CONSULENZE
Donatella Della Porta
Donatella Della Porta insegna Governo Locale e Scienza Politica nel Corso di laurea in Scienze Politiche all'Università di Firenze. I suoi principali interessi di ricerca riguardano i movimenti sociali, la violenza politica, il terrorismo, la corruzione, la polizia e le politiche di ordine pubblico. Su questi temi ha condotto indagini in Italia, Francia, Germania e Spagna. Ha diretto un progetto di ricerca comparato sul controllo delle manifestazioni di massa in Europa, ed uno sulla polizia in Italia.
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Modelli di controllo di polizia delle manifestazioni di piazza
La ricerca sociologica e criminologia ha distinto tre principali campi strategici per il controllo della
protesta, diversamente privilegiati dalla polizia nei diversi periodi storici (della Porta e Reiter
1996): strategie coercitive, cioè l’uso delle armi e della forza fisica per controllare o sciogliere
manifestazioni; strategie persuasive, intese come tutti i tentativi di controllare la protesta attraverso
contatti precedenti con attivisti e organizzatori; strategie informative, che consistono nella raccolta
diffusa di informazioni come elemento preventivo nel controllo della protesta, anche attraverso
l’uso di moderne tecnologie audiovisive, per identificare chi viola la legge senza dover intervenire
direttamente.
Gli interventi della polizia possono variare in termini di grado di utilizzazione della forza (“brutale”
o “soft”), ampiezza dei comportamenti considerati illegittimi (oscillando tra repressione e
tolleranza), strategie di controllo dei diversi attori (diffuse o selettive), rispetto da parte della polizia
per la legge (illegale o legale), momento dell’intervento della polizia (preventivo o reattivo), grado
di comunicazione con i manifestanti (confronto o consenso), capacità di adattarsi a situazioni
emergenti (rigido o flessibile), grado di formalizzazione delle regole del gioco (formale o
informale), grado di preparazione (professionale o “artigianale”) (della Porta e Reiter 1998b, 4).
E’ stato osservato che la combinazione di queste dimensioni tende a definire due diversi modelli di
controllo dell’ordine pubblico, internamente coerenti (cfr. figura 1). Nel primo (escalation nell’uso
della forza), viene data bassa priorità al diritto di manifestazione, le forme di protesta più innovative
sono poco tollerate, la comunicazione tra polizia e dimostranti è ridotta all’essenziale, vi è un uso
frequente di mezzi coercitivi e anche di strumenti illegali (come agents provocateurs). Nel secondo
(controllo negoziato), viceversa, il diritto di manifestare pacificamente è considerato prioritario,
forme anche dirompenti di protesta vengono tollerate, la comunicazione fra manifestanti e polizia
viene considerata come fondamentale per una evoluzione pacifica della protesta, si evita il più
possibile l’utilizzazione di mezzi coercitivi puntando alla selettività degli interventi (McPhail,
Schweingruber e McCarthy 1998, 51-54; della Porta e Fillieule 2003). A queste dimensioni, si può
aggiungere il tipo di strategie informative che le forze di polizia adottano nel controllare la protesta,
distinguendo tra un controllo generalizzato e un controllo focalizzato su eventuali responsabili di
reati.
Nelle democrazie occidentali, una trasformazione profonda nelle strategie di controllo dell'ordine
pubblico e con esse nelle pratiche e tecniche operative, dal modello di escalation nell’uso della
forza a quello di controllo negoziato, è stato osservato soprattutto in seguito alla grande ondata di
proteste culminata alla fine degli anni sessanta. Mentre la concezione diffusa dei diritti di
manifestare il proprio dissenso ha teso a divenire più inclusiva, le strategie di intervento si sono
allontanate dal modello coercitivo che aveva predominato fino ad allora. Nel corso degli anni
settanta e ottanta, pur tra rallentamenti e momentanee inversioni, si può individuare un trend di
crescente tolleranza di violazioni della legge, considerate come di entità minore. Tra i cambiamenti
emersi nelle strategie di controllo dell’ordine pubblico vi è una riduzione dell’utilizzazione della
forza, una maggiore enfasi sul “dialogo”, e l’investimento di molte risorse nella raccolta
d’informazioni (della Porta e Reiter 1998a). Queste strategie, definite di deescalation (o anche, nel
caso italiano, di prevenzione), si basano su alcuni specifici percorsi e presupposti. Prima delle
manifestazioni, rappresentanti di dimostranti e forze dell’ordine si incontrano e negoziano
dettagliatamente percorsi e comportamenti da tenere nel corso delle manifestazioni (incluso le
violazioni più o meno simboliche consentite ai dimostranti); mai le cariche si devono indirizzare
verso gruppi pacifici; mai gli accordi presi con i responsabili delle manifestazioni devono essere
violati; le linee di comunicazione tra i responsabili dei dimostranti e quelli delle forze di polizia
devono essere tenute aperte per tutta la durata della manifestazione; la polizia deve garantire
innanzitutto il diritto a manifestare pacificamente, i gruppuscoli violenti devono essere separati dal
resto del corteo e fermati, senza mettere in pericolo la sicurezza dei manifestanti pacifici (Fillieule e
Jobard 1998, McPhail et al. 1998, Waddington 1994, Winter 1998b, della Porta 1998). Deve essere
sottolineato che anche una strategia definita significativamente come “policing by consent”
(Waddington 1998) è pur sempre una strategia della polizia per controllare la protesta, però
rispettando il più possibile i diritti e le libertà dei manifestanti.
Anche se si tratta di sviluppi comuni nelle democrazie occidentali, non sono certo sparite le
differenze dei rispettivi modelli nazionali della risposta dello stato ai nuovi “sfidanti”. Per quanto
riguarda l’Italia, nel secondo dopoguerra si era sviluppata, nel clima particolare di una “guerra
civile fredda”, una forma particolarmente marcata del modello di escalation nell’uso della forza. (1)
Se la prima parte degli anni sessanta, con i governi di centro sinistra, è caratterizzata da una
distensione, elementi delle strategie tradizionali riemersero di fronte al sessantotto, in Italia
particolarmente lungo e conflittuale. Nel corso degli anni ottanta e novanta, è stato individuato un
mutamento dal modello di escalation nell’uso della forza a quello di controllo negoziato, con
tuttavia alcune peculiarità. Il cambiamento è stato promosso non tanto dalle istituzioni politiche,
quanto dal movimento per la democratizzazione della polizia sviluppatosi all’interno delle stesse
forze dell’ordine, fondamentale per la riforma del 1981 che ha portato alla smilitarizzazione e
sindacalizzazione della polizia di stato (della Porta e Reiter 2003).
Ancora restando all’Italia, per quanto riguarda, le strategie coercitive, vi è stato un sempre minore
ricorso all’uso della forza, con comunque la sopravvivenza di repertori di controllo più duri, in
particolare rispetto ai centri sociali, ma anche nel controllo del hooliganismo degli stadi. Nelle
strategie persuasive, vi è stata una evoluzione dall’utilizzazione di varie forme di intimidazione al
negoziato in vista del fine comune di garantire un pacifico svolgimento delle manifestazioni.
Diversamente che in altri paesi, non sono tuttavia state formalizzate pratiche di negoziato né sono
emerse nella polizia figure specializzate nel dialogo con gli organizzatori, con una possibile
utilizzazione “opportunistica” del negoziato. Minori cambiamenti sono emersi nell’uso delle
strategie informative, per le quali prevale tradizionalmente una concezione onnipervasiva che
assegna alla polizia il ruolo di principale organo epistemologico dello stato (della Porta 1998).
Tuttavia, mentre in passato si è spesso assistito all’uso di agents provocateurs e alla manipolazione
di notizie poco fondate sui pericoli per l’ordine pubblico, quest’uso allarmistico delle informazioni
si è molto ridotto negli anni ottanta e novanta.
Il modello di controllo negoziato, infatti, non sembra essere stato applicato coerentemente in molte
delle manifestazioni del movimento per la globalizzazione dal basso, in particolare nelle
manifestazioni contro i vertici internazionali, nel corso delle quali si è innescata una lunga
escalation. Soprattutto, la gestione dell’ordine pubblico durante i vertici spesso non sembra essere
stata in grado di difendere il diritto di dimostrazione dei manifestanti pacifici. Nei prossimi
paragrafi individueremo, in particolare, alcune caratteristiche delle strategie preventive, coercitive e
informative utilizzate a Genova, collocandole in un quadro più ampio di interventi di polizia a
grandi manifestazioni internazionali del movimento sulla globalizzazione.
Strategie preventive
A Genova è stata confermata la strategia di isolamento fisico dei luoghi del vertice già iniziata a
Seattle, la chiusura parziale delle vie di accesso alla città, una zona cuscinetto (la zona gialla) con
restrizioni alla libertà di manifestazione e una zona rossa fortificata. A metà luglio, mentre si
predisponevano alte barriere a protezione della “zona rossa” interdetta ai dimostranti dove si terrà il
vertice, si annunciava la chiusura di stazioni ferroviarie, aeroporto e caselli autostradali. La zona
rossa, con 13 varchi di accesso e con un perimetro di 8 chilometri (a Praga era stato di appena 2 km
e a Quebec City di 6.1 km), racchiuderà non solo gli spazi del vertice, ma anche alcune strade
cittadine come la via XX settembre, sede di importanti centri commerciali.
Nella preparazione del G8 l’attenzione dei governi si è concentrata inoltre sul tenere, attraverso
massicci controlli alle frontiere, gli attivisti stranieri considerati violenti lontani dall’Italia. L’11
luglio è stata sospesa la convenzione di Schengen sulla libera circolazione delle persone all’interno
dell’UE con validità fino alla mezzanotte del 21 luglio. Saranno eseguiti 140.000 controlli alla
frontiera e respinte 2.093 persone, 298 delle quali come presunti membri del black bloc, mentre
1.795 sarebbero stati i respingimenti per altri motivi (doc. 4, 139). Tra questi si trovano casi come il
traduttore del Consiglio dell’Unione Europea, arrivato a Milano in aereo, respinto alla frontiera con
la motivazione scritta “Perché in tono arrogante dichiarava andare a Genova per manifestare” (in
“Diario”, Speciale Genova, supplemento al n. 31/2001, 13).
Soprattutto negli sforzi di tenere gli attivisti violenti o presunti tali lontani dalla città che ospiterà il
vertice, diventa visibile già prima del G8 di Genova un livello europeo del protest policing, da
inquadrare in quella cooperazione tra le polizie della comunità europea iniziata a metà degli anni
settanta e diventata, con il trattato di Maastricht (1993), “terzo pilastro” dell’UE, conservando però,
anche dopo il trattato di Amsterdam (1999), il suo carattere intergovernativo. A una riunione del
Consiglio Europeo per la Giustizia e gli Affari Interni il 13 luglio 2001, indetta dopo gli incidenti di
Göteborg per concordare una maggiore collaborazione tra le diverse polizie nazionali orientata ad
assicurare lo svolgimento pacifico dei vertici, il ministro socialdemocratico tedesco Schily ha
proposto di “europeizzare” e applicare ai “no global” una prassi tedesca, sviluppata per contrastare
gli hooligans del calcio e successivamente anche i neonazisti, che consiste in un Ausreiseverbot,
cioè nel divieto di lasciare il paese. (2) La proposta di Schily -- che prevedeva la creazione di una
banca data europea dei “violenti” e l’introduzione in tutti i paesi della UE dello strumento
dell’Ausreiseverbot -- ha incontrato però la resistenza di altri paesi membri. Con riferimento ad una
Azione Comune decisa (senza dibattito) nel 1997, il Consiglio alla fine votava una serie di
raccomandazioni, tra l’altro la reintroduzione, se essenziali, di controlli alle frontiere interne sulla
base dell’articolo 2.2. della Convenzione di Schengen, il potenziamento dello scambio di
informazioni individui e gruppi ritenuti pericolosi, l’impiego di ufficiali di collegamento e
l’attuazione nazionale dell’Ausreiseverbot . (3)
Esperienze precedenti con manifestazioni del movimento, in altri stati e nel proprio paese,
influenzano le strategie delle forze di polizia. In Svezia, dopo le critiche per un uso eccessivo della
forza dell’operato della polizia durante il vertice ECOFIN a Malmö il 21 aprile del 2001, il governo
socialdemocratico annunciò di voler seguire, per il vertice di Göteborg, una politica di dialogo con
il movimento. (4) Per la prima volta nella sua storia la polizia svedese aveva istituito un gruppo di
contatto con gli organizzatori della protesta e introdotti caschi numerati per facilitare
l’identificazione dei singoli agenti di polizia (quest’ultimo provvedimento fu ritirato
immediatamente dopo gli eventi di Göteborg). Anche in Italia, con il governo di centro-sinistra
ancora in carica, le manifestazioni contro il Global Forum sull'e-government a Napoli, il 17 marzo,
erano culminate in violenti scontri. Dopo alcuni tentativi di forzare i cordoni di polizia da parte
delle frange più radicali dei manifestanti, le cariche avevano coinvolto i gruppi pacifici, mentre il
corteo si stava sciogliendo.
Diversamente che in Svezia, non sembra però che in Italia il precedente di Napoli avesse portato a
tentativi di rafforzare la ricerca di un dialogo con il movimento o a introdurre misure per aumentare
la accountability del personale di polizia. Le strategie preventive seguite dalla polizia italiana nella
fase preparatoria del G8 a Genova non hanno privilegiato l’elemento negoziale, anche se i dirigenti
delle forze di polizia hanno ripetutamente affermato di avere cercato di instaurare un rapporto e
aprire linee di comunicazione con gli organizzatori delle proteste. Nei contatti con gli organizzatori
le autorità, con il governo di centrosinistra ancora in carica, hanno a lungo cercato di convincere il
movimento a rinunciare a qualsiasi manifestazione in concomitanza con il vertice, provocando
azioni di protesta proprio con questo atteggiamento. (5) L’impressione di una bassa fiducia nelle
strategie negoziali sembra confermato dal fatto che il questore, massimo responsabile per la
predisposizione dei servizi di ordine pubblico, abbia affermato di aver visto Margherita Paolini –
l’incaricata dal governo di centrosinistra per il dialogo con il GSF, molto stimata da una parte del
movimento per la sua esperienza nel mediare fra istituzioni e società civile (doc. 5, 83ss.) – una sola
volta e di non averla considerata come una interlocutrice valida (doc. 4, 43).
Saranno gli eventi di Göteborg a convincere il nuovo governo di centrodestra della necessità di
avviare una “linea del dialogo”. Le trattative con il movimento, fino a quel punto condotte al livello
locale, vengono affidate al vertice nazionale delle forze dell’ordine. (6) Come a Göteborg, dove il
gruppo di contatto aveva iniziato a funzionare a solo cinque settimane dal vertice, le trattative
concrete sull’accoglienza dei manifestanti e sullo svolgimento delle azioni di protesta vengono
avviate con molto ritardo (nonostante le ripetute richieste degli organizzatori delle manifestazioni):
il primo incontro tra il GSF e il capo della polizia si svolge il 24 giugno.
La comunicazione tra polizia e movimento è stata spesso carente non solo durante la fase
preparatoria degli eventi di protesta, ma anche “in piazza”. Come fa notare il rapporto della
commissione d’inchiesta sull’operato della polizia a Göteborg, il gruppo di contatto durante la fase
operativa era ostacolato da una definizione incerta delle sue competenze. (7) A Genova, in più di una
occasione gli organizzatori non sono riusciti a contattare la polizia: i pacifisti di Lilliput per
esempio, congregati in Piazza Manin, sono stati informati telefonicamente da un esponente del GSF
con tre quarti d’ora d’anticipo che un gruppo di black bloc si stava probabilmente dirigendo verso la
piazza. Tutti i tentativi di contattare le forze dell’ordine falliranno e saranno gli attivisti nonviolenti,
dopo essere riusciti a difendere la piazza dai blockers, a diventare vittime di una carica della polizia
(doc. 5, 34ss., 59, 125s.). Dal canto loro, esponenti della polizia hanno lamentato che da diversi
esponenti del GSF fossero venute, anche con le manifestazioni in corso, indicazioni e richieste
contraddittorie.
Altri messaggi che la polizia mandava al movimento attraverso misure preventive confermano
l’impressione di una deviazione dalla strategia di controllo negoziato, o almeno di una sua
applicazione incoerente. Lo strumento del foglio di via obbligatorio è utilizzato per tenere lontano
da Genova alcuni militanti italiani di centri sociali, con il divieto di ritornare a Genova per tre anni
(Pepino 2001, 895). Vengono effettuate perquisizioni di case private e di centri sociali, spesso
basate in modo problematico sull’art. 41 c.p., che consente la perquisizione senza autorizzazione da
parte della magistratura, ma solo se in ricerca di armi e in casi eccezionali di necessità e urgenza. (8)
Le strategie dissuasive utilizzate a Genova erano state già sperimentate in un recente passato.
Barriere erano state utilizzate a Seattle nel 1999 e, in modo sempre più sofisticato, a Windsor
(Organization of American States Summit, 4-6 June 2000), Washington, Praga, Quebec City e
Göteborg. Treni di attivisti che si recavano a Praga erano stati bloccati alla frontiera e per Göteborg
erano stati ripristinati i controlli ai confini anche per manifestanti provenienti da paesi dell’area
Schengen. In entrambi i casi, dimostranti stranieri erano stati respinti alle frontiere; gli accessi alla
città erano stati bloccati a Quebec City. Arresti preventivi e uso di minacce di vario tipo erano stati
denunciati dai dimostranti da Seattle in poi. Irruzioni della polizia nelle sedi delle organizzazioni
che promuovevano la protesta vi erano state a Washington, Praga e Göteborg, mentre a Seattle,
Windsor e Göteborg gruppi di dimostranti erano stati accerchiati da cordoni di polizia. Se negoziati
avevano preceduto tutte le manifestazioni, durante le manifestazioni i contatti tra autorità e
organizzatori si erano interrotti sia a Seattle che a Praga e a Quebec City.
Strategie informative
Le strategie informative impiegate a Genova, come in seguito anche a Firenze, sembrano
caratterizzate soprattutto dalla indiscriminata raccolta di informazioni. Poca efficacia ha mostrato la
raccolta, anche attraverso la collaborazione con le altre polizie europee, di informazioni mirate al
respingimento di presunti attivisti violenti alle frontiere. Sono state 298 le persone respinte come
appartenenti ai black bloc, mentre si stimava in 2.000 il numero degli arrivi dall’estero, e la polizia
italiana aveva compilata una lista con 1.439 nomi (doc. 4, 134ss.). Carente sembra essere stata,
inoltre, l’utilizzazione di informazioni concrete da parte della polizia: il Sisde, per esempio, aveva
informato la questura che il 20 luglio un gruppo di black bloc si sarebbe concentrato in piazza da
Novi, assegnata come piazza tematica al Network per i diritti globali. La polizia non interverrà e il
Network si vedrà costretto ad abbandonare la piazza (Gubitosa 2003, 170ss.). A Genova, come a
Göteborg, le strategie informative avranno invece un ruolo importante, seppure non molto efficace,
nell’identificazione successiva di attivisti responsabili di episodi di violenza. (9)
Come si dirà più avanti, a Genova inoltre è riemerso (come già a Washington) un uso allarmistico di
informazioni provenienti da fonti poco attendibili, e rivelatesi in seguito infondate (che ricorda il
caso del congresso del partito democratico a Chicago, quando i dimostranti vennero accusati di
voler inquinare con LSD gli acquedotti della città; cfr. Donner 1990, 116-17). Se queste notizie non
hanno scoraggiato la partecipazione alle manifestazioni, esse hanno però favorito il diffondersi,
soprattutto fra le forze di polizia, di una immagine dei dimostranti come pericolosi, violenti se non
terroristi.
Strategie coercitive
La durezza e non-selettività di molti interventi delle forze dell’ordine a Genova, e gli elementi di
vera e propria illegalità che sembrano emergere dalle indagini della magistratura hanno portato
all’affermazione, dall’interno della polizia: “Ci siamo ‘visti’ e scoperti diversi da come pensavamo
di essere, da quelli che credevamo di essere”. (10) Le forze dell’ordine hanno fatto massiccio uso di
gas lacrimogeni e urticanti (con più di 6.200 granate lanciate tra il venerdì e il sabato),
disattendendo una circolare del febbraio del 2001 del capo di polizia che raccomandava la massima
prudenza e attenzione nell’impiego dello sfollagente e dei lacrimogeni. (11) Appartenenti alle forze
dell’ordine hanno sparato almeno 20 colpi di pistola, uno con esito mortale (doc. 3, 145). Ripetute
cariche violente hanno coinvolto, sia il venerdì che il sabato, in modo massiccio anche la grande
maggioranza dei manifestanti pacifici. Sono stati utilizzati, su iniziativa di alcuni dei più alti
funzionari di polizia presenti, blindati lanciati sulla folla a velocità sostenuta (Gubitosa 2003,
219ss.). Non è stato predisposto invece un servizio a tutela dei manifestanti, con un cordone di
polizia ad aprire il corteo (doc. 3, 164; Gubitosa 2003, 505) e, come a Göteborg, fallimentari sono
stati gli interventi contro le provocazioni dei black bloc (tutte lontane dalla zona rossa). Gli atti
processuali dimostrano, in particolare, una certa lentezza nella movimentazione dei reparti delle
forze dell’ordine inviati a Marassi prima e a Piazza Manin. Ancora secondo le intercettazioni
presentate al processo, non solo il ritardo nell’intervento (più volte sollecitato dalla centrale
operativa) lascerà mano libera al black bloc, ma ad esso sarà anche collegata la carica violenta a
pacifisti nonviolenti di Rete Lilliput (al reparto che interviene a Piazza Manin viene comunicato
l’ordine di fare molti arresti) e le cariche al corteo autorizzato delle Tute Bianche.
Genova appare il culmine della escalation nelle strategie coercitive impiegate contro il movimento:
anche a Göteborg singoli agenti avevano fatto ricorso alle armi da fuoco, ferendo tre manifestanti,
uno di loro gravemente, ma la polizia svedese non aveva usato gas lacrimogeni, e le manifestazioni
pubbliche organizzate dal movimento si erano potute svolgere pacificamente. Se a Praga ci furono
600 feriti, tra di loro 150 poliziotti, per Genova le stime arrivano a più di 1.000 feriti (Gubitosa
2003, 177s.). Come a Praga e a Göteborg, l’alto numero di fermi solo in esigua parte si è tradotto in
mandati di arresto, per lo più contro cittadini stranieri. (12) Se non altro, questo sembra una
indicazione dell’incapacità della polizia di fermare i violenti, che secondo le cifre fornite dalla
stessa polizia erano molto più numerosi, o di presentare alla magistratura prove sufficienti per la
convalida dei fermi.
Un evidente allontanamento dalla strategia di controllo negoziato, che prevede accordi chiari sulle
iniziative e forme di protesta permesse, emerge nel momento chiave delle giornate di Genova,
quando il venerdì un contingente di carabinieri carica il corteo dei disobbedienti, che si muoveva
ancora su un percorso autorizzato e, secondo varie testimonianze, si era mantenuto fino ad allora
pacifico. (13) La versione ufficiale data dalla polizia, e cioè che l’attacco sarebbe partito dai
manifestanti, di fronte alle numerose testimonianze e al materiale video che la smentiscono, dovrà
essere attenuata già nella relazione di maggioranza della commissione parlamentare. (14) I filmati
presentati al processo mostrano infatti che le cariche al corteo non sono provocate da una rottura
dell’ordine pubblico in atto, né sono (almeno inizialmente) coperte da ordini della centrale di
comando (secondo le registrazioni presentate al processo, il reparto che caricherà il corteo è stato
informato del passaggio del corteo autorizzato e un funzionario dalla centrale esprime anzi il suo
disappunto per la carica alle Tuta Bianche). Da quanto si sa, non è stato fatto nessun tentativo da
parte delle forze dell’ordine di comunicare con il gruppo di contatto, che (come sempre) si trovava
alla testa del corteo dei disobbedienti. Inquietanti le implicazioni della versione fornita in una
intervista dal funzionario che dirigeva il gruppo di carabinieri, secondo il quale l’attacco si rese
necessario perché con la zona rossa alle spalle non si poteva far avanzare il corteo delle tute bianche
fino a piazza Verdi, e cioè fino al punto per il quale la stessa questura aveva data l’autorizzazione. (15)
Le registrazioni presentate al processo indicano una lunga interruzione delle comunicazioni radio
tra centrale di comando e reparto che interviene nelle cariche, con una sorprendente assenza di
strumenti di comunicazione alternativi. Se i disobbedienti parleranno di una trappola premeditata,
altrettanto grave sarebbe comunque se l’ordine della carica fosse il risultato dell’incompetenza,
della confusione o di un crollo delle linee di comunicazione e di comando.
Se fino alla carica, ad eccezione di atti vandalistici dei black bloc estranei al corteo, non vi erano
stati incidenti, “il disordine è--secondo il corrispondente del quotidiano “La Stampa” Giulietto
Chiesa (2001, 44)--da quell’istante il prodotto diretto, inequivocabile, di una scelta dei carabinieri”.
Dopo le cariche, sono scattate infatti reazioni di autodifesa e di solidarizzazione anche violente:
“l’avanzata dei carabinieri incontra dunque una resistenza che, prima ancora che attiva è inevitabile:
o prendi le manganellate o ti difendi. Ed è così che, sotto i miei occhi, quei due o tremila giovani
che stavano alla testa del corteo, vengono trasformati in combattenti attivi e furibondi” (ibidem, 45).
Le ricostruzioni al processo confermano l’immagine di un intervento coercitivo a dir poco mal
coordinato, con un ricorso a tecniche di escalation con cariche ripetute e prolungate su un corteo. Le
cariche appaiono orientate non ad un puntuale alleggerimento, ma ad un respingimento della massa
dei manifestanti. Nel corso di questi scontri una Land Rover dei carabinieri rimane intrappolata e
gli occupanti sono aggrediti da un gruppo di dimostranti: uno dei carabinieri a bordo spara,
uccidendo un manifestante genovese di 23 anni, Carlo Giuliani.
Sono soprattutto episodi a manifestazione terminata, o comunque lontani dalla piazza a fare
emergere con chiarezza comportamenti da parte di appartenenti alle forze dell’ordine che anche
esponenti della maggioranza di centrodestra hanno definito di particolare gravità e che sembrano
tradire una impronta punitiva. (16) La sera del sabato, l’irruzione alla scuola Pertini-Diaz, affidata al
GSF e utilizzata come dormitorio, avviene sempre sulla base dell’art. 41 c.p. anche se la
perquisizione (finalizzata alla ricerca di materiali utili alla ricostruzione dei fatti e non solo di armi)
è stata decisa con tempi tali da consentire riunioni in questura e comunicazioni al capo di polizia,
ma non richieste di autorizzazione all’autorità giudiziaria, pur informata dell’imminente azione
(Pepino 2001, 895, n. 44). Sessantadue dei 93 manifestanti che vengono fermati all’interno della
scuola saranno ricoverati con prognosi oscillanti tra i 5 giorni e la prognosi riservata. Su 93 arrestati
e 78 richieste di convalida vi sono ben 66 arresti non convalidati, una sola custodia in carcere ed un
divieto di dimora. La denuncia della polizia del tentato accoltellamento di un agente all’interno
della scuola sarà smentita da una successiva perizia dei carabinieri. L’elenco degli oggetti
sequestrati contiene, tra l’altro, 10 coltellini svizzeri, diverse maschere antigas e occhialetti da
piscina, una parrucca, numerosi parastinchi e altre protezioni fisiche, 6 rullini e 3 cassette audio,
due walkman, tre cellulari, 17 macchine fotografiche, 60 magliette nere e altri capi d’abbigliamento
dello stesso colore, una bandiera rossa (Gubitosa 2003, 386ss.). Sembra ormai accertato che le due
molotov, presentate come l’indizio più grave della pericolosità delle persone all’interno della Diaz-Pertini, erano state portate e depositate nella scuola dalla stessa polizia (Gubitosa 2003, 389ss.). In
un'altra parte del complesso scolastico, la polizia fa irruzione nella sede del Genoa Legal Forum e di
Indymedia, distruggendo i computer degli avvocati e portando via materiale video e cartaceo, tra
l’altro le denunce raccolte contro la polizia.
Brutalità sono state denunciate inoltre da parte delle centinaia di donne e uomini fermati dalla
polizia e detenuti nella caserma di Bolzaneto, che hanno dichiarato di essere stati picchiati
ripetutamente, costretti a cantare canzoni contro comunisti, ebrei e gay, minacciati di violenze
sessuali. Sono stati ritardati i colloqui con gli avvocati, sulla base di un previo accordo con la
procura che dilazionava l’esercizio del diritto dell’arrestato di conferire con il difensore (Pepino
2001, 902). I fermati stranieri (per la grande maggioranza cittadini comunitari) sono stati espulsi
con foglio di via senza avere nemmeno incontrato un magistrato. Numerose espulsioni, sempre
accompagnate dal divieto di rientrare in Italia senza una speciale autorizzazione del ministero
dell’interno, sono avvenute sulla base di fermi di polizia che la magistratura, non convalidandoli,
aveva già ritenuto illegittimi. Tra l’altro, vi è stato un tentativo di espellere una cittadina italiana con
doppia nazionalità (svizzera e italiana), e di rimpatriare una ragazza turca, rifugiata politica in
Svizzera in base alla Convenzione di Ginevra del 1951. Successivamente la magistratura accoglierà
tutti i ricorsi contro i decreti di espulsione presentati da cittadini comunitari (dei 12 non comunitari
ne sono stati accolti 10) (Genoa Legal Forum 2002, 157ss.).
L’immagine del movimento nella polizia
Per spiegare il comportamento della polizia. nella letteratura sociologica è stata sottolineata
l’importanza della sua cultura professionale, soprattutto dato che molti degli interventi della polizia
sono provocati da momenti situazionali, e non da disposizioni o ordini ben definiti. La necessità di
decidere sul momento se intervenire e, eventualmente, come intervenire porta il poliziotto a
sviluppare degli stereotipi su persone e situazioni percepite come possibili fonti di difficoltà o
pericolo. Questi stereotipi, filtrati dal sapere della polizia, diventano una sorta di linea guida per gli
interventi del singolo poliziotto e del corpo di polizia come soggetto collettivo. In particolare, è
stato osservato in diverse ricerche che la polizia tende a distinguere tra “dimostranti buoni” (pacifci,
pragmatici, con un interesse diretto nel conflitto e un obiettivo preciso) e “dimostranti cattivi”
(prevalentemente giovani, disinformati, violenti, “agitatori di professione”) (della Porta 1998; della
Porta e Reiter 1998b).
Le strategie informative utilizzate per il G8 di Genova, con la raccolta indiscriminata di notizie ma
soprattutto la diffusione di notizie infondate e allarmanti, hanno favorito il diffondersi fra le forze di
polizia di una immagine non differenziata dei “no global” come “cattivi dimostranti”. L’ex capo
dell’Ucigos La Barbera, a proposito della documentazione dei servizi sul G8 (364 documenti),
parlerà di una “moltitudine di informazioni risultate nella maggior parte dei casi prive di un qualche
riscontro. (…) Ad esempio, la nota del Sisde del 20 marzo 2001 anticipa l’utilizzo di palloncini
contenenti sangue infetto, almeno in parte umano, raccolto con la complicità di medici, veterinari ed
infermieri, che sarebbero stati lanciati nel corso della manifestazione. Nota Sisde del 5 aprile: gli
antagonisti avrebbero accaparrato un rilevante numero di copertoni da dare alle fiamme e far
rotolare lungo le strade in discesa che conducono al mare ove avrebbero dovuto essere posizionate
le forze dell’ordine. Nota Sisde del 30 marzo: gli antagonisti avrebbero avuto in animo di affittare
un canale satellitare al fine di divulgare la protesta a livello mondiale. (…) Nota Sisde del 19 luglio:
le tute bianche, per sfondare la zona rossa avrebbero predisposto due testuggini umane composte
ciascuna da 80 militanti” (doc. 4, 66). In una nota del Sisde si dice anche che il “braccio destro” di
Casarini aveva il compito di addestrare militarmente i giovani del centro sociale Rivolta “con
l’obiettivo strategico di far apprendere le tecniche più sofisticate della più moderna guerriglia
urbana (...) A Genova ognuno ha l’ordine di portare fionde per lanciare biglie di ferro in modo da
perforare gli scudi di sicurezza” (“La Repubblica” 23/6/01).
Informative dei servizi segreti, filtrate sulla stampa, affermano che i manifestanti vogliono prendere
in ostaggio agenti per usarli come scudi umani. Si parla inoltre di neofascisti di Forza Nuova, armati
di armi da taglio, e di gesti estremi di autolesionismo da parte dei curdi del PKK (“La Repubblica”
3/9/01).
L’immagine negativa dei “no global” come “troublemakers” domina anche nell’analisi dei singoli
settori organizzativi del movimento, preparata prima del G8: il blocco “rosa” dei pacifisti, che
ricercano però visibilità in azioni che perseguono lo scopo di impedire, boicottare, ritardare i lavori
del vertice; il “giallo” di centri sociali autogestiti e tute bianche, pronti alla disobbedienza civile e
alle azioni dirette, non escludendo il ricorso alla violenza; il “blu” dei gruppi autonomi e anarchici,
votati ad azioni dirette e violente contro la polizia, anche con il carattere della provocazione; il
“blocco nero”, elemento di maggiore rischio per l’ordine pubblico (doc. 4, 60). In questa
valutazione già il blocco rosa appare pericoloso, mentre l’immagine del blocco giallo e del blocco
blu non riflette la evoluzione di una larga parte di esso che negli ultimi tempi aveva abbandonato
repertori d’azione più dirette e violente in favore della “disobbedienza civile protetta”, non
facilitando l’apertura di un dialogo costruttivo che necessita la ricerca di una fiducia reciproca.
Ancora più nette saranno le valutazioni sul movimento espresse dopo Genova: in retrospettiva, tutto
il GSF viene dipinto come inaffidabile e una larga parte dei manifestanti come corresponsabili della
violenza.
L’immagine dominante del manifestante “noglobal” sembra basata, più che su una analisi del nuovo
movimento, su una rielaborazione di esperienze e immagini del decennio precedente, diventate
parte del sapere di polizia (della Porta e Reiter 2003, 287ss.). Se durante gli anni novanta il discorso
sull’ordine pubblico in Italia si è depolarizzato e deideologizzato, accompagnato da una prevalenza
di un “soft policing”, allo stesso tempo sono sopravvissuti però approcci duri verso piccoli gruppi
antagonisti, in primo luogo i centri sociali, che inoltre venivano percepiti come scollegati da un
movimento più grande, o da una “famiglia politica”, e perciò isolati e senza appoggi politici o
radicamento sociale.
In assenza di manifestazioni di massa, l’hooliganismo del calcio è emerso come il problema più
importante per l’ordine pubblico, e lo stadio come luogo principale di intervento di ordine pubblico.
Infatti, l’immagine dei “no global” come “hooligans dei vertici” è quella che emerge, anche nei
media italiani e europei, con più insistenza, soprattutto dopo gli scontri di Göteborg. (17)
L’importanza anche direttamente operativa della esperienza dell’hooliganismo viene sottolineata da
Alessandro Pilotto, del VI reparto mobile della Liguria: “Sembra incredibile ma ci si è chiesti se chi
è abituato, ormai quotidianamente e da anni, a tenere a bada migliaia di tifosi inferociti delle più
disparate realtà sportive, riesca a riconoscere, comprendere, e confrontarsi pacificamente con chi gli
si para davanti con scudi e caschi. Non interviene un riflesso condizionato che ti fa scattare, dopo
mesi di battage pubblicitario, tutti i meccanismi di autodifesa in tuo possesso?” (Zinola 2003, 135)
Le notizie allarmistiche alla base dell’immagine dei “no global” come “cattivo dimostrante” –
anche se successivamente saranno ritenute “assolutamente al limite del ridicolo” (così l’on. Cicchito
di Forza Italia, doc. 4, 69) -- hanno avuto effetti rilevanti sull’atteggiamento delle forze di polizia a
Genova. Come affermerà un poliziotto: “La tensione tra noi era alle stelle: per tutta la settimana
precedente ci avevano detto che i manifestanti avrebbero avuto pistole, che ci avrebbero tirato
sangue infetto e biglie all’acido. La sera di venerdì, dopo la morte di quel ragazzo, ci hanno detto
che era morto anche un carabiniere” (cit. in “Diario” 32-33/2001, 18). Più importante, ancora, le
informative allarmanti hanno influenzato la tattica delle forze dell’ordine e lo spiegamento del
personale, come confermerà l’ex questore Colucci con riferimento alla segnalazione che il
personale di polizia poteva essere aggredito e sequestrato: “Quindi sulla scelta iniziale di utilizzare
pochi uomini per combattere e per muoversi più facilmente sul territorio (gruppi da 40, 50 o 60
persone) è prevalsa, giocoforza, la tesi di creare nuclei più consistenti” (doc. 4, 23).
Anche in questo caso, l’immagine di “cattivi dimostranti” non è un elemento tipico solo di Genova.
In molte delle manifestazioni in occasioni di controvertici conclusesi con interventi “duri” di polizia
sono emersi stereotipi tipici del “sapere di polizia” su chi protesta (della Porta e Reiter 1998):
dall’immagine dello straniero come potenziali criminali (“Reisende Chaoten” sono definiti i
tedeschi a Göteborg), alla generalizzata assegnazione di un alto potenziale violento a tutti i
dimostranti, inclusi i più pacifici. Altra immagine comune alle polizie occidentali, in particolare
dopo Seattle, è quella di piccoli gruppi radicali e agguerriti, invisibili dietro le maschere nere, ma
soprattutto di organizzatori al meglio imbelli di fronte ai violenti. Anche a fronte di manifestazioni
pacifiche, sono emersi riferimenti a potenziali infiltrazioni di terroristi, nazionali o internazionali (v.
infra).
Il modello organizzativo della polizia
Se l’immagine prevalente dei dimostranti fra le forze di polizia non ha favorito strategie di deescalation,
caratteristiche organizzative possono avere accentuato gli elementi di maggiore durezza
nel controllo dell’ordine pubblico. In Italia, la compresenza di vari corpi di polizia nazionali, con
una storica rivalità e un coordinamento lacunoso, rende particolarmente complicata la
organizzazione delle operazioni di polizia -- per grandi eventi già di per sé difficile, comportando
spesso forti disagi per gli agenti. -- e a Genova appare aver avuto effetti gravi sulle linee di
comando. (18)
Durante i giorni di Genova, le comunicazioni tra sala operativa interforze della questura e i reparti
dell’arma non avvenivano in modo diretto, ma sempre attraverso la sala operativa provinciale dei
carabinieri, o sul campo in forma di comunicazione diretta tra funzionari di Ps e comandanti dei
singoli gruppi dell’arma. La direzione dei servizi d’ordine pubblico, infatti, spetta sempre ai
funzionari di Ps che però, quando si trovano a dirigere reparti dei carabinieri, non possono impartire
gli ordini direttamente agli uomini a loro assegnati, ma devono passare attraverso gli ufficiali
dell’arma. A Genova i carabinieri erano tutti in contatto diretto tra di loro e con la loro sala
operativa provinciale attraverso il laringofono, mentre i funzionari dirigenti i servizi dalla sala
operativa della questura non erano inseriti in questa rete, ma collegati a loro volta attraverso una
rete radiofonica separata. Da aggiungere che, secondo l’associazione dei funzionari di polizia già il
venerdì 20 a Genova i due ponti radio tra Questura e carabinieri erano saltati (“La Repubblica”
17/8/01).
Queste difficoltà di coordinamento e comunicazione sembrano aver pesato su specifici episodi,
inclusi gli eventi che portarono alla morte di Carlo Giuliani. Il vicequestore Adriano Lauro,
responsabile di un centinaio di carabinieri, spiega così la dinamica dell’arretramento del suo gruppo
che lasciò isolata la jeep in Piazza Alimonda: “Io ero il responsabile dell’ordine pubblico, però
dovevo dare gli ordini al capitano che gestiva materialmente gli uomini. Quindi, in quel momento,
in quella situazione, era impossibile cercare il capitano tra cento carabinieri vestiti allo stesso modo!
In più, loro erano collegati con il laringofono, io non ero collegato con loro. Di conseguenza, non
potevo più dare ordini al capitano. L’arretramento scomposto non è governabile in quei momenti”
(doc. 8, 72).
La mancanza di coordinamento appare poi massima durante l’irruzione alla Diaz-Pertini, alla quale
hanno partecipato il Reparto Mobile, che doveva mettere in sicurezza lo stabile; squadra mobile e
Digos, che dovevano perquisirlo; nucleo di prevenzione e carabinieri (per un totale di 275 unità),
che dovevano presidiare dall’esterno l’edificio. Le versioni contrastanti sull’irruzione nella scuola
evidenziano una situazione di grande confusione nelle linee di comando, sottolineata anche dal
centrodestra (doc. 6, 233). L’irruzione alla Diaz-Pertini inoltre ha fatto emergere un problema che
sembra caratterizzare tutta l’operazione di polizia a Genova: il questore, massimo responsabile per
la predisposizione dei servizi di ordine pubblico, e gli altri funzionari locali si sono visti affiancati i
massimi dirigenti del livello nazionale, senza una chiara identificazione di competenze specifiche,
con il risultato di una ulteriore confusione nelle linee di comando e una possibile
deresponsabilizzazione.
Se il problema del coordinamento delle forze di polizia è particolarmente rilevante nel caso italiano,
data in particolare la utilizzazione in ordine pubblico di un corpo come i carabinieri non
direttamente dipendente dal Ministero degli Interni, altri episodi di escalation durante vertici
internazionali hanno messo in luce i problemi derivanti dalla presenza contemporanea, oltre alle
forze di polizia normalmente dedicate all’ordine pubblico, di altri corpi, spesso corpi speciali
costruiti in funzioni anti-terrorismo e anti-sommossa. Inoltre, come già emerso in Gran Bretagna
durante il policing degli scioperi dei minatori durante il governo della Thatcher (Waddington, D.
1992), così come negli interventi in Germania durante le proteste antinucleari (Busch et al. 1988), la
compresenza di polizia locale con reparti provenienti dall’esterno crea normalmente problemi di
comando. Nei vertici internazionali, alle difficoltà di coordinamento di varie polizie nazionali, si
sommano spesso complicate e più o meno ufficiose interazioni con agenti stranieri (tra cui quelli dei
servizi segreti), al seguito dei vari capi di stato.
Equipaggiamento e addestramento
La polizia che ha affrontato le manifestazioni anti-G8 a Genova stava attraversando un periodo di
ristrutturazione: il 16 giugno del 1999 era stato costituito un gruppo di lavoro per adeguare i reparti
mobili alle mutate esigenze nei servizi di ordine pubblico. Durante l’audizione davanti alla
commissione parlamentare d’indagine (doc. 8, 29ss.), Valerio Donnini (responsabile per questa
riorganizzazione) ha spiegato come nel corso degli anni i reparti mobili avevano subito una
progressiva diversificazione di impiego, essendo usati come serbatoi di personale e
caratterizzandosi sempre meno come reparti di ordine pubblico. Un monitoraggio delle attività
aveva evidenziato un incremento di feriti e contusi tra il personale durante incidenti sia in occasione
di eventi calcistici sia di grandi manifestazioni di piazza e reso evidente una certa impreparazione
dei reparti (ibidem, 31). Era già stata auspicata la costituzione presso i reparti mobili di unità
specializzate polivalenti per l’impiego nei servizi di ordine pubblico più impegnativi, la
ridefinizione dell’equipaggiamento dei reparti mobili, la massima attenzione all’addestramento,
l’elaborazione di metodologie operative adeguate ai vari schemi delle manifestazioni,
l’individuazione di uno specifico campus di addestramento a livello nazionale, l’unitarietà di
gestione e di indirizzo.
La scadenza del vertice del G8 ha messo a disposizione le risorse finanziarie per realizzare la quasi
completa modernizzazione dell’equipaggiamento dei reparti di ordine pubblico (non solo della
polizia di stato ma anche dei carabinieri e della guardia di finanza) ritenuta necessaria per le nuove
esigenze. Per quanto concerne l’armamento, tutti i componenti dei reparti mobili impegnati a
Genova erano stati autorizzati al ricorso a bombolette spray con gas irritante CS per immobilizzare
a distanza ravvicinata eventuali “antagonisti” (ibidem, 75), mentre l’uso del tonfa, già in dotazione
ai battaglioni mobili dei carabinieri, era stato limitato a una sola unità specializzata del I reparto
mobile di Roma. (19) Come primo passo verso la costituzione presso i reparti mobili di unità
specializzate da impiegare nei servizi di ordine pubblico più impegnativi, era stato formato
all’interno del I reparto mobile di Roma un primo nucleo sperimentale su base volontaria, una
decisione che dopo Genova – dove il nucleo, tra l’altro, partecipò alla perquisizione della scuola
Diaz-Pertini – sarà criticata anche dall’interno della polizia. Gigi Notari, della segreteria del
sindacato di polizia Siulp, afferma: “Penso che il Noa (Nucleo operativo antisommossa) vada
sciolto, perché i risultati si sono visti. Il sindacato combatte la tendenza alla militarizzazione
strisciante della polizia” (“Gente”, 14/8/01, 22).
La valutazione dei pericoli che avrebbe presentato il movimento, basata sulle informative dei
servizi, sembra aver influenzato fortemente l’addestramento specifico dei reparti di polizia per il
G8. Giuseppe Bocuzzi, agente del settimo reparto mobile di Bologna, descrive così l’addestramento
a Ponte Galeria: “Il corso è nato sull’onda dell’emergenza G8, mi è sembrato improvvisato. (…) Ci
insegnavano soltanto a reprimere e non a prevenire, il movimento no global ci veniva presentato
come il nemico, non c’è stata nessuna formazione sulle varie componenti del movimento, nessuna
distinzione fra gruppi violenti e pacifici. Ci siamo preparati ai grandi lanci di molotov, a camminare
tra le fiamme, a scendere dai mezzi in corsa” (“Diario” 18/2002). Per Angela Burlando,
vicequestore (in pensione dalla primavera 2002), i corsi non tendevano a costruire un’atmosfera
serena: “Quando hanno fatto il corso a Ponte Galeria gli agenti sono stati martellati su questi rischi.
Quando ci siamo stati noi funzionari per un giorno, ho visto che gli prospettavano rischi e forme di
difesa concrete e giuste. Ma con accentuazioni forse inutili …” (Zinola 2003, 81).
La preoccupazione maggiore nell’addestramento effettuato in vista del G8 di Genova sembra essere
stata, oltre che garantire la sicurezza del personale, contrastare quegli attacchi diretti e violenti
contro le forze di polizia individuati precedentemente come elemento nuovo negli incidenti di
piazza (doc. 8, 31; doc. 9, 67), mentre trascurati sono stati sia lo stato psicofisico degli operatori e le
possibili reazioni in una situazione di tensione e stress fisico (ibidem, 124), come quelli
normalmente associati alle cariche di polizia, (20) con il problema di separare i piccoli gruppi violenti
dalla grande maggioranza dei manifestanti pacifici. Ha ammesso, infatti, il comandante generale dei
carabinieri Siracusa: “Dovremo sicuramente rivedere tanti aspetti, soprattutto per quello che
riguarda l’isolamento dei facinorosi da coloro che, invece, sono pacifici” (doc. 9, 94).
Per il G8 era stato distribuito a tutto il personale di polizia anche un “vademecum” che invitava gli
operatori di polizia ad attenersi a regole di condotta prudenti e misurate e a non considerare i
manifestanti come nemici (cfr. le citazioni in Gubitosa 2003, p. 70). Come afferma però Filippo
Saltamartini, segretario generale del SAP, l’opuscolo alla fine sarebbe stato un tentativo di scaricare
le responsabilità: “Il libretto non è andato negli istituti di istruzione o nelle questure, non sono stati
organizzati incontri approfonditi; i suoi contenuti, cioè, non sono diventati patrimonio comune”
(“Micromega” 4/2001, 83). Anche se questi incontri approfonditi ci fossero stati, è da sottolineare
che una applicazione convinta di una strategia negoziale e dialogante necessita di un lavoro di
informazione e educazione all’interno della polizia più intenso e specifico. Come hanno insegnato
diverse esperienze, deve essere superata una forte diffidenza tra gli agenti verso questa strategia, e
devono essere spiegati i margini d’azione che esistono nelle situazioni concrete (Driller 2001, 36s.,
46s.).
Una connessione diretta tra la sopravvivenza di elementi militarizzati nell’organizzazione dei
reparti mobili, più forte che in altri reparti della polizia italiana, e una insufficiente attenzione alla
professionalità emerge inoltre dall’utilizzo in ordine pubblico di personale ausiliario in servizio
militare o servizio sostitutivo del servizio militare. I battaglioni mobili dei carabinieri, normalmente
destinati all’impiego di ordine pubblico, sono composti per il 70% della forza da personale di leva
in servizio volontario (doc. 9, 67). Secondo il comandante generale dell’arma, a Genova su 6300
carabinieri, 1700 erano ausiliari, cioè giovani di leva (“La Repubblica” 27/7/01), e di leva era anche
il carabiniere che uccise Carlo Giuliani. L’Unione sindacale di polizia denuncerà che oltre il 50%
del personale dei 13 reparti mobili utilizzati a Genova era composto da ausiliari in servizio di leva
(“Liberazione” 21/8/01). Più in generale, i reparti mobili della polizia di stato fino al 2000 erano
composti per ca. il 70/80% da agenti ausiliari di leva o trattenuti, con un turn over elevatissimo
(quasi completo ogni 2 anni) e solo dopo quella data, con la diminuzione delle aliquote di ausiliari,
la percentuale di agenti effettivi è salita sensibilmente (Colomba 2003, 194). I meccanismi di
reclutamento introdotti per il periodo successivo all’abolizione della leva obbligatoria, prevista per
il 1 gennaio 2005, con il 60% dei posti nei concorsi riservati ai provenienti dalle forze armate, con
tutta probabilità rafforzeranno gli elementi militarizzati del personale. Lo stesso sindacato di polizia
SILP denuncia il rischio di militarizzazione legata alla decisione di prevedere una ferma
obbligatoria nell’esercito per le reclute di polizia (“La Repubblica” 6/8/04).
In mancanza di esperienze recenti rilevanti di ordine pubblico coercitivo legato a manifestazioni
politiche, le tattiche utilizzate a Genova appaiono poi spesso mutuate da quelle sperimentate per
altre “emergenze”. Abbiamo già accennato alle ripercussioni direttamente operative che l’assoluta
dominanza del controllo dei hooligans nella esperienza lavorativa dei reparti mobili può aver avuto.
Strategie utilizzate allo stadio di isolamento e protezione di alcune aree sembrano essere state
applicate nella concentrazione del controllo sulla zona rossa e, in parte, nella zona gialla. Nelle
testimonianze di molti fermati si cita il fatto che gli agenti penitenziari dei nuclei speciali (GOM)
applicassero ai dimostranti le stesse tecniche—in piedi, faccia al muro—utilizzate per non farsi
riconoscere dai mafiosi; e lo stesso sembra applicarsi ai NOCS dei carabinieri, intervenuti a volto
coperto. (21) La presenza a Genova di unità speciali costituite soprattutto per la lotta alla criminalità
organizzata – come i GOM e i NOCS – indica come, nell’utilizzo stesso del personale, le strategie
di controllo elaborate per la lotta alla mafia o il controllo della violenza degli stadi tracimino poi nel
controllo delle manifestazioni politiche.
Il dibattitto sulla “militarizzazione” dell’ordine pubblico si è sviluppato non solo in Italia, ma anche
in molte altre democrazie—prime fra tutte quelle che avevano vantato un approccio più
“consensuale” e tollerante nel controllo delle manifestazioni pubbliche. Emerso già nell’Inghilterra
degli anni ottanta a sottolineare sia interventi duri della polizia durante gli scioperi dei minatori, che
la creazione ed utilizzazione in ordine pubblico sulla “mainland” di squadre antiterrorismo e
antisommossa, con stili di intervento e strategie normalmente applicate alle colonie e al Nord
Irlanda, esso si è sviluppato di recente. Negli Stati Uniti, è stata riscontrata, giustificata dalla lotta
alla droga, una crescita notevole di unità paramilitari (Kraska e Kappeler 1997), oltre che segni
inequivocabili di militarizzazione nella cultura della polizia, con crescenti espressioni di militarismo
in uniformi, armamento, linguaggio, training etc (Kraska 1996). Nuclei specializzati, con il compito
tra l’altro di intervenire durante manifestazioni, contro le frange violente, esistono nella maggior
parte delle polizie europee (dove tra l’altro svolgono un ruolo rilevante nella strategia di
deescalating force, che combina impegno al dialogo e intervento mirato rispetto ad azioni ritenute
illegittime).22 Se già da anni, le varie ondate di terrorismo hanno portato alla costruzione di corpi
speciali, addestrati ad interventi di tipo militare (come la liberazione di ostaggi o la difesa di
obiettivi sensibili), soprattutto dopo l’11 settembre le strategie antiterroriste si sono intrecciate
sempre più con quelle di controllo dell’ordine pubblico. Ancora, già da alcuni anni, le polizie di
diversi paesi hanno visto il loro equipaggiamento ampliato ad includere sia strumenti di migliore
protezione, che le già discusse armi meno-letali. Un uso crescente di armi meno-letali è stato
osservato anche nel controllo degli incidenti sui campus americani, in particolare nei così detti
“beer riots” (McCarthy e McPhail 2004). Sempre più frequente è inoltre l’addestramento a tecniche
“antisommossa” e il loro collegamento a manifestazioni di protesta (della Porta, petersen e Reiter
2006).
NOTE
(1) Secondo un recente bilancio, senza aspirazioni di completezza, nel periodo dal 1947-54 rimasero uccisi 109
manifestanti in scontri con la polizia (Marino 1995, 169). Secondo una statistica del ministero dell’interno, dall’1
gennaio 1948 al 30 giugno 1950, i lavoratori uccisi “in occasione dei servizi d’ordine pubblico” furono 34 (di cui 28
comunisti), i feriti 695 (572 comunisti), 13.609 gli arrestati (di cui 10.728 comunisti) (Caredda 1995, 94s.).
(2) Dopo gli scontri durante i mondiali di calcio del 1998, la legge tedesca sui passaporti fu cambiata per consentire di
vietare agli hooligans di lasciare il paese. L’uso di questa sanzione contro neonazisti è stato accettato dalla Corte
costituzionale, anche in assenza di condanne definitive, nel caso di delitti perpetrati durante viaggi all’estero che recano
gravi danni allo stato. Prima del G8 la polizia tedesca ha diffidato 79 attivisti dal partecipare a “tumulti e violenze” e,
con obbligo di firma giornaliera, vietato ad altri 81 di lasciare il paese (“Der Spiegel” 31/2001, 24). In alcuni casi questi
provvedimenti furono confermati dalla magistratura amministrativa. Dopo Genova, questa prassi, e i criteri adoperati
per individuare e schedare attivisti violenti o presunti tali (in alcuni casi sulla base di un semplice controllo dei
documenti ai margini di una manifestazione), sono stati sottoposti ad una crescente critica (cfr. “Der Spiegel” 31/2001;
“Die Zeit”, 37/2001, 4ss.; Griebenow e Busch 2001).
(3) Cfr. Griebenow e Busch 2001, 64ff.; doc. 15. L’Azione Comune del 1997 (doc. 26) prevedeva lo scambio di
informazione su “gruppi che rappresentare minacce per l’ordine pubblico e la sicurezza”, viaggiando verso “l’evento”
da uno stato membro ad un altro. Il preambolo definisce gli “eventi” come includenti “eventi sportivi, concerti rock,
dimostrazioni e campagne di protesta che includono blocchi stradali”.
(4) Per gli eventi a Göteborg cfr. Peterson e Oskarsson 2002; Peterson 2003; Wahlström 2003.
(5) Una proposta di tenere le manifestazioni tra il 27 giugno e il 15 luglio, una settimana prima del vertice, viene
formalizzata l’8 febbraio e comunicata al GSF che la respinge (doc. 3, 111). Il 4 aprile il movimento organizza il
“telegram day” – con migliaia di telegrammi, e-mail e fax inviati al presidente della repubblica e a esponenti del
governo per sollecitare incontri per definire le modalità della protesta – il giorno dopo sit-in davanti al ministero
dell’interno a Roma e a decine di prefetture del paese (doc. 5, 20).
(6) Dopo il “telegram day” il prefetto riceve l’incarico di trattare con il GSF, ma senza nuove istruzioni. Il suo tentativo
finisce il 20 aprile, quando comunica al governo che il movimento insiste sulle sue richieste: manifestazioni nei giorni
del vertice e fondi e strutture per l’accoglienza dei manifestanti (doc. 27, 101s.).
(7) Il gruppo non è stato consultato o coinvolto quando la polizia, su decisione del pubblico ministero, ha sgomberato--
prima dell’inizio del vertice e in assenza fino a quel punto di episodi di violenza--il più grande complesso scolastico
affidato ai manifestanti, luogo anche di seminari del controvertice. Gli scarsi successi conseguiti nella ricerca di armi
improprie e attivisti violenti, con la quale l’azione era stata giustificata, non sembrano averne bilanciato i danni in
termini di credibilità del gruppo di contatto tra gli organizzatori della protesta e di animosità verso la polizia tra la
grande maggioranza pacifica dei manifestanti. Per una sintesi in inglese dei risultati della Göteborg commission,
cfr.doc. 24.
(8) Che la polizia fosse consapevole di mandare messaggi nonverbali attraverso certe misure preventive si evince dalla
deposizione dell’ex capo dell’Ucigos La Barbera, secondo il quale si sarebbe rinunciato ad una sistematica attività di
pressione preventiva per non compromettere i tentativi di dialogo (doc. 4, 61). Oltre alle perquisizioni, furono eseguite
numerose intercettazioni telefoniche, ambientali e telematiche e un censimento dei centri sociali più estremisti (ibidem,
64s.).
(9) In Svezia, la maggior parte delle persone rinviate a giudizio sono state identificate dopo il vertice sulla base di
registrazioni video: 66 attivisti sono stati condannati con sentenze ritenute “particolarmente pesanti”, a partire da
videoregistrazioni ritenute da alcuni attivisti come manipolate (doc. 28, 61s.).
(10) Zinola 2003, 73. Per una ricostruzione dettagliata dei tre giorni di Genova cfr. Gubitosa 2003.
(11) Dichiarerà il capo di polizia De Gennaro che i lacrimogeni “devono essere considerati rimedio estremo per
fronteggiare situazioni di particolare gravità non altrimenti gestibili anche in considerazione del forte impatto che
provocano sulla folla. (…) Abbiamo sentito, dalle relazioni che ho citato, che i funzionari dicono: ‘Poi ho fatto anche
ricorso ai lacrimogeni’. Ritengo che questi siano spunti di riflessione – anche della mia riflessione – per migliorare e per
correggere, se necessario” (doc. 9, 51).
(12) Ventotto arrestati saranno posti in libertà direttamente dalla Procura che non ha richiesto per loro la convalida
dell’arresto, 76 arresti non vengono convalidati. Come rileva il Genoa Legal Forum (2002, 114), “A fronte di 225
richieste di custodia cautelare rimangono in carcere solo 20 persone e vengono applicati 29 divieti di dimora a Genova.
(…) La mancata convalida dell’arresto è un evento che l’avvocato non vede quasi mai, poiché il Giudice deve valutare
se l’arresto sia legittimo solo sulla base di quanto risulta dal verbale di arresto e dalle dichiarazioni dell’imputato. In
questa situazione è decisamente difficile che il Giudice arrivi a dire che non c’erano gli elementi per arrestare
sconfessando, sostanzialmente, l’operato delle Forze dell’Ordine; il massimo del successo, di solito, è veder liberare le
persone accusate dicendo che ha commesso il reato ma non è pericoloso”.
(13) Davanti alla commissione parlamentare d’indagine, esponenti della polizia sosteranno a lungo che le manifestazioni
del 20 luglio non erano state autorizzate. Emergerà, invece, che era stato presentato regolare preavviso, e che la
questura ne aveva preso atto, negando l’uso di alcune piazze e vietando al corteo dei “disobbedienti” di oltrepassare
piazza Verdi.
(14) Per le differenze tra la prima stesura della relazione della maggioranza e la versione finale, cfr. Gubitosa 2003, 304ss.
(15) Cfr. Gubitosa 2003, 214s. I disobbedienti saranno l’unico gruppo del GSF che non riuscirà ad entrare neanche nella
zona gialla.
(16) Tratti simili, ma con conseguenze molto minori per i manifestanti, sembra aver avuto a Göteborg l’irruzione la notte
dopo gli scontri più duri, da parte di un reparto paramilitare speciale, in una scuola che serviva da dormitorio per
manifestanti, giustificato con la ricerca di un terrorista tedesco armato.
(17) Non solo nei media: una nota del Segretariato Generale del Consiglio della UE, datata 3 luglio 2001, contiene la
proposta di comparare la lista dei potenziali hooligans, preparata per il campionato europeo di calcio del 2000, con una
lista di nomi compilata dopo Göteborg (doc. 29).
(18) Per la confusione organizzativa durante le trasferte mastodontiche, soprattutto se coinvolgono anche carabinieri e
guardia di finanza, cfr. l’intervista con un dirigente del sindacato SIULP in Gubitosa (2003, 512). Sulla situazione
lavorativa pesante degli agenti impiegati a Genova, cfr. ibidem, 501s., 512; doc. 12, 109s. I disagi vanno dai lunghi
turni di lavoro, spesso comunicati all’ultimo minuto, alla inadeguatezza delle strutture di accoglienza. Anch’essi hanno
ripercussioni operative, perché gli agenti tendono ad identificare nei manifestanti i responsabili per la loro situazione.
La confusione nell’organizzazione della polizia per i grandi eventi non è però un problema solo italiano. Il sindacato di
polizia della Svezia ha pubblicato la sua inchiesta su Göteborg, basata sulle risposte di 900 agenti in servizio durante i
giorni del vertice, con il titolo significativo “Kaos”.
(19) L’utilizzazione dei nuovi tonfa (manganelli in policarbonato) era stata autorizzata dal governo Amato (doc. 3, 136).
Adottati dai carabinieri—che a Napoli ancora usavano il calcio del moschetto--già prima di Genova, i tonfa sono uno
strumento abbastanza diffuso tra altre forze di polizia. L’accusa sollevata dopo Genova che il tonfa provocherebbe ferite
molto più serie rispetto al manganello tradizionale sarà respinta dal funzionario del Ministero Valerio Donnini, che
ammetterà però i pericoli legati a un uso sbagliato dello strumento, documentato in alcuni episodi: con impugnatura,
cioè, al rovescio (come un martello), ed utilizzazione in direzione verticale (doc. 8, 35, 45). I filmati presentati al
processo mostrano anche l’utilizzazione da parte di agenti di manganelli non in dotazione.
(20) La carica richiede comunque agli agenti di comportarsi in modo aggressivo in condizioni di relativo anonimato: si
indossano indumenti protettivi; un casco copre, almeno parzialmente, il viso; soprattutto, si agisce non come individui,
ma come parte di un gruppo. L’obiettivo dell’azione non sono altri individui, ma un collettivo ugualmente anonimo – la
folla, “loro” – che magari insulta e fisicamente attacca “noi” – la polizia. Se risentimento e frustrazione degli agenti
sono accentuati da azioni dei dimostranti percepite come aggressive, le cariche consentono una ritorsione in condizioni
che minimizzano la responsabilità individuale (Waddington 1991, 177-78).
(21) I Gruppi Operativi Mobili (GOM) della polizia carceraria sono stati istituiti nel 1997 (e poi regolamentati con il
Decreto Ministeriale del 19 febbraio 1999), con il compito di controllare i detenuti più pericolosi, i trasferimenti dei
pentiti, e intervenire in caso di rivolte. Prima di Genova, erano stati già coinvolti in episodi di violenza in carcere—a
Milano nel 1998 e a Sassari nel 2000.
(22) Sulle polemiche che hanno accompagnato la loro istituzione e i loro interventi in Germania, cfr. Sturm e Ellinghaus
2002, 26 ss..
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