinata dopo giorni di violenze e sostanzialmente di “guerriglia urbana” con lanci di molotov e numerosi feriti, era ormai tale che nulla era più in grado di stupire o di essere giudicato secondo criteri logici e normali. Non va dimenticato in proposito che il giorno prima negli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine era stato ucciso un giovane.
Ciò che in periodi normali sarebbe stato immediatamente visto e giudicato incredibile o illogico, nella situazione che si era determinata e nello stato d’animo ad essa conseguente poteva in effetti apparire plausibile.
Non va dimenticato in proposito che gli stessi Pubblici Ministeri chiesero inizialmente la convalida degli arresti eseguiti, ottenendola per alcuni, cosicché non può in effetti escludersi che di fronte a quanto accaduto nei giorni precedenti e nell’atmosfera determinatasi, anche a persone sicuramente esperte e non coinvolte direttamente nei fatti, non apparisse assolutamente illogica ed irreale la sproporzione tra l’elevato numero dei feriti arrestati e quello assai ridotto degli agenti.
Se dunque si tiene presente da un lato che il cancello del cortile della Diaz era stato chiuso, tanto che per entrare dovette essere sfondato con l’uso di un veicolo, che il portone centrale della scuola era stato barricato dall’interno mediante mobilia varia, che, come si è già rilevato, qualche bottiglia o qualche oggetto dovette in effetti essere stato lanciato dall’alto sugli agenti, e dall’altro che detta scuola in seguito alle segnalazioni di alcuni cittadini, all’aggressione alla pattuglia di cui già si è trattato e alla “ricognizione” effettuata dal dr. Mortola, era considerata occupata da appartenenti al c.d. black block, non può escludersi che i redattori degli atti in esame ed i sottoscrittori, fossero convinti dell’esistenza di un certo legame ed accordo tra tutti coloro che si trovavano all’interno della scuola, già resisi responsabili di atti di resistenza nell’opporsi all’ingresso della polizia, e di conseguenza dell’attendibilità dei colleghi, per di più pubblici ufficiali, che descrivevano quanto avvenuto, nonché del fatto che l’elevato numero dei feriti potesse in effetti essere determinato dai violenti atti di resistenza avvenuti all’interno della scuola.
Non appare superfluo ricordare che, come affermato dalla Suprema Corte, “la materialità del delitto di resistenza al pubblico ufficiale è integrata anche dalla violenza cosiddetta impropria, la quale, pur non aggredendo direttamente il suddetto soggetto, si riverbera negativamente nell'esplicazione della relativa funzione pubblica, impedendola o semplicemente ostacolandola. Solo la resistenza passiva, in quanto negazione di qualunque forma di violenza o di minaccia, rimane al di fuori della previsione legislativa di cui all'art. 337 cod. pen.” (Cass. Sez. 6, n. 7061 del 25/05/1996 - dep. 15/07/1996, in CED Cass. Rv. 206021).
In tale situazione probatoria non può dunque escludersi che i citati imputati nel redigere e nel sottoscrivere gli atti in esame non fossero consapevoli da un lato della falsità di quanto riferito in ordine ai violenti atti di resistenza incontrati dalle forze dell’ordine e dall’altro dell’infondatezza dell’ipotesi delittuosa concorrente ed anche associativa avanzata a giustificazione dell’arresto di tutti coloro che si trovavano all’interno della scuola.
Circa il reato sub E) non appare superfluo precisare che anche riqualificandolo, come richiesto dalla pubblica accusa, quale violazione dell’art. 606 c.p., in base al più recente orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte (cfr. Cass. sez. V, n. 6773, 19/12/2005 dep. 23/2/2006, Drago, in CED Cass. n. 234001), non risulta comunque provato con la dovuta certezza l’abuso da parte degli imputati dei poteri inerenti alle loro funzioni, atteso che come si è già rilevato, non può escludersi, in base agli elementi probatori acquisiti, che ritenessero in effetti sussistente un certo legame ed accordo anche associativo tra tutti coloro che si trovavano all’interno della scuola
In ordine poi a quanto scritto nel verbale di perquisizione e sequestro circa il fatto che durante l’operazione “gli occupanti” sarebbero “stati edotti della facoltà di farsi assistere da altre persone di fiducia”, deve rilevarsi che si tratta certamente di una espressione normalmente presente in tutti i verbali del tipo in esame, assai probabilmente di stile e preventivamente predisposta, e di cui certamente i redattori non si sono curati di accertare l’effettiva rispondenza al vero, ritenendola non essenziale e di scarso rilievo, anche tenuto presente che nella situazione concreta gli agenti non erano tenuti a dare tale avvertimento. Si è più sopra osservato invero che erano già in corso atti di resistenza cosicché gli agenti agivano in flagranza di reato ed è noto che, come affermato dalla Suprema Corte, “l'avviso al soggetto sottoposto a perquisizione domiciliare della facoltà di farsi assistere o rappresentare è previsto ove la perquisizione sia effettuata dall'autorità giudiziaria, mentre tale formalità non è richiesta per le perquisizioni operate dalla polizia giudiziaria nella flagranza del reato, salva la facoltà del difensore di assistervi senza diritto di essere preventivamente avvisato” (Cass. Sez. VI, n. 2001 del 22/05/1995 - dep. Il 26/07/1995, Mazzanti, in CED Cass. Rv. N. 202590).
La presenza di una simile affermazione può dunque ritenersi dovuta ad una semplice leggerezza o disattenzione e non può pertanto assumere alcun rilievo in ordine al contestato reato di falso.
Deve infine riconoscersi che la polizia, una volta venute alla luce le violenze compiute all’interno della Diaz, non abbia proceduto con la massima efficienza nelle indagini volte ad individuarne gli autori e ad accertare le singole responsabilità. Il solo riferimento alla mancata identificazione dell’agente con la coda di cavallo di cui si è già detto o all’invio al P.M. per la loro identificazione delle foto dei funzionari all’atto del loro ingresso nella Polizia anziché di quelle recenti o al fatto che per individuare gli agenti che effettivamente erano entrati nella scuola Diaz si sia dovuti ricorrere praticamente ad un’indagine peritale, dimostra quanto meno un certo distacco rispetto all’indagine in corso.
La giustificazione di un simile atteggiamento potrebbe in effetti rinvenirsi in un malinteso senso di tutela dell’onore dell’istituzione, come del resto espressamente dichiarato dal dr. Fournier, nel giustificarsi per non aver immediatamente riferito l’aggressione a cui aveva assistito, ma a parte il fatto che proprio la mancata individuazione delle singole responsabilità potrebbe ledere l’onore di tutta la polizia, deve comunque osservarsi, per quanto in questa sede è di rilievo, che tale atteggiamento ha contribuito ad avvalorare la sensazione di una certa volontà di nascondere fatti e responsabilità di maggiore importanza, che seppure infondata o comunque rimasta del tutto sfornita di prove, ha caratterizzato negativamente sotto il profilo probatorio tutto il procedimento.
Conclusioni in ordine alla posizione dei singoli imputati
Luperi Giovanni
Secondo la tesi accusatoria avrebbe rivestito insieme con il dr. Gratteri funzioni di comando quale funzionario di grado più elevato presente sul posto dopo il Pref. La Barbera, dunque “figura apicale del comparto della polizia di prevenzione cui fanno capo gli operatori della DIGOS territoriali” (v. f. 503 memoria conclusiva del P.M.), come riferito dal Pref. Micalizio.
L’imputato nel corso delle sue dichiarazioni spontanee ha contestato la posizione attribuitagli ed ha affermato che era stato nominato alla Direzione della Prevenzione come Consigliere ministeriale aggiunto con compiti specifici di studio e ricerca.
A parte ogni questione circa la funzione di comando da lui rivestita, comunque esistente almeno di fatto atteso il suo grado, deve riconoscersi, come già si è ampiamente rilevato, che la sua responsabilità in ordine ai reati ascrittigli potrebbe discendere esclusivamente dalla provata consapevolezza della falsità degli atti indicati al capo d’imputazione sub A) e degli elementi probatori acquisiti, tra cui in particolare il rinvenimento delle bottiglie molotov, nonché dell’innocenza degli indagati e dell’insussistenza dei presupposti per il loro arresto.
Sono già state escluse, perché prive di prove certe e concrete, le ipotesi di un “complotto” con predisposizione di elementi probatori o dell’organizzazione di una c.d. “spedizione punitiva” e pertanto la partecipazione dell’imputato alla fase organizzativa dell’operazione non può assumere alcun rilievo in ordine all’accertamento della sua responsabilità.
Si afferma peraltro che il dr. Luperi avrebbe avuto la possibilità di rendersi conto di quanto effettivamente stava accadendo e quindi delle violenze poste in essere ingiustificatamente dalle forze dell’ordine, atteso che era presente alle aggressioni in danno di Frieri e di Covell e che entrò nella Diaz pochi minuti dopo l’inizio dell’operazione insieme al dr. Gratteri e prima del Pref. La Barbera, come da quest’ultimo riferito [75].
Lo stesso Luperi ha ammesso di aver assistito alla fase finale dell’episodio narrato da Frieri ma ha escluso di aver visto compiere atti violenti all’interno della scuola, pur avendo notato diversi giovani seduti sul pavimento al piano terreno ed una ragazza ferita al primo piano [76].
In effetti dalla visione del filmato (Rep. 175 min. 23:57:39 – estratto) appare evidente che il dr. Luperi arrivò vicino al gruppo con Frieri quando quest’ultimo era già a terra; non può dunque ritenersi provato che abbia assistito alla fase iniziale dell’aggressione e agli atti di violenza e non può escludersi che, come da lui stesso dichiarato, possa aver ritenuto che gli agenti stessero terminando una legittima operazione volta a superare un atto di resistenza. Luperi appare inoltre piuttosto disinteressato a quanto sta accadendo ed infatti si volta indietro come se stesse aspettando o cercando qualcuno.
Non può altresì neppure ritenersi provato che Luperi si sia accorto della presenza di Covell in terra sulla destra del cancello, atteso che come risulta dal filmato (Rep. 175 min. 23:58:56 – estratto) intorno al cancello vi era molta confusione e molte persone mentre egli, almeno nel periodo visibile nel filmato, si trovava spostato sul lato sinistro. E’ vero che, come da lui stesso dichiarato, Luperi si spostò poi di fronte al cancello, ma ciò non consente di ritenere provato con la dovuta certezza né che si sia avveduto della presenza a terra di Covell né in particolare che, qualora se ne fosse reso conto, potesse essere consapevole dell’aggressione avvenuta nei suoi confronti e comunque della sua estraneità a qualsiasi atto di resistenza violenta.
Luperi entrò poi nella scuola insieme ad altri funzionari al termine dell’operazione di “messa in sicurezza”, quando cioè le violenze erano ormai del tutto cessate o comunque stavano terminando, cosicché, come si è già ampiamente osservato, non può ritenersi neppure provato con la dovuta certezza che abbia potuto rendersi conto di quanto era in effetti avvenuto.
Non occorre qui ripetere quanto già osservato circa la situazione determinatasi in seguito alle violenze avvenute nei giorni precedenti, tale da rendere plausibili anche eventi che in periodi normali sarebbero apparsi illogici ed irreali.
Per quanto attiene poi alla vicenda delle bottiglie molotov si è già ampiamente osservato che gli elementi acquisiti non consentono di ritenere provato con la dovuta certezza che Luperi fosse consapevole della provenienza di dette bottiglie e del fatto che non fossero state rinvenute all’interno della scuola.
In tale situazione probatoria l’imputato, in base al disposto dell’art. 530, comma 2, c.p.p., va dunque assolto dai reati ascrittigli con la formula “perché il fatto non sussiste”.
La consapevolezza della falsità degli atti indicati al capo d’imputazione sub A) e degli elementi probatori acquisiti, nonché dell’innocenza degli indagati e della carenza dei presupposti per il loro arresto costituisce infatti elemento costitutivo di detti reati, cosicché l’insufficienza delle prove acquisite in proposito ne comporta la dichiarazione di insussistenza.
Gratteri Francesco
Dirigente dello SCO, l’imputato, secondo la sintesi dei filmati acquisiti elaborata dai consulenti della parti civili, viene ripreso dalle telecamere in via Battisti qualche minuto prima dello sfondamento del portone principale della Diaz, successivamente mentre si allontana protetto da alcuni collaboratori, e quindi nell’atto di ritornare dotato di casco e manganello verso la scuola ove entra alcuni minuti dopo l’irruzione delle forze dell’ordine, praticamente insieme a Luperi.
Al dr. Gratteri al centro del cortile si rivolge inoltre il dr. Cremonini, come da quest’ultimo dichiarato [77], riferendogli della presenza di Covell ferito vicino al cancello e ricevendo l’assicurazione che stava arrivando l’ambulanza.
L’imputato [78] afferma di essere giunto sul posto dopo l’apertura del cancello del cortile; di essere entrato nella scuola Diaz Pertini quando la situazione si era ormai stabilizzata, di aver visto nella palestra diversi feriti anche gravi; di aver visto l’Ag. Nucera che gli aveva mostrato il corpetto lacerato e di aver notato che dai piani superiori scendevano altri feriti.
Circa le bottiglie molotov ha affermato di averle viste per la prima volta in mano ad un operatore in borghese senza sacchetto.
Ha altresì affermato di non aver rivestito funzioni di comando, affidate a funzionari di P.G..
A parte, come già rilevato in ordine alla posizione di Luperi, ogni questione circa la funzione di comando da lui rivestita, comunque esistente almeno di fatto atteso il suo grado, deve riconoscersi
che anche nei confronti di Gratteri valgono le stesse osservazioni sopra riportate per Luperi, nonché quanto già ampiamente osservato in ordine ai reati a quest’ultimo ascritti.
Non è invero possibile, in base agli elementi acquisiti, ritenere provato con la dovuta certezza che il dr. Gratteri abbia potuto rendersi conto di quanto era realmente avvenuto all’interno della scuola Diaz nei minuti precedenti al suo ingresso, né che fosse a conoscenza delle reali modalità dell’aggressione subita da Covell, della provenienza delle molotov e dell’innocenza degli arrestati.
Si è già ampiamente osservato, e non appare il caso di ripeterne le motivazioni, che il fatto di essere a conoscenza della presenza di Covell ferito vicino al cancello non può valere a provare che fosse anche al corrente di quanto era avvenuto e della causa del suo ferimento; che la vista dei numerosi feriti all’interno della Diaz Pertini non può ritenersi elemento decisivo atto a provare con la dovuta certezza la consapevolezza da parte sua delle violenze avvenute; che la sua presenza al c.d. “colloquio”, durante il quale Luperi teneva in mano il sacchetto con le bottiglie molotov, peraltro poco interessata, come appare evidente dal filmato Rep. 199 min. 8,55 (estratto), nonché gli altri elementi probatori acquisiti in proposito non consentono di affermare con certezza la consapevolezza da parte sua della falsità di detto reperto, e che infine non risulta accertato che fosse cosciente dell’innocenza degli arrestati in ordine ai reati ipotizzati a loro carico.
Anche tale imputato va dunque assolto in base al disposto dell’art. 530, comma 2, c.p.p. dai reati ascrittigli con la formula “perché il fatto non sussiste”.
Canterini Vincenzo
Circa la sua responsabilità in ordine ai reati ascrittigli si è già ampiamente trattato.
La sua prima relazione di servizio, allegata agli atti trasmessi alla Procura della Repubblica, fornendo al lettore la chiara percezione di una forte e diffusa resistenza posta in essere da parte o comunque con il concorso di tutti coloro che si trovavano all’interno della Diaz, ha certamente avuto un ruolo determinante nella successiva valutazione dei fatti e nella redazione dei citati atti, in particolare avvalorando la tesi circa la sussistenza del reato associativo.
Come già si è osservato inoltre il dr. Canterini, come da lui stesso ammesso [79], si soffermò al piano terreno della Diaz proprio per vedere che cosa fosse accaduto e notò così la presenza di “ragazzi sanguinanti accanto al muro”, salì al primo piano ove vide Melanie Jonasch soccorsa da Fournier e mentre saliva le scale, sentì quest’ultimo gridare: “Fuori, ora basta !”.
Risulta dunque evidente che l’imputato entrò nella scuola quando ancora le violenze erano in corso e cioè prima che Fournier intimasse di smettere e non solo non intervenne in alcun modo per farle cessare, né denunciò quanto aveva visto, ma omise anche qualsiasi accenno in proposito nella sua relazione.
Come già si è osservato tale comportamento omissivo costituisce conferma dell’esistenza di una sorta di accordo tra i dirigenti e gli agenti del VII nucleo, volto a garantire l’impunità di questi ultimi qualora avessero posto in essere comportamenti illeciti e violenti ed è evidente dunque che la presenza all’interno della scuola del dr. Canterini mentre le violenze erano ancora in corso, senza alcun intervento da parte sua per farle cessare, abbia rafforzato negli operatori la convinzione circa la persistente validità di tale accordo.
Nessun dubbio può pertanto sussistere circa la responsabilità dell’imputato in ordine ai reati di cui ai capi H) nonché F) e G) in relazione a quanto riferito in ordine alla resistenza avvenuta all’interno dell’edificio scolastico.
Si è già rilevato infatti come il dr. Canterini fosse invero al corrente di quanto era avvenuto in realtà nella scuola, cosicché redigendo la sua relazione in modo tale da indurre il lettore a convincersi che coloro che si trovavano nell’edificio avessero posto in essere atti di resistenza violenta in modo diffuso e generalizzato, avvalorava la tesi circa la loro responsabilità concorrente in ordine sia al reato di resistenza sia a quello associativo, palesando l’esistenza tra tutti loro di un pieno accordo ad opporsi agli agenti, nonostante fosse del tutto consapevole che ciò non corrispondeva al vero.
In ordine al capo d’imputazione sub H) deve escludersi la responsabilità dell’imputato in ordine alle contestate lesioni a carico di Heglund Cecilia, che ha affermato di non essere stata colpita [80].
In ordine ai capi F) e G) deve altresì escludersi la responsabilità dell’imputato in ordine a quanto da lui riferito circa gli atti di resistenza avvenuti mentre la polizia si trovava all’esterno dell’edificio scolastico nonché in ordine alla contestazione relativa al possesso di congegni esplosivi da parte di coloro che si trovavano nella scuola.
Si è già osservato in proposito, infatti, che qualche oggetto dovette essere stato lanciato contro gli agenti che si trovavano nel cortile della Diaz, cosicché quanto riferito dal dr. Canterini circa il lancio di oggetti contundenti e di bottiglie, anche se rinforzato dall’espressione “piovevano”, non può ritenersi connotato da assoluta falsità.
Va infine rilevato che nella relazione in esame il dr. Canterini non ha riferito alcunché circa le bottiglie molotov, di cui ha del resto affermato di aver appreso la presenza soltanto in epoca successiva da notizie giornalistiche [81], affermazione non contraddetta da alcun elemento probatorio acquisito.
I suddetti reati vanno unificati sotto il vincolo della continuazione, attesa l’evidente unicità del disegno criminoso, ritenendo più grave quello di cui al capo F).
All’imputato possono concedersi le attenuanti generiche in considerazione della sua incensuratezza ed in particolare della situazione di stress e di stanchezza in cui maturarono i fatti, già ampiamente descritta; dette attenuanti vanno peraltro ritenute soltanto equivalenti all’aggravante contestata, tenuto conto della gravità del fatto, commesso da un soggetto preposto proprio alla tutela della legalità, ed in particolare delle sue conseguenze.
Valutato dunque ogni elemento di cui all’art. 133 c.p. stimasi conforme ad equità e giustizia per il più grave reato di falso la pena di anni uno e mesi quattro di reclusione.
Detta pena va aumentata ex art. 81 cpv. c.p. per la riconosciuta continuazione con i reati di cui ai capi G) ed H) a loro volta connotati dalla continuazione, riferendosi a calunnie e lesioni nei confronti di più persone.
Il disposto dell’art. 81 c.p. limita l’aumento per la riconosciuta continuazione al triplo della pena base, cosicché, nonostante il numero dei reati da porre sotto tale vincolo sia tale da comportare il superamento di detto limite, anche considerando l’aumento minimo previsto di giorni quindici di reclusione per ciascuno, peraltro certamente inadeguato rispetto alla gravità dei fatti, la pena finale deve essere contenuta nel limite massimo consentito di anni quattro di reclusione.
L’imputato, in base al combinato disposto degli artt. 28 e 31 c.p., va condannato alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena principale.
Sussistono le condizioni per dichiarare condonata ex art. 1 L. 241/06, nella misura di anni tre di reclusione, la pena come sopra inflitta.
Fournier Michelangelo
L’imputato, comandante del VII Nucleo, entrò nella scuola Diaz attraverso il portone centrale, subito dopo il suo sfondamento.
Nel suo interrogatorio [82]del 21.9.2001 ha affermato di essere entrato tra i primi e nel corso del suo esame ha precisato:
“Quale comandante della forza ritenni di entrare per verificare che tutto procedesse regolarmente anche se formalmente la forza dipendeva dal funzionario. Fu piuttosto difficile entrare per il numero delle persone che si accalcavano all’ingresso. Penso che trascorse qualche minuto. Comunque entrai tra i primi, ma probabilmente non come dissi settimo od ottavo. Mi pare che venne aperto prima il portone centrale. Il nostro compito era praticamente di conquistare l’edificio ed in particolare i piani alti, come avviene di regola in ogni irruzione in immobili; non dovevamo partecipare all’operazione di cui non conoscevamo gli scopi”.
Il dr. Fournier ha quindi proseguito il suo racconto circa quanto avvenuto all’interno della scuola:
“Vi era molto caos; appena entrato mi diressi verso le scale a sinistra e mi portai al primo piano. Quando arrivai vidi che erano in corso colluttazioni; vi era buio, e guardando meglio vidi che non si trattava di vere colluttazioni, ma vi erano quattro o cinque poliziotti che stavano infierendo sui feriti. Non riferii subito quanto avevo visto per il mio senso di appartenenza al corpo della polizia. All’inizio pensavo che si trattasse di colluttazioni, ma poi mi accorsi che invece erano quattro, cinque energumeni che picchiavano i presenti; avevo visto inizialmente solo alcune sagome; intervenni subito gridando: “Basta, basta !”. Non avevo idea delle conseguenze dell’azione dei poliziotti, che erano per me irriconoscibili: due avevano il cinturone bianco e due indossavano le pettorine. Li mandai subito via. Non erano agenti del mio nucleo; se fossero stati i miei non avrei avuto bisogno di gridare
Prima mi soffermai all’altezza dei bagni; poi avanzando vidi una ragazza che giaceva in una pozza di sangue; vi erano anche grumi che io inizialmente scambiai per materia cerebrale; rimasi molto impressionato e subito ordinai ai miei uomini con il laringofono di uscire immediatamente dalla scuola e chiamai subito le ambulanze. Vi era un’altra ragazza che l’assisteva e che aveva una piccola cassetta di pronto soccorso; le dissi di non muoverla; io ero convinto che stesse morendo”.
Se dunque l’imputato entrò tra i primi all’interno della scuola e dopo aver salito una rampa di scale alla sua sinistra, trovò la ragazza ferita a terra in una pozza di sangue, è evidente che dovette trascorrere un certo periodo al piano terreno e sulle scale, atteso che nel frattempo era avvenuta l’aggressione alla ragazza ed i suoi uomini avevano raggiunto i diversi piani della Diaz.
Non è dunque possibile che, una volta all’interno della scuola, il prevenuto non si sia reso conto di quanto stava accadendo e delle violenze che avvenivano al piano terreno nel locale adibito a palestra; se si tiene conto della complessiva durata di dette violenze, e cioè del tempo trascorso tra l’ingresso delle forze dell’ordine ed il grido “Basta, basta”, pur ammettendo che l’imputato sia entrato non tra i “primissimi” ma comunque tra i primi, non è invero possibile che nei minuti trascorsi non abbia visto ciò che stava avvenendo, come si è già osservato in ordine a Canterini.
Del resto lo stesso Fournier ha ammesso di aver notato, seppure “con la coda dell'occhio in quei momenti di trambusto”, che al piano terreno “c'era una persona anziana che era stata picchiata.
Fournier, dunque, diede ai suoi uomini l’ordine di uscire e gridò: “Basta!” soltanto dopo aver visto le gravi condizioni in cui versava la Jonasch, che gli fecero temere la possibilità di eventi di particolare gravità.
Sino ad allora, peraltro, non era in alcun modo intervenuto, nonostante dovesse già essersi reso conto di quanto stava accadendo.
Se si tiene presente invero che, i capi squadra, come da loro stessi riferito, prima dell’ordine di uscire dall’edificio, avevano fatto in tempo praticamente a controllare i diversi piani della scuola, arrivando fino all’ultimo, e che comunque in base ai tempi elaborati sulla base dei filmati la fase delle violenze dovette durare alcuni minuti, risulta del tutto evidente che Fournier, salito al primo piano poco prima di dare l’ordine di uscire, ebbe certamente il tempo di assistere a quanto avveniva nella palestra al piano terreno e di rendersi quindi conto delle violenze poste in essere dagli agenti nei confronti di coloro che vi si trovavano.
Con tale comportamento e con il suo silenzio, dunque, Fournier non solo consentì la prosecuzione delle violenze, ma, come si è osservato, confermando la convinzione di impunità da parte di coloro che le ponevano in essere, ne rafforzò il proposito criminoso.
Va tenuto presente in proposito che l’ordine di uscire dall’edificio venne sentito ed eseguito da tutti i suoi uomini, circostanza che conferma il costante collegamento tra gli appartenenti al VII Nucleo ed il fatto che il precedente silenzio da parte sua, mentre le violenze venivano commesse in tutti i piani della scuola, non poteva valere che come conferma dell’accordo esistente di non denunciare eventuali eccessi commessi durante l’operazione.
Risulta pertanto del tutto evidente la responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli sub H), sempre con l’eccezione, già posta in evidenza in ordine a Canterini, circa le lesioni in danno di Heglud Cecilia, che ha escluso di essere stata colpita.
All’imputato possono riconoscersi le attenuanti generiche, ritenendole prevalenti sulle contestate aggravanti, sia per la sua incensuratezza sia in considerazione della situazione di stress e di stanchezza in cui maturarono i fatti sia perché fu l’unico ad intervenire per far cessare le violenze, anche se poi omise di denunciarle.
Valutato ogni elemento di cui all’art. 133 c.p., stimasi equa e conforme a giustizia la pena di anni due di reclusione (p.b. anni uno di reclusione per il più grave reato di lesioni in danno di Lena Zhulke, ridotta di un terzo ex art. 62 bis c.p. ed aumentata sino al triplo per la continuazione).
Va invero osservato che le lesioni subite dalla predetta Zhulke appaiono le più gravi tra quelle in oggetto e che, come già si è osservato per Canterini, dato il numero dei reati posti in continuazione anche l’aumento minimo previsto, di quindici giorni per ciascuno, comporterebbe il superamento del limite massimo stabilito dall’art. 81 c.p..
Anche Fournier, in base al combinato disposto degli artt. 28 e 31 c.p., va condannato alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena principale.
All’imputato, incensurato, possono concedersi i benefici della sospensione condizionale della pena come sopra inflitta e della non menzione della condanna, sotto le comminatorie di legge.
I Capi Squadra – Basili Fabrizio
I capi squadra del VII Nucleo entrarono tra i primi con i loro uomini nella scuola Diaz e salirono ai vari piani, atteso che, come riferito dal dr. Fournier, il loro compito “era praticamente di conquistare l’edificio ed in particolare i piani alti, come avviene di regola in ogni irruzione in immobili”.
L’imputato Basili nel corso delle sue dichiarazioni ha precisato:
“All’epoca non ero capo squadra, anche se Ispettore Capo, essendo stato l’istruttore del VII nucleo; ogni unità operativa è composta da circa dieci uomini diretti da un caposquadra; faccio presente che il capo squadra è l’unico cui la squadra deve fare riferimento, cosicché anche se un dirigente superiore dovesse impartire disposizioni alla squadra gli uomini dovranno sempre attendere l’ordine del capo squadra”.
E’ dunque evidente che ciascun capo squadra dovesse essere praticamente sempre a contatto con i propri uomini e che le diverse squadre dovessero rimanere il più possibile compatte.
Dalle stesse dichiarazioni rese dagli imputati [83] e dalle loro relazioni di servizio risulta che in effetti gli agenti del VII Nucleo entrarono tra i primi, partecipando altresì direttamente allo sfondamento dei portoni centrale e laterale e si distribuirono quindi in tutto l’edificio salendo ai piani superiori.
Come già si è osservato dunque in ordine a Canterini e Fournier, non è possibile che detti imputati non si siano almeno resi conto di quanto realmente stava accadendo e delle violenze che venivano poste in essere nei confronti di coloro che si trovavano all’interno della scuola.
Ed invero nelle loro relazioni, redatte alcuni giorni dopo i fatti, quando ormai già era emerso quanto era avvenuto nella Diaz, diversi imputati riferirono di aver assistito in effetti ad episodi di violenza compiuti da personale diverso dal VII Nucleo, precisando di avere essi stessi aiutato alcuni dei giovani, vittime delle violenze [84].
Deve peraltro osservarsi che non risulta in alcun modo che i predetti imputati, come era loro preciso obbligo, si siano immediatamente attivati per fare cessare le violenze da chiunque commesse, né che abbiano subito dopo i fatti denunciato quanto avvenuto.
L’aiuto dato, ad esempio, da Ledoti ad una “ragazza spaventata”, non può assumere alcun rilievo circa la sua responsabilità in ordine al reato in oggetto, atteso che era suo preciso obbligo intervenire immediatamente per fare cessare ogni violenza ingiustificata e non soltanto per salvare una delle vittime di tali violenze.
Si è già posto in evidenza infatti il dovere di ogni pubblico ufficiale non solo di impedire la commissione di reati ma anche di denunciarne gli autori, senza alcuna distinzione tra fatti commessi da propri subordinati o da altri.
Come si è più volte ampiamente rilevato il comportamento omissivo dei capi squadra, che per di più erano collegati via radio con tutti gli appartenenti al VII Nucleo, contribuiva a rafforzare negli autori delle violenze, loro subordinati ed anche appartenenti ad altri reparti, la convinzione dell’impunità e quindi il loro proposito criminoso.
Va anche osservato che, se quanto riferito nelle relazioni di servizio fosse stato immediatamente denunciato, ben difficilmente tali circostanze avrebbero potuto essere omesse nella descrizione dei fatti riportate nei verbali di perquisizione e di arresto.
Nessun dubbio può dunque sussistere circa la responsabilità di detti imputati in ordine al reato loro ascritto.
Agli imputati possono riconoscersi le attenuanti generiche in considerazione sia della loro incensuratezza sia della situazione di stress e di stanchezza in cui maturarono i fatti, ritenendole peraltro soltanto equivalenti all’aggravante contestata, tenuto conto della gravità del fatto, commesso da soggetti addestrati proprio alla tutela dell’ordine e della legalità.
Valutato dunque ogni elemento di cui all’art. 133 c.p., stimasi conforme ad equità e giustizia condannare ciascuno degli imputati alla pena di anni tre di reclusione (p.b. anni uno di reclusione per il più grave reato di lesioni in danno di Lena Zhulke, aumentata sino al triplo per la continuazione).
Va invero osservato che, come già si è rilevato, dato il numero dei reati posti in continuazione anche l’aumento minimo previsto, di quindici giorni per ciascuno, comporterebbe il superamento del limite massimo stabilito dall’art. 81 c.p..
Sussistono le condizioni per dichiarare interamente condonate ex art. 1 L. 241/06 le pene come sopra inflitte agli imputati.
Detti imputati, in base al combinato disposto degli artt. 28 e 31 c.p., vanno altresì condannati alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena principale.
Troiani Pietro – Burgio Michele
Circa la responsabilità di tali imputati in ordine ai reati loro ascritti si è già ampiamente trattato in particolare nella “Ricostruzione dei fatti”.
Si è rilevato invero come, in base agli elementi probatori acquisiti, l’unico fatto emerso con la dovuta certezza in ordine alle bottiglie molotov in oggetto, oltre alla loro provenienza, sia il loro trasporto ad opera di Burgio dal Magnum a lui affidato alla scuola Diaz su indicazione di Troiani.
E’ appena il caso di osservare che l’eventuale ordine rivolto a Burgio da Troiani sarebbe stato così evidentemente illegittimo da poter essere percepito come tale da chiunque, e che di conseguenza Burgio non avrebbe in alcun modo dovuto eseguirlo.
Va altresì rilevato che il falso ritrovamento delle bottiglie molotov presso la scuola Diaz comportava necessariamente l’attribuzione del loro possesso a coloro che vi si trovavano, come in effetti avvenne; gli imputati erano quindi perfettamente consapevoli di incolpare questi ultimi di un reato di cui sapevano che erano innocenti.
Troiani e Burgio vanno dunque riconosciuti responsabili dei reati loro rispettivamente ascritti, uniti sotto il vincolo della continuazione, attesa l’evidente unicità del disegno criminoso.
Ad entrambi possono concedersi le attenuanti generiche, ritenendole prevalenti sulle contestate aggravanti, in considerazione della loro incensuratezza, della situazione di stress e di stanchezza in cui agirono nonché in particolare della sostanziale confessione di Troiani e del fatto che Burgio in definitiva eseguì quanto richiesto da Troiani.
Valutato ogni elemento di cui all’art. 133 c.p., stimasi conforme ad equità e giustizia condannare Troiani alla pena di anni tre di reclusione ed euro 650,00 di multa (p.b. per il più grave reato di porto d’armi, anni due di recl. ed euro 750,00 di multa, ridotta di un terzo ex art. 62 bis c.p. ed aumentata di mesi due di recl. ed euro 150,00 di multa per la detenzione delle armi, di anni uno di recl. per il reato di calunnia e di sei mesi di recl. per quello di falso), e Burgio alla pena di anni due e mesi sei di reclusione ed euro 650,00 di multa (p.b. anni due ed euro 750,00 di multa, ridotta di un terzo ex art. 62 bis c.p. ed aumentata di mesi due di recl. ed euro 150,00 di multa per la detenzione delle armi e di anni uno di recl. per il reato di calunnia).
Sussistono le condizioni per dichiarare interamente condonate ex art. 1 L. 241/06 le pene come sopra inflitte agli imputati.
Troiani e Burgio, in base al combinato disposto degli artt. 28 e 31 c.p., vanno altresì condannati alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena principale.
Nucera Massimo – Panzieri Maurizio
La posizione di tali imputati è già stata ampiamente trattata nella “Ricostruzione dei fatti”, ove si è affermata l’impossibilità, in base alle prove acquisite, nonché alla perizia ed alle consulenze di parte, di stabilire con la dovuta certezza se l’aggressione descritta da Nucera e Panzieri sia realmente avvenuta.
Non resta dunque che rinviare a quanto già rilevato, ribadendo in particolare l’incontestabile stranezza e scarsa logicità dell’eventuale falsa elaborazione di un simile episodio da parte di un agente e di un ispettore, per di più neppure appartenenti allo stesso reparto.
In tale situazione probatoria in base al disposto dell’art. 530, comma 2, c.p.p., entrambi gli imputati vanno assolti dai reati loro ascritti con la formula “perché il fatto non sussiste”.
Sottoscrittori della notizia di reato e dei verbali di perquisizione e arresto
Come già si è osservato nella “Ricostruzione dei fatti”, la notizia di reato, materialmente redatta dal dr. Gallo e dal dr. Schettini, venne sottoscritta dagli imputati Mortola e Dominici nelle rispettive qualità di dirigente della Digos e della Squadra Mobile; il verbale di perquisizione e sequestro, redatto almeno in parte da Mazzoni, venne sottoscritto da Panzieri, Nucera, Gava, Ferri, Aniceto, Cerchi, Di Novi, Mazzoni e Di Bernardini, i quali, insieme a Mortola, Dominici, Di Sarro, Caldarozzi, Ciccimarra e ad un altro funzionario non identificato, sottoscrissero anche il verbale di arresto, materialmente compilato da Ferri, Gava e Ciccimarra.
Si è già altresì rilevato che gli elementi probatori acquisiti non consentono di affermare con la dovuta certezza che i predetti imputati fossero consapevoli di riportare negli atti a loro firma circostanze non corrispondenti al vero.
Quanto dai medesimi affermato [85] circa la redazione di tali atti in base agli elementi e alle notizie fornite dai colleghi non risulta smentito da elementi probatori certi ed appare del resto del tutto compatibile con la situazione piuttosto confusa che si era determinata.
Si è già altresì osservato che i citati imputati entrarono nell’edificio scolastico quando le violenze erano ormai praticamente terminate, e che non può quindi escludersi con certezza che non si siano resi conto di quanto era realmente avvenuto.
La relazione del dr. Canterini, del resto, forniva una ricostruzione degli eventi sostanzialmente corrispondente al contenuto degli atti in esame, ed induceva quindi certamente i sottoscrittori di detti atti, che, non avendo assistito direttamente ai fatti nella stessa descritti, non avevano alcun motivo per dubitare della sua attendibilità, a ritenere del tutto fondato quanto veniva riportato nei verbali di perquisizione e di arresto e a non valutarlo criticamente.
Per quanto attiene all’indicazione nei citati verbali di Mark Covell tra coloro che si trovavano all’interno della Diaz e la mancata specificazione dell’aggressione dal medesimo subita, deve rilevarsi che non risulta in alcun modo provato che gli imputati fossero a conoscenza di quanto avvenuto ed in particolare che la persona ferita in prossimità del cancello d’ingresso della Diaz fosse Covell, da loro certamente non conosciuto, né che tra i numerosi feriti identificati negli ospedali e tutti evidentemente indicati quali provenienti dalla Diaz, dovesse essere precisato che Covell non si trovava in effetti all’interno dell’edificio scolastico, ma era stato prelevato dall’ambulanza all’esterno dello stesso.
Si tratta invero di un evidente errore dovuto all’identificazione dei numerosi feriti presso gli ospedali cittadini e non sul luogo ove erano avvenuti i fatti e per di più da operatori che non vi avevano direttamente assistito.
In tale situazione probatoria, dunque, i citati imputati, in base al disposto dell’art. 530, comma 2, c.p.p., vanno assolti dai reati loro ascritti con la formula “perché il fatto non sussiste”.
Ed invero, come già osservato in ordine alla posizione di Luperi, la consapevolezza della falsità degli atti indicati al capo d’imputazione sub C) e degli elementi probatori acquisiti, nonché dell’innocenza degli indagati e della carenza dei presupposti per il loro arresto costituisce elemento costitutivo di detti reati, cosicché l’insufficienza delle prove acquisite in proposito ne comporta la dichiarazione di insussistenza.
Gava Salvatore
L’imputato Gava deve rispondere del reato di falso ideologico per aver attestato, contrariamente al vero, la propria partecipazione agli atti di perquisizione all’interno della scuola Pertini e di sequestro di armi, strumenti d’offesa ed altro materiale nei confronti delle persone arrestate durante la notte fra il 21 ed il 22 luglio 2001.
Diversamente dalla contestazione, mossa ad altri imputati ai capi A) e C), attinente al contenuto degli atti redatti, fra cui i verbali sopra indicati, Gava é accusato di avere sottoscritto il verbale di atti da lui non compiuti. E’ pacifico infatti che quella notte non entrò nella scuola Pertini, mentre fece ingresso nella Pascoli.
Gava ha sempre dichiarato al PM, durante le indagini preliminari, che fu raggiunto nell’edificio dal collega Ferri e che insieme uscirono sul “vialone fra le due scuole”, dunque via Cesare Battisti, mentre era in corso un via vai di persone e di ambulanze. Incontrarono il dr. Caldarozzi, il quale dispose che si occupassero dell’identificazione dei feriti, compresi quelli trasportati in ospedale. Tale servizio comportava “la dislocazione di uomini” nei vari nosocomi della città, al fine di acquisire i dati richiesti. L’operazione si rivelò assai complessa e richiese alcune ore.
Accompagnati dai rispettivi autisti, Gava e Ferri si portarono dunque in Questura. Gava ha ricordato di avere notato, fra le tante persone che transitavano negli uffici, il dr. Caldarozzi ed il dr. Mortola, forse anche il dirigente della Squadra Mobile di Padova, dr. Filocamo. Ma il suo referente fu soltanto Ferri, più alto di lui in grado, il quale gli comunicò la decisione di andare a Bolzaneto con Ciccimarra per redigere il verbale di arresto. Tale compito non meravigliò Gava, poiché si stava occupando dell’identificazione delle persone arrestate.
In una stanza della scuola di Bolzaneto, ove erano state accompagnate le persone provenienti dalla scuola Pertini che non si trovavano negli ospedali, Ferri e Gava incontrarono il collega Di Bernardini. Questi provvide a redigere la propria relazione, che consegnò loro, e si allontanò.
I predetti funzionari proseguirono il lavoro per molte ore, ultimandolo in Questura nel pomeriggio del 22 luglio. Gava ha più volte sottolineato la stanchezza determinata dal servizio ininterrotto dei giorni precedenti e l’impegno nel redigere un atto che riguardava l’arresto di moltissime persone. Ferri si mantenne in continuo contatto con la Questura, per raccogliere le notizie necessarie all’elaborazione. Gava ha affermato di non conoscere la fonte cui attinse il collega, pur avendola reputata certamente “qualificata”. A suo avviso il verbale di arresto si era basato anche sulla relazione del dr. Canterini e dell’agente Nucera, vittima di un accoltellamento, pur non rammentando se tali atti fossero stati trasmessi a Bolzaneto ovvero consultati nel pomeriggio in Questura. In tale sede Gava sicuramente sottoscrisse il verbale di perquisizione e sequestro.
Dalle deposizioni dei funzionari dr. Gallo e dr. Schettini emerge che costoro furono gli interlocutori del dr. Ferri presso la Questura. Non parteciparono alla complessa operazione di Polizia; arrivarono negli uffici durante la notte e furono incaricati, il primo dal dr. Mortola, il secondo dal dr. Dominici, di redigere la notizia di reato, sulla base dei racconti dei predetti dirigenti nonché delle relazioni di Canterini e Nucera.
Richiesto di spiegare perché firmò un atto senza averne titolo, Gava ha risposto di avere agito nel convincimento dell’opportunità della sua sottoscrizione anche sul verbale di perquisizione e sequestro, che altri aveva redatto, poiché aveva dato un contributo all’operazione, provvedendo all’identificazione delle persone perquisite ed arrestate.
E’ noto che sia prassi comune la sottoscrizione degli atti in questione da parte di tutti coloro che in qualche modo abbiano partecipato alle operazioni, cosicché non appare inverosimile che in effetti Gava, avendo ricevuto l’incarico di procedere alla perquisizione in questione, essendosi recato sul posto, seppure sbagliando obiettivo, ed avendo poi proceduto all’identificazione dei soggetti coinvolti, senza cui il predetto atto non avrebbe potuto essere redatto, si sentisse in qualche modo partecipe di tale operazione, e potesse in effetti essere convinto di doverlo comunque sottoscrivere, al fine sia di attestare l’identità delle persone nei cui confronti si era svolta l’operazione sia la sua partecipazione almeno in tale fase.
Non risulta dunque provato, in base agli elementi acquisiti, che nel momento in cui appose la propria sottoscrizione sul verbale di perquisizione e sequestro, Gava fosse consapevole di agire contro il dovere giuridico, connaturato alla sua funzione di pubblico ufficiale, di dichiarare il vero.
L’assenza di prove circa la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato impone dunque l’assoluzione dell’imputato perché il fatto non costituisce reato.
Non appare superfluo ripercorrere le diverse fasi della vicenda processuale a carico di Gava.
L’imputazione di falso elevata nei confronti di Gava ha invero subito mutamenti nel corso della complessa vicenda processuale, di cui ha formato oggetto.
In origine tale funzionario si è visto contestare il concorso con altri nel reato di falso ideologico in relazione al contenuto, che l’accusa assumeva falso, del verbale di perquisizione e sequestro presso la scuola Pertini.
In data 21/1/05 il PM chiedeva l’archiviazione in ordine a tale reato di falso nonché al reato di calunnia: non avendo l’indagato “conoscenza e consapevolezza per scienza diretta dei luoghi”: poiché non entrò in quell’edificio, non poteva avere contezza della non rispondenza a verità delle operazioni descritte in tale atto.
Con ordinanza del 15/6/05 il GIP accoglieva la richiesta di archiviazione in ordine al solo reato di calunnia, disponendo invece l’imputazione coatta in ordine al reato di falso, che però delineava con profili del tutto nuovi.
La falsità commessa da Gava doveva a suo avviso ravvisarsi non in relazione al contenuto intrinseco dell’atto, bensì nell’aver, contrariamente al vero, attestato di aver preso parte alla perquisizione. Poiché gli atti di identificazione degli indagati furono compiuti dal suo sottoposto Ass. Aniceto Leone, doveva escludersi, secondo il GIP, che Gava avesse compiuto in relazione alla perquisizione e sequestro nella scuola Pertini qualsiasi atto di polizia giudiziaria che giustificasse la sottoscrizione del verbale, fidefaciente sino a querela di falso delle operazioni ivi descritte.
Il 20/7/05 il PM formulava l’imputazione e chiedeva il rinvio a giudizio.
Il 27/7/05 il GUP pronunciava sentenza di non luogo a procedere “perché il fatto non costituisce reato”, osservando che il dr. Gava quella notte si occupò per il tramite dell’ass. Aniceto dell’identificazione degli arrestati ricoverati negli ospedali cittadini e personalmente di quelli condotti alla caserma di Bolzaneto, luogo ove Gava e Ferri si recarono proprio allo scopo di redigere i verbali. Egli firmò dunque senza alcuna consapevolezza di commettere il reato di falso.
Il PM proponeva appello, che la Corte dichiarava inammissibile. Formulava pertanto ricorso per Cassazione, accolto con sentenza del 9/7/07.
Il GUP rinviava quindi a giudizio Gava.
Stessa sorte subiva l’imputato Troiani per altro reato a suo carico. Il procedimento penale nei confronti dei predetti confluiva infine in quello ove essi stessi, Luperi ed altri erano imputati, il cui dibattimento era in corso dinanzi al Tribunale di Genova.
La Corte di Cassazione non ha condiviso il giudizio, espresso dal GUP, di “irrimediabile lacunosità delle fonti di prova, senza tener conto di una serie di fatti e circostanze e avventurandosi in valutazioni circa la sussistenza dell’elemento psicologico”.
Rileva la Corte la contraddittorietà insita nella sentenza impugnata, poiché da un lato attribuisce la sottoscrizione del verbale di perquisizione alla leggerezza del Gava, senza offrire giustificazione di tale convincimento, dall’altro lascia intendere che questi avrebbe agito nella consapevolezza di non aver partecipato all’atto, ma compiendo un atto di fiducia nell’operato dei colleghi. Osserva la Corte che la prima tesi non è verosimile, considerate le competenze di un funzionario di polizia, che lo rendono idoneo a distinguere fra un atto a cui ha partecipato ed un atto a cui non ha preso parte e che non deve sottoscrivere. La seconda tesi non sarebbe stata sviluppata sufficientemente, poiché non si comprende in quali termini debba intendersi la fiducia che Gava avrebbe risposto nei colleghi. In definitiva ha ritenuto la Corte indispensabile la verifica dibattimentale.
Come più sopra osservato, vagliate le prove raccolte a seguito del rinvio a giudizio, deve affermarsi invece che Gava non appose la propria firma con superficiale comportamento e senza rendersi conto della rilevanza della sua sottoscrizione.
Egli stesso ha affermato infatti che firmò con pieno convincimento di avere partecipato all’atto e condiviso la decisione degli arresti. Poiché il suo complesso lavoro proseguì ininterrottamente sino al giorno successivo, il funzionario non intese sottrarsi alla propria responsabilità in merito a quella porzione di apporto che diede alla formazione dell’atto. Il suo contributo riguardò la fase successiva agli atti compiuti, ma era indispensabile per il completamento dell’attività di documentazione.
Deve escludersi invece che Gava abbia firmato con l’intenzione di esprimere ai colleghi la propria “solidarietà” – secondo un’ipotesi della Corte di Cassazione – avvalorando il loro operato.
Gava era talmente poco informato delle ragioni della perquisizione di quella notte da non conoscerne nemmeno l’obbiettivo, che infatti sbagliò. Era al corrente soltanto delle sommarie notizie apprese nella seconda riunione in Questura nella serata del 21 luglio e si limitò a seguire gli appartenenti alla Polizia di Stato che lo precedevano, trovandosi all’interno della scuola Pascoli. Tornato in via Battisti, ricevette disposizioni dal dr. Caldarozzi e le eseguì.
Non può dunque ritenersi incomprensibile, ingiustificato e quindi insussistente il convincimento, dal medesimo riferito, di essere stato in qualche modo coinvolto nelle operazioni di polizia di quella notte e, di conseguenza, di venir meno ad un suo dovere, laddove non lo avesse dimostrato, sottoscrivendo il verbale in questione.
[72] … Dopodiché abbiamo iniziato la sollecitazione di questi atti che continuavano a non arrivare. Io ricordo che poi quella sera la sollecitazione fu continua, con ritardi … va beh, mi rendo conto che fossero atti complessi da redigere e mi ricordo che poi finalmente gli atti vennero portati in Procura tardi, se non sbaglio non prima delle 18.30”. … “A fronte delle continue sollecitazioni dell’ufficio di Procura "ma allora questi atti arrivano o non arrivano", le risposte erano "guardate che sono atti complessi", "e allora mi raccomando, a maggior ragione voglio che siano veramente redatti bene".
[73] “… Quando sono arrivati questi funzionari, le violenze nella palestra erano terminate, però alcuni poliziotti stavano ancora trascinando e picchiando giù per le scale alcuni giovani”.
[74] “ … Ho poi notato due poliziotti in abiti civili, uno aveva la barba, uno aveva un vestito completo scuro (giacca e pantaloni uguali e cravatta ); mentre li ho visti venivo picchiato. Il poliziotto in abito blu parlava con gli altri e sembrava dare disposizioni, non sembrava colpito dalla scena. Tale poliziotto entrò nella palestra mentre io venivo picchiato”.
[75] “Saranno passati dai due ai tre minuti circa dall’introduzione della Polizia nei locali quando anch’io mi ci introdussi, trattenendomi all’interno, al piano terra, per altri tre-quattro minuti. Ciò che vidi è quanto ora riferirò. In terra, sul lato sinistro della sala, erano sdraiate dalle trenta alle quaranta persone, in atteggiamento di coloro che sono in attesa di essere perquisite. Tali persone non si lamentavano. Vidi anche una ragazza minuta, in piedi, con del sangue su un lato del volto. Ricordo anche che il dott. Luperi della Polizia di Stato, che era a metà della scala che conduce al primo piano, mi disse che c’era bisogno di un’ambulanza in quanto al piano di sopra vi era una persona che perdeva sangue. Trascorsi dunque quei tre-quattro minuti di cui ho già detto, notai che era già giunta sul posto la televisione. Pensai bene di allontanarmi, cosa che feci subito. Non ho pertanto visto atti di violenza da qualsiasi parte provenienti” (s.i.t. 3/8/2001).
[76] “Arrivammo nei pressi della scuola; vedemmo un giovane trattenuto a terra da agenti di polizia; certamente non avendo visto il precedente ritenni che si trattasse di un legittimo intervento. Ricordo lo sfondamento del cancello; il reparto che entra nel cortile, leva gli scudi e trova difficoltà ad aprire il portone. Ebbi la sensazione che dall’alto volassero oggetti e poi il collega Fiorentino mi fece notare la presenza in terra di calcinacci. Entrato notai circa una quarantina di persone sedute a terra; la situazione non appariva allarmante. Salii al primo piano ove vidi una persona in una chiazza di sangue e mi preoccupai; così scesi e mi informai se fossero stati chiamati i soccorsi. Non ricordo di aver visto nella sala al piano terra le macchie di sangue poi viste nelle riprese televisive; potevano essere coperte dalle persone sedute a terra, oppure è possibile che si siano determinate in seguito alla discesa dai piani superiori di altri giovani” (Ud. 27/3/2008).
[77] “Mentre predisponevo il cordone, i miei uomini mi dissero che vicino al muro nei pressi del cancello vi era una persona a terra, che non avevamo visto prima, anche perché la strada non era molto illuminata. Quando arrivammo avevamo in effetti notato che c’era qualcosa a terra, ma non avevamo capito che si trattasse di una persona; abbiamo visto un’ombra. Ho detto agli uomini di restare intorno a quella persona, ma di non avvicinarglisi ed andai nel cortile per avvisare del fatto. Al centro del cortile vi era un funzionario in abito civile, in giacca, mi pare con un vestito completo, con la barba e i capelli corti, che mi disse che stavano arrivando le ambulanze e quindi di tornare presso i miei uomini. Riconobbi in seguito dalle foto sui giornali il funzionario, che era il dr. Gratteri. Mi sembrava che fosse già al corrente della situazione. La persona a terra era rannicchiata in posizione fetale e non se ne vedeva il volto. Quando arrivammo la zona ove giaceva la persona a terra era sgombera. Dopo circa una decina, quindicina di minuti arrivarono le ambulanze” (Ud. 30/11/2006).
[78] “Era implicito che le responsabilità del comando delle operazioni fossero affidate ai Funzionari di PG. del posto più alti in grado e dunque in particolare al dr. Mortola della DIGOS e al dr. Dominici della Squadra Mobile. In concreto , poi, si decise di formare due colonne rispettivamente guidate dal dr. Mortola e da un altro Funzionario della DIGOS mi sembra fosse il dr. Di Sarro, che, da punti diversi avrebbero dovuto convergere nella strada antistante l’edificio da perquisire. Ritenni di dover partecipare all’operazione per stare vicino ai miei uomini pur non avendo compiti di Ufficiale di P.G., per questo motivo seguii una delle due colonne con un auto di servizio in compagnia del dr. Caldarozzi. Tenuto conto dell’intasamento che si era creato, dato il cospicuo numero di uomini che facevano parte delle colonne che mi precedevano, non sono riuscito a giungere a bordo dell’auto proprio nella vicinanza della scuola ma mi sono fermato prima e ho percorso un tratto di strada a piedi per raggiungere l’edificio scolastico … Non ho quindi assistito alla dinamica dell’irruzione, ho fatto ingresso nella palestra della scuola solo successivamente e ho potuto constatare che in detto locale vi erano, sul lato sinistro, un certo numero di persone ferite, alcune in maniera anche grave. Poco dopo ho notato un agente del Rep. Mobile che ha mostrato a me e ad altri funzionari presenti il proprio corpetto lacerato, riferendomi di una aggressione subita ad opera di una persona che non era riuscito ad identificare e che gli si era avventata contro con un coltello , uscendo da una aula buia ... Certo è che mi sono trattenuto per pochi minuti soltanto al piano terra dell’edificio, dove ho avuto modo di notare oltre alle persone ferite che ho descritto, che altri feriti venivano portati dai piani superiori …
Le bottiglie molotov ricordo di averle viste in mano ad uno operatore in borghese, non contenute in un involucro. L’operatore in questione non è quello di cui alle foto che mi vengono mostrate , con la testa rasata e che regge le due bottiglie con guanti alle mani. Per quanto mi risulta fu presa la decisione di procedere all’arresto, ma io non avevo titolo per deliberare in tal senso non essendo Ufficiale di P.G. ...
In relazione a tale ultimo episodio (irruzione nella scuola Pascoli) preciso che sono effettivamente intervenuto perché mi appariva chiaro che si trattasse di un errore, in quanto non era quello l’edificio che si era deciso di perquisire, per il resto ribadisco che ritengo che fosse corretto il mio astenermi dal compimento di atti di Polizia Giudiziaria, né di parteciparvi in alcun modo, anche indiretto. Per la stessa ragione non ho partecipato alla redazione di alcun verbale diretto alla A.G.” (int. 29/6/2002)
[79] “ … Sulla destra mi sembra ci fosse la palestra e ho visto dei ragazzi sanguinanti accanto al muro della palestra e poi ho visto uno dei miei... due dei miei, uno che zoppicava evidente... abbastanza e un altro che pure diceva di essere stato contuso … Adesso non ricordo perfettamente però mi sembra che sulla destra c’era una sorta di palestra e sulla sinistra, non proprio a sinistra ma leggermente a sinistra le scale che salivano … Sono entrato più che altro per vedere cosa era successo … Non arrivo nella palestra perché mi fermo nel disimpegno. Vedo, noto quello che è successo ... poi prendo le scale e salgo per vedere cosa succedeva ai piani superiori … Salgo le scale e mi dirigo al primo piano e nel frattempo sento a voce, non per radio ma a voce ... riconosco la voce del dottor Fournier che dice “fuori, ora basta, fuori, ora basta” e continuo a salire e in effetti, arrivato al primo piano, ho capito perché ... vedo il dottor Fournier accanto a una ragazza con una ferita..., non glielo posso dire che era una ragazza perché era in posizione rannicchiata e quindi non si poteva dire se era uomo o donna. Ricordo dei capelli da una parte lunghi e da una parte rasati e soprattutto ricordo un importante ferita di questa ragazza alla testa e il dottor Fournier che la soccorreva ...” (Trascrizione esame ud. 6/6/07)
[80] “Io ero contro il muro e davanti a me vi erano altre persone, così non venni colpita. Dopo un po’ l’azione terminò e ci fecero scendere in fila al piano inferiore. Sulla scala vi erano poliziotti che colpivano con pugni e colpi di vario tipo quelli che scendevano. Io non venni colpita” (ud. 6/12/2006).
[81] “… Sono venuto a conoscenza delle bottiglie molotov da un articolo pubblicato dal Corriere della Sera, credo un anno dopo …” (trascr. ud. 6/6/2007 f. 129).
[82] “… Ci siamo ammassati di fronte all’ingresso principale, mentre altri si ammassavano di fronte a quello laterale. Io ero presumibilmente nelle prime posizioni, forse sarò stato in ottava o nona posizione … La porta è stata aperta in pochi secondi, ho già precisato la mia posizione e il fatto che presumibilmente fossi preceduto immediatamente dagli uomini del mio reparto”
[83] Basili Fabrizio: “… Ho fatto ingresso dal portone centrale dopo che tutto l’altro gruppo composto da tre squadre era già entrato. Mi sembra che nel frattempo fosse già stato aperto il portone laterale … Appena sono entrato mi sono trovato nell’atrio dove c’era altro personale in borghese che stava immobilizzando alcuni ragazzi per terra, non so dire quanti. Io mi sono limitato a liberare meglio l’ingresso da alcune assi e un banchetto che lo ingombravano; poi mi sono diretto verso la scala che portava al piano superiore, subito sulla sinistra c’era un corridoio con altre stanze e la rampa di scale che porta ai piani superiori” (int. 20/9/2001).
Tucci Ciro: “… Col mio gruppo ci accostammo al portone di sinistra, in quanto avevo visto un collega in borghese, con la pettorina, che stava cercando di sfondarlo con un banco di scuola e così l’aiutammo. Entrati, salimmo al secondo piano ove le luci erano spente; poi vennero accese e non vedemmo nessuno, così salimmo al terzo pano, ove vi era un gran fumo, probabilmente polvere di estintori; vi erano alcuni colleghi in colluttazione con alcune persone; li hanno presi e portati giù, al pianoterra. Nel frangente vidi anche il Sovrintendente Ledoti, che stava accompagnando giù una ragazza molto impaurita. Salii al piano superiore, in quanto un collega gridava che c’era bisogno di un medico perché c’era un ragazzo a terra, messo male; avvertii il dr. Fournier il quale subito dopo diede l’ordine di uscire” (dich. ud. 3/4/2008).
Lucaroni Carlo: “… Mi avvicinai con la massima cautela al portone centrale; mi pare che fossi circa a metà del gruppo che stava entrando; sentii anche cadere alcune bottiglie tanto che dissi di alzare gli scudi. Quando entrai il personale all’interno stava già iniziando l’operazione di controllo; io non ebbi alcuna colluttazione; nessuno degli occupanti fece resistenza nei mie confronti ed io non usai in alcun modo il tonfa. Salii al primo ed al secondo piano; vidi alcuni feriti ma non vidi chi li aveva colpiti.
Se avessi visto qualcuno che commetteva violenze sarei sicuramente intervenuto immediatamente. Sentii poi l’ordine del mio comandante di nucleo, dr. Fournier di scendere ed uscire e così con il mio personale uscimmo. Al primo piano vidi il dr. Fournier che stava soccorrendo un ferito” (dich. ud. 3/4/2008).
Zaccaria Emiliano: “… Mettere un edificio in sicurezza per noi significa dirigersi subito al piano più alto per individuare le persone che lo occupano e renderle inoffensive, in modo tale che non si possano svolgere azioni che compromettano o blocchino l'operazione di Polizia Giudiziaria ... Ero di fronte al portone centrale, ma vista la presenza di numerosi colleghi mi diressi con Ledoti e Stranieri verso il portone di sinistra; mentre cercavamo di aprirlo, venimmo fatto oggetti di una sassaiola. Vidi che all’interno vi era già un collega che ci aiutò infatti ad aprire il portone. Ricordo che davanti alla porta c'era un armadio messo per traverso; lo sgombrammo e mi diressi subito a destra dove vi era un corridoio; vedevo persone che venivano verso il portone da cui eravamo passati; mi venne incontro una persona di mezza età, con le mani alzate; allora girai e andai su per le scale per fare la bonifica. Mentre salivo mi cadde addosso qualcosa una lavagnetta piccola, dei pezzi di intonaco. Al piano superiore vi erano numerosi colleghi che erano in colluttazione con alcuni occupanti. Cercai quindi di proseguire, ma in quel momento sentii il dr. Fournier che ordinava di riporre i manganelli e di uscire subito” (dich. ud. 26/3/2008).
Cenni Angelo: “… Appena sfondato il portone davanti al quale mi trovavo, ho aspettato il momento per fare ingresso con i miei uomini, non so calcolare in quanto tempo chi mi precedeva può essere entrato. Ricordo tuttavia che il portone non si è aperto completamente ma a metà e ciò ha reso più difficoltoso l’ingresso degli uomini. Una volta entrato con la mia squadra mi sono subito fermato nell’atrio … Mi sono quindi diretto verso le scale di sinistra. Nel frattempo avevo potuto passando rapidamente notare che nel locale al piano terra vi era un gruppo di persone appoggiate al muro, alcune sedute controllate da Agenti in borghese con pettorina e casco di tipo lucido … Proseguendo per le scale, avendo avuto la sensazione che al primo piano ci fossero già alcuni colleghi, mi portavo verso il secondo piano, avevo infatti sentito alcune voci, sempre di colleghi che mi precedevano che occorresse andare ai piani superiori. Ero quasi giunto al secondo piano quando ho sentito tramite l’apparato radio portatile il dirigente Fournier che richiedeva personale medico per alcuni feriti ed ordinava di riporre lo sfollagente e di portarsi fuori dall’edificio. Per scrupolo ho proseguito fino al secondo piano e mi sono affacciato vedendo alcune persone stese a terra, alcune appoggiate al muro, ma tutte controllate da personale in borghese con pettorina” (int. 22/9/2001).
Ledoti Fabrizio: “… con Stranieri e Zaccaria entrai dal portone sulla sinistra che era chiuso e mentre cercavamo di aprirlo venimmo fatti oggetto di lanci di oggetti dall’alto, tanto che diedi l’ordine di alzare gli scudi; salii insieme ad altro personale in divisa atlantica o con pettorine con la scritta Polizia; un manifestante mi tirò contro degli oggetti ed io lo fermai e lo consegnai a colleghi; salendo incontrai un'altra persona che fece resistenza; continuai a salire e nel tragitto incontrai personale in borghese o in atlantica che effettuava normali servizi in quei frangenti; vidi anche un collega che colpiva un manifestante con il manganello ma data la concitazione del momento non vi feci molto caso; salendo incontrai una ragazza che era molto spaventata e così la accompagnai al piano terra; in quel momento ricevetti nell’auricolare l’ordine dal dr. Fournier di riporre il manganello e di scendere; mentre scendevo venni anch’io colpito, mi pare con un manganello dietro il casco, ma non sono riuscito a vedere chi mi colpì; anche la ragazza venne colpita. La portai fino al piano terra ove la consegnai ad un collega” (dich. ud. 26/3/2008).
Stranieri Pietro: “… sfondai con l’aiuto del capo squadra Ledoti il portone di sinistra; siamo riusciti a fare saltare il lucchetto che chiudeva una catena colpendo il portone con un banco … Entrato vidi sulla mia destra che era in corso una colluttazione tra personale appartenente al mio nucleo, riconosciuto dalle divise indossate, con persone presenti nella palestra; si trattava del personale che era entrato dal portone centrale e che aveva ingaggiato delle colluttazioni con le persone presenti; era in corso uno strattonamento reciproco con le mani; non vidi usare il manganello … Aprii le porte dei bagni al piano terra situati sulla sinistra rispetto all’ingresso di sinistra; quindi non trovando nessuno salii per le scale accodandomi ad altri colleghi che stavano salendo; anche al primo piano con un calcio aprii le porte dei bagni, trovai una ragazza impaurita, era bionda con i capelli lunghi, una maglietta verde militare, di carnagione chiara, alta 1,65, senza ferite apparenti; la affidai ad uno della mia squadra e proseguii verso il 2° piano dove vidi, nella parte in fondo al corridoi, un ragazzo steso a terra ferito alla testa; aveva i capelli ondulati tipo ‘rasta’, biondi, alto circa 1,80; nonostante ferito veniva colpito con manganello da poliziotti in borghese con la pettorina, con il casco e il volto coperto dal fazzoletto rosso. Mi avvicinai al ragazzo come per proteggerlo e i poliziotti si allontanarono e a quel punto sentii la voce, mi sembra, di Canterini, via radio, che ci diceva di ricompattarci all’esterno della scuola” (int. 21/9/2001).
Compagnone Vincenzo: “… Io e la mia squadra ci siamo ammassati davanti al portone centrale che era chiuso. Con noi c’erano anche molti altri poliziotti che spingevano da tutte le parti; io stesso venni sospinto ... Quando entrai vidi un androne, di fronte a me sulla sinistra non vidi persone ma solo sacchi a pelo vuoti, sulla mia destra dal fondo della sala si avvicinava una persona anziana con i capelli bianchi verso il quale si portarono subito altri poliziotti, quasi tutti in borghese con pettorina, che mi chiusero la visuale.
Come già disposto dal Dr. Canterini in Questura mi portai con la mia squadra al terzo piano dove vi dovevano essere le citate persone pericolose; salendo incontrammo difficoltà perché vi erano assi accatastate e dei miei colleghi che scendevano, alcuni da soli ed altri con persone fermate. Arrivai ad un piano alto che in relazione ho indicato come terzo e qui rimasi colpito dalla presenza di un ragazzo steso a terra in una pozza di sangue, con gli occhi riversi che sembrava morto … ci venne quindi data disposizione via radio, non ricordo se da Fournier o Canterini, di riporre il manganello e di scendere giù in cortile; con me è scesa tutta la mia squadra; in cortile ho trovato le altre squadre del mio reparto” (int. 20/9/2001).
[84] Basili Fabrizio: “… Giova precisare che all'interno dell'atrio principale potevo notare già la presenza di altro personale P. di S. in uniforme atlantica ed in borghese con casacchina Polizia e con casco calzato che ingaggiava colluttazioni con facinorosi ed in qualche occasione anche in superiorità numerica rispetto agli antagonisti, il tutto avveniva nella più completa confusione tra giovani che fuggivano e personale in borghese che li inseguiva. Successivamente mi portavo presso le scale di accesso ai piani superiori unitamente al altro personale del Reparto Mobile, ove notavamo che gli operatori in borghese ed in divisa atlantica ridiscendevano dalle stesse, giunto nel corridoio del primo piano notavo molti giovani a terra già sanguinanti per il presumibile scontro con il personale precedentemente indicato e si attivava al pronto soccorso” (Relazione di servizio 27/7/2001).
Tucci Ciro: “… Inoltre notavo che erano giunti prima di noi altri operatori in divisa in atlantica, tuta da O.P. con cinturone bianco e in borghese che indossavano il fratino i quali pestavano con lo sfollagente alla rovescia di santa ragione i giovani che si erano nascosti nelle stanze di quel piano, inoltre venivo informato che dei colleghi in atlantica avevano preso a calci in testa alcune persone che già erano a terra … successivamente mi portavo con il mio gruppo al terzo piano notando che un collega trascinava una ragazza per i capelli e continuando a picchiarla con lo sfollagente, successivamente vedevo il V.S. Ledoti che portava via una ragazza molto impaurita al piano terra dove erano stati concentrati alcuni giovani fermati, per non farla picchiare ancora” (Relazione di servizio 27/7/2001).
Lucaroni Carlo: “… Una volta riuscito ad entrare all'interno del fabbricato, notavo che nell'atrio personale di Polizia in abiti civili, indossante la casacchina Polizia e con casco indossato, aveva già dato inizio all'operazione ingaggiando con delle persone presenti violente colluttazioni operando anche in superiorità numerica rispetto all'antagonista. Stesso atteggiamento era posto in essere dal personale in uniforme atlantica … salivo al terzo piano e mentre mi trovavo all'ingresso del corridoio notavo alcuni operatori in divisa atlantica, i quali dopo aver infranto alcuni vetri delle finestre nell'uscire in mezzo ad una coltre di fumo bianca, presumibilmente sprigionata da un estintore, ingaggiavano colluttazioni con dei giovani presenti che probabilmente avevano posto in essere delle resistenze” (Relazione di servizio 27/7/2001).
Compagnone Vincenzo: “… Su tutti i piani dell'istituto vi erano operatori con "'fratini"', divisa atlantica e tuta con cinturone bianco, giunto al terzo piano con molta fatica, notavo che, operatori ed altri accanirsi e picchiare come belve dei ragazzi, uno di questi era a terra in una pozza di sangue e non dava segni di vita, veniva immediatamente chiamata l'ambulanza” (Relazione di servizio 27/7/2001).
Stranieri Pietro: “… Nel passaggio mi mettevo a difesa di un occupante che giaceva in terra e che presentava ferite in testa poiché al passaggio, alcuni colleghi in borghese con fratino Polizia continuavano a sferrare colpi al ragazzo” (Relazione di servizio 27/7/2001).
Ledoti Fabrizio: “… Giunto al terzo piano notavo … una ragazza probabilmente impaurita dalla situazione, che piangeva; mi portavo vicino alla ragazza e mentre la portavo al piano terra, cercavo di tranquillizzarla. Durante il tragitto, lo scrivente, per difendere la ragazza riceveva diverse "manganellate" sferrate credo all'indirizzo della stessa. Si rappresenta che lo scrivente ha ricevuto tre "manganellate" sulla schiena e la ragazza una sulla nuca che gli ha provocato una ferita dalla quale usciva sangue. Si fa inoltre presente che lo scrivente una volta colpito cercava di capire da chi fosse partito il colpo, notando, una persona in borghese che indossava sul volto un "Kefir" che si è subito dileguata; per quanto riguarda le manganellate escludo che siano state sferrate da personale del mio nucleo, in quanto, detto reparto e dotato di uno sfollagente costituito da materiale differente facilmente riconoscibile” (Relazione di servizio 27/7/2001).
[85] Caldarozzi Gilberto: “… Non ho curato personalmente la redazione degli atti … Ci siamo comunque basati sulla relazione del dott. Canterini che riferiva in maniera piuttosto evidente della resistenza incontrata. Prendo atto che la S.V. mi dice che il dott. Canterini avrebbe smentito che il suo reparto abbia incontrato resistenza e che le colluttazioni descritte avrebbero coinvolto personale di altri reparti, ma nulla posso dire, ho appreso di questa nuova versione solo successivamente e nulla posso dire per diretta percezione essendo io entrato nell’edificio ad irruzione già avvenuta” (int. 31.5.2002).
“… la decisione di arrestare fu presa sul posto e cioè alla scuola Diaz, subito dopo l’intervento … non abbiamo mai considerato l’idea di discriminare tra gli occupanti, perché io avevo l’idea del fenomeno associativo, che accomuna tutti nella responsabilità del reato contestato” (int. 2/7/2002).
“Pur essendo tra i firmatari del verbale di arresto in cui si menziona il luogo di rinvenimento delle molotov, non ho appreso e non so riferire chi e come abbia, nella formazione di tale atto riferito le circostanze specifiche contenute nel medesimo verbale sulle bottiglie molotov; prendo atto che nessuno dei funzionari interrogati è in grado di specificarlo, ma purtroppo io non ne sono a conoscenza” (int.30/7/2002).
Mortola Spartaco: “… Gli occupanti la Diaz a mio parere sono stati portati fuori dalla scuola in stato di fermo per identificazione; non si era ancora maturata la decisione dell’arresto, che venne poi adottata in Questura … abbiamo pensato che contestando un reato associativo fosse superabile il problema dell’attribuzione dei singoli fatti; d’altronde la contestazione del reato di cui all’art. 416 cp era già stata utilizzata in occasione dell’arresto di altre numerose persone lo stesso sabato” (int. 23.7.2002).
“… Quanto al reato di resistenza, gli elementi su cui ci siamo basati sono stati la relazione di Canterini, le altre relazioni relative all’aggressione dell’Agente Nucera oltre che la percezione diretta del lancio di oggetti. Prendo atto che mi si contesta che a fronte di un numero così elevato di feriti tra gli arrestati, alcuni anche gravi, non si sia provveduto a ricostruire alcuni degli episodi che avevano portato al ferimento e quindi all’impiego massiccio della forza fisica da parte degli operanti; prendo altresì atto che mi si contestano difformità tra quanto da me dichiarato circa la consistenza del lancio di oggetti e il “fittissimo” lancio riportato nel verbale, nonché l’assenza di indicazioni di elementi da cui viene tratta la descrizione o deduzione che gli occupanti della scuola avessero lanciato i loro zaini per impedire agli operanti di identificare i loro possessori; a tutto ciò rispondo che la valutazione è stata fatta sulla base dei soli elementi che in quella situazione concitata e di emergenza si erano potuti raccogliere, a ciò si aggiunga ancora che gli uomini del Reparto Mobile sono ripartiti subito la mattina del 22 per Roma” (int. 27/10/2001).
Dominici Nando: “… la mia fonte di informazioni è stato il dott. Mortola con il quale mi rapportavo quella sera e che a sua volta si rapportava in via esclusiva con i funzionari SCO; debbo peraltro precisare che la redazione della annotazione è avvenuta per mano del dott. Schettini su mio incarico e che io sono solo firmatario; ha partecipato alla redazione anche un funzionario Digos di cui non ricordo il nome … io ho ritenuto di firmare perché ho creduto che le cose fossero andate come erano state prospettate nei verbali e nella notizia di reato”.
Ferri Filippo: “… le fonti che ho utilizzato per la redazione del verbale erano le relazioni di servizio del personale che aveva partecipato alle operazioni, come quella del dott. Canterini; ricordo che la redazione dell’informativa della notizia di reato, quella che risulta a firma del dott. Dominici e Mortola, veniva redatta dal dott. Schettini e dal dott. Gallo … non so indicare la persona o le persone che hanno indicato chi dovesse sottoscrivere i verbali di perquisizione e di arresto; io ho detto ai miei uomini di sottoscrivere anche loro i verbali, avendo comunque partecipato alle operazioni nel loro complesso … ricordo che condivisi la prospettazione dell’ipotesi di reato associativa e che in tale parte del verbale di arresto deve individuarsi il mio contributo; credo che tale prospettazione fosse condivisa anche dal dott. Caldarozzi” (int. 20.09.2002).
Ciccimarra Fabio: “… Sono tra i firmatari del verbale di arresto, che materialmente è stato redatto da me e dai colleghi Gava e Ferri. Alla base degli elementi evidenziati nel predetto verbale c’era la relazione del Dr. Canterini e c’era la dichiarazione dell’Ag. Nucera, oltre agli esiti della perquisizione. Nel verbale di arresto si fa riferimento anche alle dirette percezioni degli operanti, fra cui il sottoscritto” (int. 13.10.2001).
Di Sarro Carlo: “… ricordo che quando ero in Questura i verbali da me sottoscritti erano già pronti, non so se fosse già pronta la trasmissione della notizia di reato che è atto che io non ho visto, non avendola sottoscritta … Debbo dire che solo nel momento della mia sottoscrizione appresi dell’effettivo arresto delle persone … Lessi allora gli atti, in particolare il verbale di arresto, che appresi dal collega Ferri essere stato materialmente redatto da lui e dai colleghi Gava e Ciccimarra, e mi preoccupai di verificare se le mie conoscenze, anche se piuttosto scarse, coincidessero con quanto affermato nel verbale. Non ho avuto in particolare modo di rendermi conto della evidente sproporzione, che mi si fa notare, sull’esito cruento della irruzione rispetto alle condotte di resistenza, solo genericamente descritte nella relazione del dott. Canterini” (int. 23/10/03).
Mazzoni Massimo: “… Rientrato in Questura, negli Uffici della Squadra Mobile il dott. Dominici o un altro funzionario mi disse di dare una mano alla repertazione e all’inventario degli oggetti sequestrati, che si trovavano negli Uffici della DIGOS. Ricordo un funzionario, il dott. Gallo, che mi disse di iniziare a stendere un verbale di perquisizione; eravamo insieme in una stanza degli Uffici Digos. Ho iniziato a stendere il verbale, ma mi sono limitato a stendere la parte relativa all’elenco degli oggetti. Non ricordo altri particolari , anche perché io mi sono allontanato verso le 10.30 di mattina e sono ritornato nel primo pomeriggio, quando ho firmato il verbale che era già stampato. Non posso escludere che qualcun altro lo abbia integrato. Ad esempio, io non ho certo inserito l’elenco dei nominativi degli arrestati e gli orari che compaiono nel verbale” (int.6/2/2003).
Di Novi Davide: “… ci siamo così recati all’ospedale Galliera, dove, sotto la direzione di un funzionario dello SCO e di un altro funzionario donna, abbiamo proceduto all’identificazione dei feriti. Non è stata un’operazione facile, tanto che abbiamo trascorso lì quasi l’intera notte. Verso le 07.00 di mattina o forse più tardi abbiamo raggiunto Bolzaneto dove abbiamo consegnato al dott. Ferri l’elenco che avevamo redatto, sia su un floppy che su cartaceo. Ferri stava redigendo gli atti con altri due colleghi. Ho firmato in Questura i verbali di arresto e perquisizione su disposizione dello stesso dott. Ferri. Ho letto i verbali che ho firmato avendo partecipato, sia pure limitatamente a quanto descritto, all’operazione di arresto e perquisizione, mi sono fidato per il resto di quanto attestato da altri. Solo in quel momento ho appreso dell’accoltellamento di un collega che aveva redatto anche una relazione. Delle molotov invece, se ricordo bene, avevo appreso da qualcuno che non so indicare, nella fase in cui stavo cercando il collega Cerchi ed entravo ed uscivo dalla scuola” (int. 24.1.2003).
Cerchi Renzo: “… ho ricevuto l’ordine dal funzionario dott. Ferri di recarmi con gli altri miei colleghi all’Ospedale Galliera per occuparmi della identificazione dei numerosi feriti che erano stati lì trasportati … Abbiamo così compilato una lista con tutti i dati dei feriti e ci siamo recati a Bolzaneto per consegnarli. Erano ormai quasi le quattro o le cinque di mattina. A Bolzaneto si trovavano il dott. Ferri,un suo collega della Squadra mobile di Napoli ed uno di Nuoro . Li ho visti in una stanza e a loro abbiamo consegnato i dati, ma nulla so dire della redazione di atti da parte loro, a me personalmente non sono state chieste informazioni su quanto avevo fatto o visto. Ho firmato il verbale di perquisizione e di arresto in Questura nel pomeriggio della domenica, perché mi era stato richiesto dal funzionario dott. Ferri , ma debbo dire che la mia firma mi sembrava un atto dovuto perché avevo sia pure parzialmente preso parte alle operazioni di perquisizione e alla identificazione di numerose persone. Ho letto attentamente i verbali prima di firmarli, ma non potevo mettere in dubbio quanto altri avevano riferito” (int. 24.1.2003).
Di Bernardini Massimiliano: “… Ho solo firmato il verbale di arresto, ma non ho partecipato alla sua redazione. In effetti in Questura, dove ci siamo riuniti subito dopo l’operazione, abbiamo tirato le fila della operazione e valutato il da farsi, ci siamo comunque trovati tutti d’accordo con la soluzione di arrestare tutte le persone, anche con la contestazione di una associazione a delinquere. Non ricordo chi ebbe questa idea, ma comunque tutti eravamo d’accordo che l’alternativa unica praticabile era l’arresto di tutte le persone presenti” (int. 17/12/2001).
“… Poi ci siamo portati a Bolzaneto dove io ho redatto la mia relazione. Io ho firmato il verbale alcune ore dopo. Materialmente i redattori dell’atto sono stati Ciccimarra e Ferri. Ribadisco che la decisione di arrestare e di contestare l’ipotesi di associazione a delinquere è stata condivisa da tutti” (int. 17/6/2002).
“… di tali verbali non sono l’estensore ma solo il firmatario; li ho firmati il primo pomeriggio della domenica, verso le ore 15.00 e sono stato tra gli ultimi firmatari, pertanto mi sono fidato che le circostanze ivi descritte circa il rinvenimento dei reperti fossero state accertate da altri” (int. 30/7/2002).